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giovedì 18 dicembre 2025
lunedì 15 dicembre 2025
IL COMMISSARIO DE VINCENZI - L'ALBERGO DELLE TRE ROSE
1769_L'ALBERGO DELLE TRE ROSE , Italia 1974. Regia di Mario Ferrero
Certamente
la questione ebraica, con l’ignominia delle Leggi Razziali del 1938, rimane una
delle macchie più vergognose del regime fascista ma c’era almeno un altro
aspetto simile che lasciò pesanti strascichi nel tempo e nell’opinione pubblica
nazionale: la scarsa stima, mettiamola così, per la «perfida Albione». Questo elemento
venne successivamente superato, nel secondo dopoguerra, ma in qualche «piega»
della quotidianità, ad esempio in qualche ambito delle rivalità nazionali, tornerà
spesso a fare capolino. Il giallo, genere anglosassone per eccellenza, fu in
questo senso una cartina tornasole: emblematiche le parole del commissario
Alzani (Renato De Carmine) nella serie Aprite: Polizia! che, nel 1958, sosteneva
che “la delinquenza non latina è sempre più crudele, più cinica”. Una
quindicina d’anni dopo, il commissario De Vincenzi stigmatizzerà queste
tendenze ideologiche nel finale del secondo episodio della serie di sceneggiati
a lui dedicati. L’albergo delle tre rose, l’episodio in questione, è
giunto al termine, e le rivelazioni finali hanno fatto un po’ di chiarezza
nell’intricata vicenda sviluppatasi all’interno dell’hotel milanese a cui fa
riferimento il titolo. Ma il giornale che capita sotto mano a De Vincenzi è del
giorno prima, e il poliziotto finge di compiacersi con il suo vice Sani (Franco
Ferri), di essere finito, con le indagini, in prima pagina. Il riferimento è al
titolo dell’articolo del quotidiano che, a proposito del caso dell’albergo
delle tre rose, afferma che sia vittima che probabile assassino siano «inglesi»,
con le virgolette a sottolineare la provenienza di questi turbolenti ospiti
dell’albergo. Sani –come del resto l’altro funzionario di polizia presente nei
racconti, il commissario Bianchi (Giampiero Becherelli)– è ingenuamente
convinto dell’ideologia imperante, e lo sottolinea convintamente. Sibillina la
replica di De Vincenzi che puntualizza che i soggetti implicati nel giallo, i
presunti «inglesi», siano in realtà italianissimi: Al Miretti (Pino Colizzi) è
un italiano emigrato in America per fare il gangster, e Mary Alton Vendramin
(Anna Maria Guarnieri) ha semplicemente sposato un suddito di sua maestà. E per
ricordare come gli italiani possano vantare antenati altrettanto illustri in
materia di crimini, cita Lucrezia Borgia. Da un punto di vista della confezione
formale, L’albergo delle tre rose conferma le impressioni de Il candelabro a
sette fiamme: ben costruito e ben recitato, si lascia seguire con piacere. Il
meccanismo deduttivo non è però perfettamente funzionale o almeno non lo è
secondo gli abituali criteri: è infatti assai arduo seguire le complicate
peripezie della trama gialla e addirittura impossibile anticipare o quantomeno carpire
per tempo le intuizioni del commissario De Vincenzi. Allo spettatore non resta
che seguire passivamente lo svolgersi degli eventi che hanno comunque il pregio
di appassionarlo e incuriosirlo man mano che si dipanano.
domenica 14 dicembre 2025
IL COMMISSARIO DE VINCENZI - IL CANDELABRO A SETTE FIAMME
1768_IL CANDELABRO A SETTE FIAMME , Italia 1974. Regia di Mario Ferrero
Il primo
episodio della serie Il commissario De Vincenzi lascia lo spettatore
disorientato sin dallo spiazzante incipit e ce lo lascia a più riprese. Lo
sceneggiato comincia in modo anonimo, senza titolo o sovraimpressioni: c’è un
signore, nel buio di una strada, una scena inquietante. E a ragione: l’uomo,
che ha con sé una curiosa valigia asimmetrica, verrà ucciso da alcuni sinistri
individui. A quel punto, irrompe una musica d’altri tempi a tutto volume e
compare la scritta «Luce»,
riferimento al celebre Istituto Luce. A meno di non essersi preventivamente
informati sulla natura dello sceneggiato, si potrebbe pensare già a qualche refuso.
Poi, la sigla attacca, il bel motivo musicale di Bruno Nicolai in stile anni 30
è abbinato ad immagini dell’epoca e il tutto assume un’aria più coerente. Ma
per poco: perché la musichetta allegra cambia leggermente tono e compaiono
fotogrammi di repertorio del duce e del fascismo. Quindi è il turno di alcune simpatiche
donnine con relativa soave melodia e, a seguire, un’altra virata stavolta più cupa
accompagnata da Hitler e dalle parate naziste. Un vero frullatore che lascia
basito uno spettatore dei giorni nostri figuriamoci uno di metà anni Settanta,
ma non è ancora finita. Ecco che ricompare di nuovo la scritta «Luce» e,
perlomeno, la scritta «Milano 1933» ci dà qualche minima informazione. A questo
punto dovrebbe cominciare il film vero e proprio; invece no: assistiamo alla
divertente scena finale di Due cuori felici [Due
cuori felici, Baldassarre Negroni, 1932], sebbene lì per lì non è che sia
una cosa immediata da comprendere. Poi, sullo schermo, arrivano Paolo Stoppa e
Gina Sammarco (è Antonietta, la sua governante) che discutono del film appena
visto, con la donna che non è affatto convinta della novità rappresentata dai
film sonori, abituata com’è al cinema muto. Finalmente ci siamo: il racconto
filmico è cominciato ma, come è a questo punto facile intuire, non sarà un
racconto semplice da seguire. De Vincenzi, il personaggio interpretato da
Stoppa, è un commissario di Polizia e si trova coinvolto in un omicidio che è
parte di un gioco spionistico internazionale che introduce nientemeno la
Questione Palestine, faccenda intricata ora figuriamoci negli anni 70 e peggio
ancora negli anni 30. A testimonianza che la trama sia effettivamente difficile
da decifrare nei suoi tanti anfratti, in coda al racconto il commissario fa una
sorta di riassunto e questa è, in genere, una vera e propria ammissione da
parte degli autori che il loro lavoro è un po’ criptico. In effetti, da un
punto di vista investigativo Il candelabro a sette fiamme non entusiasma, dal
momento che l’intrico giallo è poco decifrabile, tuttavia una serie di fattori
contribuiscono a strappare una sufficienza piena. In primo luogo Stoppa, che è
perfettamente a suo agio nel ruolo; poi la scelta di alcuni attori, davvero
congeniali, come Vittorio Sanipoli nei panni del barone Von Wenzel e Walter Bentivegna
in quelli di Johan Veheran, alias il Ragno, formidabile acrobata che sfoggia un
look degno di un nemico di Batman, davvero notevole. In tema di fascino,
nessuno può sognarsi di offuscare quello di Maria Grazia Spina: l’attrice
veneziana è Virginia Olcomb, un’agente israeliana d’elegante bellezza anni 70
eppure adeguata al contesto in cui ambientata la vicenda.
Ingegnoso il lavoro di De Angelis alla base, sul quale si adeguano gli autori
dello sceneggiato, riuscendo a renderlo fruibile pur tra le troppe divagazioni.
La Questione Palestinese che aleggia su tutta quanta la faccenda, aiuta a
rendere il film interessante ma più a titolo di curiosità, considerata la
complessità dell’argomento.
venerdì 12 dicembre 2025
SANDOKAN - LA PERLA DI LABUAN
1769_SANDOKAN - LA PERLA DI LABUAN , Italia, Francia 2025. Regia di Luca Bernabei e Jan Maria Michelin
Il secondo
episodio, diretto ancora da Jan Maria Michelini, è intitolato a Lady Marianna
(Alanah Bloor) e mette in effetti al centro del racconto la figlia del console
inglese Lord Guillonk (Owen Teale). Alanah Bloor non sembra tuttavia così
convincente, come interprete; ma era una critica che, in principio, si poteva fare
anche a Carole André, tanto per insistere con il paragone con lo sceneggiato
del 1976. Fu solo con l’andar del racconto che l’attrice francese riuscì a rendere
magnetica quella che, inizialmente, sembrava una bellezza troppo acerba. Per
dire, Milla Sannoner, che nel Sandokan di Sollima era un personaggio
comprimario, aveva un appeal più immediato. Quindi, quella di apparire un po’ infantile
è evidentemente una caratteristica di Lady Marianna, che trova conferma nel suo
non sopportare le scarpe e i vestiti da donna. Intanto, accanto a lei, ne La
Perla di Labuan Sandokan tiene costantemente la scena e lo fa in modo
assolutamente carismatico, con Can Yaman che gestisce con naturalezza anche le
scene meno dinamiche nel ruolo dell’innocuo mercante. Bene anche Alessandro Preziosi,
sebbene Yanez sia relegato ferito in prigione e abbia poco spazio di manovra,
ma l’attore napoletano ha infine centrato il ruolo. La trama di questo episodio
ruota intorno alla festa di compleanno di Lady Marianna e il piano di Sandokan
per far evadere i pirati, con un valido bilanciamento tra la traccia romantica
e quella avventurosa. Tra la Tigre della Malesia e l’aristocratica ragazza si
inserisce l’insidioso James Brooke (Ed Westwick) e la tensione è mantenuta alta
su entrambe le piste narrative. Brooke ha guadagnato punti, agli occhi della
ragazza ma soprattutto a quelli di suo padre il console, con il colpo di fucile
con cui ha freddato la tigre, nel finale del precedente episodio. Il salvatore
di Marianna è quindi lui, Brooke, il cacciatore di pirati; ma il suo tempestivo
intervento sarebbe stato fatalmente in ritardo se non fosse per quel mercante
che, armato del solo coltello, si era scagliato contro la belva, ferendola e
proteggendo in modo decisivo la Perla di Labuan. Questo atto di coraggio è un
po’ sospetto, per un semplice commerciante di seta: sia Brooke, che il sergente
Murray (l’ottimo John Hannah) cominciano a sentire puzza di bruciato. Questa
costante attenzione sul protagonista in incognito alimenta la tensione narrativa
che sostiene questo episodio. Tra i personaggi che si ritagliano spazio in
questa puntata si può ricordare Sani (Madeleine Price), la cameriera indigena
di Lady Marianna che si dimostra particolarmente intraprendente. Battibecca più
volte con Sandokan, viene umiliata dal Sultano Muda Hashim (Matt McCooey), un
vero bifolco, e infine è decisiva nella liberazione di Yanez e dei pirati. La
narrativa di Emilio Salgari era un susseguirsi di azione e pregna di sentimento,
e qui va fatto un plauso a Marianna/Alanah Bloor, ed è praticamente impossibile
annoiarsi. Bernabei e Michelini, con il loro toni sempre un po’ enfatici, ne trovano
una loro efficace interpretazione.
martedì 9 dicembre 2025
SANDOKAN - LA TIGRE DELLA MALESIA
1768_SANDOKAN - LA TIGRE DELLA MALESIA , Italia, Francia 2025. Regia di Luca Bernabei e Jan Maria Michelin
L’approccio del primo capitolo della nuova miniserie dedicata a Sandokan, il leggendario personaggio creato da Emilio Salgari, rischia di compromettere tutta quanta l’audace operazione ideata da Luca Bernabei e firmata in regia da Jan Maria Michelini –suo l’episodio d’esordio– e Nicola Abbatangelo. Un certo ostracismo, legato all’effetto nostalgia per lo storico sceneggiato di Sergio Sollima, era da mettere in conto, come anche tutti gli inevitabilmente deficitari paragoni con i mostri sacri del Sandokan del 1976. Kabir Bedi, Philippe Leroy, Adolfo Celi, Carole André sono divenute autentiche icone e, d’altronde, non si può evitare il confronto dal momento che il Sandokan del 2025 si rifà apertamente allo serie degli anni Settanta e, quindi, si tratta di uno scotto da pagare. Che, per molti spettatori, dopo solo pochi fotogrammi di visione, non ha possibilità di essere saldato e allora tanti saluti; questo almeno leggendo le valanghe di critiche che hanno innondato i social network. Pare che il Sandokan di Sollima, quasi per una sorta di reazione indotta, abbia avuto un’impennata negli streaming sulla piattaforma RaiPlay, dove è disponibile. Una specie di rigetto degli spettatori disgustati dalla nuova versione che si sono rituffati nell’amato sceneggiato che già ben conoscono e in cui si riconoscono. Peccato. Perché il Sandokan del 2025 non è affatto male. Certo, l’impatto, non è semplice: qualcuno ha scomodato il paragone col fumetto, ma quella di Bernabei visivamente è più una via di mezzo tra una serie televisiva e certe docu-fiction che sfoderano quei passaggi degni di un video turistico promozionale. Panoramiche realizzate con droni, grandangoli con aperture enormi, colori sgargianti, insomma, se vogliamo farci del male e tirare in ballo ancora il Sandokan di Sollima, niente a che vedere con la serietà di quelle riprese che, al contrario, erano degne del cinema vero, quello da grande schermo. Un altro tasto un po’ dolente della nuova versione è l’uso sopra le righe della regia, con l’insistito utilizzo della camera a mano, quasi fossimo in presenza di riprese amatoriali: uno stratagemma da due soldi usato per dare una semplicistica idea di verosimiglianza. In aggiunta a ciò, ai colori sgargianti, alle luci artificiali, alla regia su di tono, c’è la recitazione enfatica degli attori. Sul momento, il risultato può sembrare una specie di videogame o, forse anche un fumetto, verrebbe in effetti da dire. A patto che si intenda un fumetto che abbia conservato quell’aspetto giocoso che aveva un tempo e che, in quello stesso tempo, aveva anche il nostro cinema «di genere», per altro. Il tono enfatizzato, per la verità, per quel che riguarda i protagonisti, è legato soprattutto al personaggio di Yanez con Alessandro Preziosi che, in principio di episodio, sembra davvero troppo sopra le righe. Poi, con l’andare del tempo, un po’ forse ci si abitua, un po’ forse Preziosi aggiusta il tiro. Cosa che succede in parte anche con la regia: lo stucchevole tenore votato all’eccesso che sottolinea i passaggi forti trova poi una sua coerenza e, soprattutto, una discreta funzionalità. Quasi che il meccanismo complessivo abbia necessità di andare a regime, di trovare i giri giusti. Chi fatica assai meno a carburare è Can Yaman nei panni di Sandokan. Kabir Bedi è un’icona leggendaria, d’accordo, ma Yaman non teme certo il confronto fisico e compensa l’aura mistica del predecessore con un lato ironico molto indovinato. Questo velato aspetto umoristico potrebbe essere una delle chiavi vincenti di questo Sandokan. Insomma, mentre ci stiamo adeguando ai discutibili stilemi stilistici della serie, la Tigre della Malesia è già a Labuan, trovato sulla spiaggia e salvato da Lady Marianna (Alanah Bloor), Yanez e i pirati sono stati catturati e la storia ben congeniata da Salgari sta ora facendo il suo lavoro egregiamente. Sandokan del 2025 appassiona, altro che balle. E la scena finale, quella dello scontro con la tigre, ne è il momento clou: funziona infatti molto bene.
IL COMMISSARIO DE VINCENZI
1767_IL COMMISSARIO DE VINCENZI , Italia 1974. Regia di Mario Ferrero
È in
genere accettato che la letteratura italiana gialla non abbia radici
paragonabili a quelle anglosassoni e, oltretutto, si deve considerare, per
comprenderne il ritardo, i divieti imposti dal regime fascista che nel 1941 la
mise sostanzialmente al bando. Eppure, proprio durante il Ventennio, ci fu uno
dei pionieri del giallo italiano, ovvero quel Augusto De Angelis, prolifico
scrittore che, in seguito, sprofondò nel dimenticatoio almeno finché Oreste Del
Buono nel 1963 ne curò una ristampa. Undici anni dopo, la televisione di stato
completò la riscoperta, mettendo in cantiere una miniserie televisiva affidando
la regia a Mario Ferrero, e le sceneggiature ad un pool di autori specializzati
in detective stories, Manlio Scarpelli, Bruno Di Geronimo, Paolo Barberio e
Nino Palumbo. I romanzi selezionati avevano protagonista il commissario De
Vincenzi, portato sullo schermo da Paolo Stoppa, attore dall’atteggiamento dolente
ma ostinato che, con la sua naturale umanità, fu il punto di forza degli
sceneggiati. La peculiarità del creatore del commissario De Vincenzi, lo
scrittore Augusto De Angelis, fu quella di scrivere gialli in un’epoca, il
Ventennio fascista, che questo genere proprio non lo digeriva e arrivò
addirittura a metterlo al bando, nel 1941. Va da sé che un simile atto di
coraggio, sfidare un regime tanto prepotente, è già motivo di merito
sufficiente a porgere De Angelis in una posizione di prestigio. La Rai, nella
scelta dei titoli per la sua riduzione televisiva, diede la precedenza a Il
candelabro a sette fiamme, una storia che parlava della Questione
Palestinese più che altro in relazione alla condizione degli ebrei che, al
tempo, erano perseguitati. Il romanzo fu pubblicato nel 1936 mentre le
famigerate Leggi Razziali fasciste, discriminatorie nei confronti degli ebrei,
furono emanate nel 1938. Sembra evidente che queste ignobili leggi non
spuntarono fuori dal nulla e quindi la situazione per gli ebrei fosse già fosca
a partire dagli anni 30, ma va anche ricordato che la politica di Mussolini non
è rimasta nella storia per la coerenza nel tempo. Quello che si può dire con
certezza, perché si tratta di fatti storici, è che De Angelis nel 1943 finirà
accusato di antifascismo per i suoi articoli sulla Gazzetta del Popolo e il
regime impose il sequestro dei suoi romanzi.
sabato 6 dicembre 2025
I QUATTRO CAVALIERI DELL'APOCALISSE
1766_I QUATTRO CAVALIERI DELL'APOCALISSE (The Four Horsemen of the Apocalypse), Stati Uniti 1921. Regia di Rex Ingram
Nonostante venga in genere citato per essere stato il film che lanciò Rodolfo Valentino nell’olimpo dorato di Hollywood, I quattro cavalieri dell’Apocalisse è nel suo complesso un’opera di grande rilievo. Nel 1921 fu il film che ottenne il maggiore incasso e ancora oggi gode, per la verità, di un’ottima reputazione. Rex Ingram, il regista, sapeva il fatto suo e in questo racconto dai forti passaggi riesce sempre a tenere la barra dritta. Il testo all’origine è l’omonimo romanzo di Vicente Blasco Ibáñez e, data la trama articolata, era considerato assai poco adatto alla trasposizione sullo schermo. I meriti del successo dell’impresa sono in primis riconducibili alla sceneggiatrice June Mathis che riuscì a cavarne una scrittura di prim’ordine. Visto la qualità dell’autrice, alla Metro Pictures Corporation decisero di ascoltare i suoi suggerimenti sia per la scelta del regista (Ingram, appunto), sia per quella dell’interprete di Julio, per la quale la Mathis indicò inaspettatamente Rodolfo Valentino. Lo studio fece qualche resistenza sul nome di quest’ultimo, all’epoca praticamente uno sconosciuto, ma i fatti diedero ragione alla Mathis visto che Valentino fu l’elemento che trainò il film ad un successo epocale. Celeberrima è la scena del tango, una delle scene cult e senza tempo del cinema, ma tutte quante le apparizioni sullo schermo di Valentino marchiarono a fuoco il pubblico, in particolar modo quello femminile. Va riconosciuto che l’attore italiano aveva una bellezza magnetica che ancora oggi sembra moderna e quindi si può comprendere l’isteria delle fan, tuttavia I quattro cavalieri dell’Apocalisse è anche altro. In effetti, qualche eredità della scarsa natura cinematografica (stando alla fama) del soggetto si può ancora intravvedere, nel numero eccessivo di trame che poi il cinema, e il cinema muto in particolare, ha difficoltà a riannodare completamente. La vicenda racconta di due famiglie, i von Hartrott e i Desnoyers, discendenti da un unico patriarca, il Centauro Madariaga (Pomeroy Cannon). Siamo in Argentina, agli inizi del XX secolo e le sue due figlie si sono maritate rispettivamente con un tedesco e francese. L’ottica del racconto mette già in cattiva luce, una luce militaresca e autoritaria, il ramo tedesco e questa predilezione per la sponda francese è resa esplicita dallo stesso Madariaga che ha eletto il nipote Julio (Valentino, come detto) come favorito, a dispetto dei suoi tre cugini di razza ariana. Alla morte del vecchio le due famiglie si spartiscono l’ingente patrimonio e decidono di far ritorno al paese natale dei capifamiglia, in Europa. A conferma che i favori della storia seguono i transalpini il racconto rimane concentrato sulle questioni di casa Desnoyers, dove il citato Julio se la spassa tra la pittura e le belle donne e non ha alcuna intenzione di arruolarsi per servire la Francia allorché scoppia la Prima Guerra Mondiale.
Non contento di dare queste delusioni al padre Marcelo Desnoyers (Joseph Swickard), patriota francese, Julio si innamora di Marguerite Laurier (Alice Terry) una donna già sposata. Il che provoca un bello scandalo, visto l’ambiente altolocato in cui si muove la nostra storia, sebbene la guerra arriverà a scombinare i piani di Julio e Marguerite. I tedeschi irrompono nel castello di casa Desnoyers, con il povero Marcelo che si ritroverà a tu per tu con uno dei suoi nipoti che non mostrerà, come prevedibile, particolare clemenza nei suoi confronti. E, nel complesso, i tedeschi si comportano da veri vandali saccheggiando le case e molestando le ragazze. La guerra si fa sempre più cruenta e monsieur Lurier rimane cieco in seguito ad una ferita in battaglia: a quel punto sua moglie non se la sente di abbandonarlo per fuggire con il suo grande amore Julio. A questi non rimane che affogare il dispiacere arruolandosi: al fronte ritroverà uno dei suoi cugini ma sarà un incontro assai breve, interrotto bruscamente da una potente esplosione che ucciderà entrambi. Come si vede la trama è ricca di risvolti narrativi che necessitano di essere descritti nello specifico e ne consegue qualche intoppo di troppo da un punto di vista della scorrevolezza che, ad essere onesti, ad un film muto dalla durata di oltre due ore, si può anche concedere. Inoltre, se le escursioni surreali (a cominciare dalle citazioni bibliche) tutto sommato reggono ancora, le vampate melodrammatiche del bel Rudy alle prese con l’amata segnano un po’ il passo a guardarle oggi. In definitiva quello servito da Ingram è un cocktail dai sapori forti: la tragedia è intrisa di sentimento e romanticismo ma il risultato complessivo è quanto mai lucido. Il (presunto) pessimismo che matura nel finale si rivelerà, purtroppo, quanto mai profetico e i Quattro Cavalieri dell’Apocalisse torneranno sulla scena europea e mondiale ancor prima del prevedibile.












