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venerdì 21 novembre 2025

JACK LONDON - L'AVVENTURA DEL GRANDE NORD

1761_JACK LONDON - L'AVVENTURA DEL GRANDE NORD , Italia, Jugoslavia 1974. Regia di Angelo D'Alessandro

Nel 1973 uscì il film Jack London – La mia grande avventura, per la regia di Angelo D’Alessandro; si trattava di una versione condensata per l’uscita nelle sale cinematografiche di una lunga miniserie, sette episodi per oltre sei ore, che sarebbe stata trasmessa l’anno seguente dalla Rai. Il titolo dello sceneggiato fu cambiato leggermente, divenendo Jack London – L’avventura del Grande Nord ma, nel complesso, si tratta di un’operazione piuttosto deludente. La Produzione era una collaborazione italo jugoslava e nel paese balcanico vennero girato prevalentemente gli esterni che avrebbero dovuto «interpretare» il Grande Nord americano. Il racconto è impostato come una sorta di biografia dello scrittore Jack London, nello specifico degli anni della sua gioventù nei quali si recò nel Klondike, per la Febbre dell’Oro. Gli autori della sceneggiatura, oltre al regista Angelo D’Alessandro, Piero Pieroni e Antonio Saguera, punteggiano quest’avventura con episodi che possano essere stati poi l’ispirazione nell’attività di scrittore di London. Ci sono, quindi, riferimenti ai famosi cani protagonisti dei libri dello scrittore americano, da Buck de Il richiamo della foresta a Zanna Bianca dell’omonimo romanzo. Si tratta, come intuibile, di una forzatura, che gli stessi autori non riescono a rendere propriamente fluida. La scarsa fruibilità dello sceneggiato, le lunghe fasi di stanca, soprattutto nei primi episodi, e l’incoerente ritmo generale, tarpano le ali ad un progetto che, in linea teorica, sarebbe anche interessante. Per la verità, con il proseguo delle puntate la situazione generale migliora, ma certo difficilmente si può dire che il risultato finale sia soddisfacente. Rimane un mistero perché, a fronte di episodi in cui succede davvero pochissimo, il sesto è zeppo di azione e di passaggi davvero avvincenti. In questa puntata ci sono almeno tre situazioni che avrebbero potuto reggere il peso di un singolo episodio, equilibrando un po’ meglio tutto quanto lo sceneggiato. C’è un incontro di pugilato di London, una prova di forza di Zanna Bianca e, per finire, l’assurdo processo allo stesso cane, reo di aver aggredito e ucciso un uomo. Gli scenari jugoslavi non sono molto credibili, in particolar modo quelli non innevati che contraddistinguono la prima parte; successivamente, il manto bianco ha un intrinseco potere evocativo che mitiga la sensazione deprimente complessiva. 

Gli attori se la cavano con mestiere, per quanto non è che ci si entusiasmi troppo: Orso Maria Guerrini è Jack London, oltre che l’interprete del brano I want to go, sigla delle puntate; Arnaldo Bellofiore è Fred Thompson; Andrea Checchi è Matt Gustavson; Alfano Sarlo è Jacob Shepard; Carlo Gasparri è Merritt Sloper; Husein Cokic è Jim Goodman. Insomma, a parte qualche nome, non siamo di fronte ad un cast particolarmente memorabile. Manca quasi totalmente la componente femminile; in compenso, c’è una storia d’amore canina. Per dare corpo al «richiamo della foresta», per fare riferimento all’omonimo romanzo, viene coinvolta una lupa che va ad intessere una love-story con il cane Buck, nella prima parte dello sceneggiato. Se già, in qualche caso, nei film di avventura per ragazzi le scene romantiche tra umani erano noiose e stucchevoli, si può ben immaginare che effetto possano avere, sul povero spettatore, le infinite scene di due cani che corrono gioiosi nei campi. Ma, come detto, col passare degli episodi lo sceneggiato migliora e si potrebbe anche arrivare ad accordargli una sufficienza, mettiamola così. Se non fosse per un piccolo passaggio che difficilmente può essere trascurato. Un passaggio assolutamente discutibile che, in un simile contesto, risulta particolarmente sconveniente: è evidente, infatti, che un film su Jack London sia un prodotto che solletichi l’interesse dei più giovani. 

Se si fa riferimento a quello, come si evince dal titolo, in Jack London – L’avventura del Grande Nord non si parla tanto di un generico scrittore americano ma di quello scrittore che ha fatto innamorare migliaia di ragazzi dei paesaggi innevati, dei cani dai slitta, dei lupi selvaggi: un autore che è lui stesso un personaggio praticamente leggendario. Nello sceneggiato, ad un certo punto, una coppia di cercatori vuole comprare il vecchio Dog, un cane scansafatiche e ladro che si è affezionato a Matt, l’anziano che si è aggregato alla comitiva di London in viaggio verso il Klondike. Matt è un pover’uomo che nell’amicizia del vecchio Dog ha uno dei pochi motivi di conforto; il cane, da parte sua, non è di alcuna utilità e, piuttosto, sottrae il cibo delle sparute provviste che i viaggiatori portano con sé. Tuttavia Dog ha delle qualità insospettabili: è furbo, scaltro, sa arrampicarsi sugli alberi e, in un certo senso, è in grado di contare. Per questo attira l’attenzione degli acquirenti che offrono una bella sommetta di denaro, che potrebbe essere utile successivamente per comprare i cani da slitta. Ma con che coraggio si potrebbe convincere il vecchio Matt a separarsi dal suo cane? Un coraggio che il London interpretato da Guerrini trova e che, vedendolo esortare Matt ad accettare, provoca più disagio nello spettatore che nel vecchio. Davvero imperdonabile, questo passaggio. Per quanti soldi possano aver offerto, non possono aver raggiunto il valore dell’affetto per un cane, anche per uno che non fosse raccontato da Jack London. E il fatto che Dog lo sia, almeno stando a D’Alessandro, è una sorta di beffa per gli amanti dello scrittore americano. E, nel film, il fatto che a convincere Matt a cedere all’offerta sia proprio London, la rende ancora più amara.  



martedì 18 novembre 2025

LA LETTERA ACCUSATRICE

1760_LA LETTERA ACCUSATRICE (Cause for Alarm!)Stati Uniti 1951. Regia di Tay Garnett

È una cosa un po’ sorprendente che un regista che nel 1946 abbia diretto un classico come Il postino suona sempre due volte [The Postman always rings twice, Tay Garnett, 1946], si ritrovi, cinque anni dopo, alle prese con la regia di un film come La lettera accusatrice. In sé, Cause for Alarm! non è certo un’onta all’interno di una filmografia, tuttavia è troppo evidente la sua matrice minore per essere davvero ritenuto interessante per un cineasta che avesse diretto, oltre a Lana Turner, anche Marlene Dietrich e Jean Harlow, solo per restare alle attrici famose. Per la verità, ne La lettera accusatrice, c’è Loretta Young, star di un certo rango che può quindi aggiungersi alla lista, ma questo è uno dei pochi elementi davvero di rilievo del film. Che non è brutto, come accennato, ma, unicamente, si fonda su un pretesto narrativo che poteva essere valido per un film televisivo se non addirittura un telefilm. Stando alle cronache, la Young insistette con il marito Tom Lewis, produttore della pellicola, per avere la parte di Ellen Jones, la protagonista. Il ruolo, in effetti, prevede una certa intensità emotiva e, su questo, Loretta si impegna a dovere oltre ad essere particolarmente predisposta per le situazioni di stoica sofferenza amorosa. La lettera accusatrice è classificato come Noir o Thriller e tale è l’impostazione ma se ci aggiungiamo il carico sentimentale che la Young dispensa e il colpo di scena risolutivo, degno di una commedia se non di un film comico, si può ben capire come i conti fatichino a tornare. In effetti, per la MGM, lo studio di produzione, si trattò di un fiasco commerciale e la ragione è, molto probabilmente, la sensazione di incompiutezza che lascia nello spettatore. Non è, tuttavia, un’opera noiosa o malfatta, sia chiaro, manca però uno sviluppo vero e articolato: la situazione è sempre quella e si aggrava sempre più, fino alla risoluzione che, per quanto possa far sorridere, allo stesso tempo si rivela una delusione. Il soggetto non sembra lavorato a dovere e, oltre a prevedere un forte salto temporale, elemento sempre di un certo disturbo, questo è anche giustificato in modo approssimativo: l’idea di rendere tutto quanto un flashback prova infatti a rendere omogeneo il racconto, ma è palese che si tratti unicamente di un espediente. Durante la guerra, Ellen, sorta di infermiera adibita al supporto morale dei feriti, è assistente del dottor Ranney (Bruce Cowling), evidentemente innamorato di lei. 

Un giorno, all’ambulatorio arriva un amico del dottore, George Z. Jones (Barry Sullivan), pilota d’aereo che, colpito dalla bellezza della ragazza, si infila in un letto e si finge malato, riuscendo a conquistarne l’attenzione prima e il cuore poi. Con un balzo temporale si passa quindi a guerra finita: Ellen e George si sono alfine sposati. Ironia della sorte, l’ex militare sta ancora sotto le coperte in condizioni di malattia, non si capisce bene se vera o presunta, tuttavia questa volta i suoi intenti sono meno nobili. L’uomo si è, infatti, convinto dell’infedeltà di sua moglie, sospettando una tresca con l’amico Ranney; in realtà George soffre di disturbi mentali, probabilmente causati dal conflitto bellico, e arriva a progettare di uccidere la propria consorte. Per vendicarsi scrive quindi una lettera al procuratore, nel quale accusa Ellen e Ranney di avvelenarlo con la scusa dei medicinali; la donna, convinta dal marito che si tratti di una innocente missiva all’assicurazione, la consegna al postino. Quando, ormai completamente in preda al suo delirio, George cerca di uccidere Ellen, sparandole, viene colpito da infarto ma, prima di morire, rivela alla moglie il contenuto della lettera. Il tema del racconto diviene ora il disperato tentativo, da parte della donna, di recuperare per tempo la lettera in questione: il contenuto, infatti, l’accuserebbe dell’omicidio del marito. La tensione sale di tono ma, proprio in questo momento, il film si sgonfia perché che ad ostacolare il tentativo di riprendersi la lettera la donna trovi solo l’apparato burocratico delle poste è un mezzo autogol degli sceneggiatori. Prima il portalettere (Irvin Bacon) –un postino cocciuto pasticcione di pasta ben diversa dal John Garfield de Il postino suona sempre due volte– poi il sovraintendente (Art Baker) si appellano al regolamento e a cavilli burocratici per non restituire la lettera. Che poi, ironia della sorte, viene resa al mittente perché troppo pesante in relazione al valore dei francobolli affrancati: simpatica soluzione, d’accordo, ma assolutamente non adeguata alla tensione provocata dal film.   



Loretta Young 






venerdì 14 novembre 2025

THE NEST OF THE CUCKOO BIRDS

1759_THE NEST OF THE CUCKOO BIRDS , Stati Uniti 1965. Regia di Bert Williams 

“Era una leggenda, non lo aveva mai visto nessuno”. Queste le lapidarie parole di Nicolas Winding Refn a proposito di The nest of the cuckoo birds di Bert Williams. Refn, da tempo, si occupa di recuperare e restaurare film sconosciuti e quello di Williams è uno dei suoi lavori più illustri. Il Southern Gothic, o Gotico Sudista, è un genere cinematografico ben definito, con opere mirabili e note come La morte corre sul fiume [Night of the hunter, Charles Laughton, 1955] o Un tram chiamato desiderio [A streetcar named desire, Elia Kazan, 1951] tanto per fare due nomi. Ma The nest of the cuckoo birds, sebbene condivida alcuni temi caratteristici del Southern Gothic, l’ambientazione negli Stati Uniti del sud, l’atmosfera malsana, il disagio diffuso, li porta però all’eccesso, apparentandosi alla corrente estrema del genere. Qui si può inserire in quel filone che vede opere abbastanza famose come Mudhoney [Russ Meyer, 1965] o Non aprite quella porta [The Texas Chain Saw Massacre, Tobe Hooper, 1974], quest’ultimo film, tra l’altro, probabilmente ispirato proprio da The nest of the cuckoo birds. In generale, queste pellicole non brillano per la confezione formale impeccabile e, anzi, fanno di una certa trascuratezza visiva uno dei punti di forza. Quello di Bert Williams, tuttavia, forse esagera un po’, dando l’impressione, ad esempio all’inizio, di essere un filo troppo sgangherato. In effetti l’introduzione della vicenda è abbastanza confusa: il detective protagonista (lo stesso regista, Bert Williams), per sfuggire ad una banda di contrabbandieri, si dilegua nelle paludi infestate dagli alligatori. Infine trova rifugio al Cuckoo Birds Inn, una locanda abitata da tre soggetti particolarmente singolari: lo strano inserviente Harold (Chuck Frankle), l’inquietante padrona (Ann Long) e la sua povera figlia Lisa (Jackie Scelza). La giovane ragazza è tenuta incatenata in soffitta ed è evidente, al di là delle stranezze di facciata, che qualcosa di profondamente malsano si nasconda nella locanda. La recitazione non è certo convincente e anche il ritmo narrativo ogni tanto tende ad assopirsi, salvo poi avere dei passaggi traumatizzanti che possono sorprendere perfino lo scafato spettatore moderno. Anche per questo motivo, quello di Williams non è un film che va sottovalutato, nonostante le sue imperfezioni. Ben sorretto dalle musiche di Peggy Williams, The nest of the cuckoo birds riesce, in definitiva, a trasmettere perfettamente il senso di un genere, il Southern Gothic, che è particolarmente utile se si vuole comprendere meglio la vera anima dell’America. Quella oscura.   




martedì 11 novembre 2025

IL PONTE DEI SENZA PAURA

1758_IL PONTE DEI SENZA PAURA (The Cariboo Trail)Stati Uniti 1950. Regia di Edwin L. Marin

Per una volta, la stranezza del titolo italiano, Il ponte dei senza paura in luogo dell’originale The Cariboo Trail (traduzione letterale: la pista del Caribù), non è la cosa più stravagante del film di Edwin L. Marin o comunque non l’unica. Perché ambientare una storia sulle montagne della Columbia Britannica e scegliere svariate location di bellezza mozzafiato per girare utilizzando il processo Cinecolor per la pellicola, è forse meno comprensibile del bizzarro titolo proposto dai distributori italiani. Oggi può capitare di vedere un’edizione in bianco e nero del film, forse anche perché i colori sono effettivamente poco convincenti: il Cinecolor era un processo cinematografico a due colori sottrattivo ma, al di là degli aspetti tecnici, si può riassumere dicendo che era una scelta economica. Tuttavia la scelta di risparmiare sulla qualità delle immagini, in un Northern –un western ambientato nel nord degli Stati Uniti o nel Canada– è quantomeno discutibile: gli scenari spettacolari sono uno degli ingredienti principali di questo genere e in questo modo si sceglie a priori di trovarsi smorzata ogni concreta velleità di riuscita. Ed è un peccato, perché la storia, sebbene un po’ raffazzonata, è buona, il regista Edwin L. Marin conosce il mestiere e Randolph Scott, il protagonista, è in grado di portare a casa sempre e comunque il risultato. Che, infatti, non delude poi troppo: Il ponte dei senza paura è un onesto western che si guarda con piacere, gestito da Marin in modo diligente, con il passaggio più forte, tanto per fare un esempio, che arriva proprio sul finale, come da manuale. Ed è un aspetto importante che la scena culminante abbia come oggetto il pentimento e la redenzione di Mike (Bill Williams), amico fraterno del protagonista della storia, Jim Redfern (Randolph Scott); una redenzione autentica, pagata con il sacrificio massimo, la vita. Il film è un B-Movie del 1950: la corrente romantica western è ormai alle spalle, infatti i due personaggi femminili, Francie (Karin Booth) e Jane (Mary Stuart), non riescono ad incidere più di tanto. Gli anni Cinquanta vedranno il western divenire l’epica degli Stati Uniti ma, come detto, Il ponte dei senza paura è ambientato in Canada e, quindi, qualcosa quadra poco, rispetto alle coordinate tipiche del genere. 
Quando Francie vede Jim per la prima volta, capisce subito che viene dagli States e l’uomo sembra quasi preoccuparsi che questo non sia visto come un problema: oggi potrebbe sembrare una cosa nemmeno troppo strana ma, negli anni Cinquanta, l’americano, di norma, era l’eroe ed era visto come tale. Ma quello alla base del film è un racconto avvelenato. Il tema centrale del film, infatti, è il rancore che Mike nutre nei confronti dell’amico Jim, reo di avergli amputato il braccio in seguito ad un grave incidente avuto con la mandria. È evidente anche a Mike che Jim sia stato costretto a farlo, per evitargli la cancrena o comunque guai peggiori, ma certo, nel far west, perdere un braccio non era un fatto semplice da accettare. A giustificare i sentimenti negativi del malcapitato, c’era poi il fatto che era stato Jim ad essersi intestardito con la faccenda dei bovini, quando, in origine, l’idea dei due era di andare in Canada a cercar oro. Ma, a differenza di Mike, a Jim non importava niente delle ricerche aurifere, che vedeva unicamente come strumento per metter su un ranch. Beffa ulteriore, la mandria era stata sottratta ai nostri amici, proprio nell’occasione in cui Mike era finito travolto sotto le zampe dei bovini lanciati in una folle corsa. Capire chi ci fosse dietro alla razzia non era poi difficile: gli uomini di Frank Walsh (Victor Jory) non avevano certo apprezzato lo scherzetto che Jim e Mike avevano tirato loro sul ponte che dava il titolo alla versione italiana del film. Walsh, che come la maggior parte dei personaggi interpretati da Victor Jory è un bell’esemplare di cattivo, è il classico boss del paesino del Far West, padrone di quasi tutte le attività del centro urbano. E, per dare adeguato benvenuto ai viandanti, chiede un salato pedaggio per attraversare uno sgangherato ponticello: che Jim e Mike si guardano bene dal pagare cominciando col piede giusto i rapporti con lo stesso Walsh. Uno canovaccio abbastanza consolidato, nel cinema western, anche se poi la perdita del braccio da parte di Mike getta una luce piuttosto cupa su tutto quanto il racconto. Ad alleggerirla ci pensano le due spalle comiche, Ling (Lee Tung Foo) e «Orso» (George «Gabby» Hayes), al punto che la traccia umoristica supera di gran lunga quella romantica come supporto alla vicenda avventurosa. Ling è il cuoco tuttofare della carovana, quella coi buoi guidata da Jim e Mike, ma si adegua alla bisogna e si contraddistingue per correggere costantemente gli altri nei dialoghi del film, con effetto umoristico funzionale al contesto. Orso, che nell’originale è chiamato Grizzly e si accompagna ad un asino di nome Annibale, è interpretato da George «Gabby» Hayes, una vera leggenda che, nell’universo western, rivaleggia, nel ruolo del vecchietto un po’ rincoglionito ma ancora valido, nientemeno che con Walter Brennan. Il ponte dei senza paura è l’ultimo film per Hayes, a volte conosciuto come Gabby Whitaker, un caratterista famosissimo ai tempi, come testimonia, per esempio, il personaggio di Doppio Rhum nella serie del nostrano fumetto Capitan Miki. Il film non brilla per originalità, tuttavia, sorprende un po’ vedere come, quando si era già negli anni Cinquanta, venissero trattati gli Indiani. I Piedi Neri di White Buffalo (Fred Libby) sono tratteggiati sbrigativamente come gente violenta, dal momento che cercano subito di uccidere Jim, Ling e Orso. Il fatto che questi non solo si addentrino deliberatamente in Territorio Indiano ma che mettano gli occhi su quel paradiso nascosto è considerato, dalla prospettiva del film, come legittimo. In questo senso gli Indiani sono unicamente un ostacolo da eliminare per arrivare alla Terra Promessa, riferimento che si intuisce dal lirismo dalle panoramiche sulle vallate, nonostante le immagini in Cinecolor non rendano giustizia a Madre Natura. E questa può essere l’efficace metafora che si può trarre da Il ponte dei senza paura in ottica della Questione Indiana: ai Piedi Neri va infatti anche peggio dei panorami dai colori sbiaditi che tanto incantano Randolph Scott.   


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sabato 8 novembre 2025

LA PIU' GRANDE AVVENTURA

1757_LA PIU' GRANDE AVVENTURA (Drums along the Mohawk)Stati Uniti 1939. Regia di John Ford

Per una volta, il titolo originale, Drums along the Mohawk [traduzione letterale, Tamburi lungo il Mohawk] non è poi molto più inerente della versione italiana La più grande avventura. Certo, quello utilizzato nel Belpaese è un titolo molto generico, mentre quello scelto ad Hollywood è assai più specifico. Ma l’essere così calzante alla storia raccontata nel film potrebbe finire, per assurdo, per essere fuorviante; si potrebbe pensare, infatti, che Drums along the Mohawk abbia come obiettivo proprio gli scontri nella vallata del Mohawk River, ai tempi della Guerra d’Indipendenza Americana. Che è quello che poi si vede nel film, intendiamoci, ma La più grande avventura è, in concreto, il manifesto del Sogno Americano al punto che un titolo come The American Dream sarebbe stato probabilmente più azzeccato. Si tratta di una provocazione, naturalmente, perché è del tutto superfluo fare ipotesi su scelte diverse da quelle fatte dagli autori che, di fatto, non sussistono. Tuttavia stupisce la centralità del Sogno Americano nel film e il totale convincimento di Ford in questo ideale quando, in seguito, il regista statunitense si dimostrerà assai più critico con quella che fu, in buona sostanza, una sorta di propaganda ideologica. Ma, evidentemente, nel 1939, durante la realizzazione de La più grande avventura, Ford aveva ancora cieca fiducia che quello che si andava costituendo fosse davvero un grande Paese, che fosse davvero la terra delle libere opportunità come si autoproclamava: l’ideale stava prendendo forma concreta.
Ma torniamo al film e andiamo con ordine. I titoli di testa ci presentano il lungometraggio su tovagliette ricamate a punto a croce, con i caratteri delle parole molto curati nei dettagli e le immagini delle casette coloniche in mezzo ai pini tutt’intorno al fiume. Il che è curioso, essendo La più grande avventura comunque un western, per quanto atipico essendo ambientato in un periodo storico e in un’ambientazione leggermente diversi rispetto ai canoni del genere. Ma si trattava comunque di una storia della Frontiera, con i bianchi a conquistare terre alla natura, per renderle coltivabili e produttive, e gli Indiani a difendere il proprio habitat selvaggio: le basilari coordinate del genere western. 

Ne La più grande avventura la guerra, immancabile risultato di ogni confronto in caso di interessi divergenti tra collettività umane, era tra i coloni americani e la corona britannica, ma il contributo degli indiani, che fu certamente rilevante in ambito storico, è enfatizzato e utilizzato in modo strumentale da Ford. Ne La più grande avventura, il ruolo degli Irochesi leali alla corona, abilmente manovrati da Caldwell (John Carradine), rappresenta ben più che gli interessi dell’Inghilterra. Gli Indiani ostili all’avanzata dei coloni americani incarnano l’asprezza e la durezza di una Terra tanto promessa quando difficile da raggiungere, ma anche l’estrema difesa della Natura all’incombere della Civiltà. Lo scontro tra questi due modi antitetici di concepire il mondo, inteso come luogo in cui si vivesse, era inevitabilmente cruento; e la guerra, il risultato altrettanto inevitabile, era un tema che affascinava maggiormente il pubblico maschile che con ricami all’uncinetto avevano poco a che fare. Questa influenza femminile, se si può definire così, permane anche nell’incipit del film che comincia con il matrimonio tra Lana e Gil Martin: oltretutto nei manifesti dell’epoca il nome di Claudette Colbert, l’attrice che interpreta Lana, è riportato prima di quello di Henry Fonda, il protagonista maschile. Questa impostazione di partenza, porta con sé due significati distinti. Il primo è che la donna è, secondo Ford, la figura centrale della famiglia che è la prima cellula della collettività; pertanto, una società nascente non può che mettere al centro del progetto una figura femminile. A cui fanno riferimento tutti i dettagli «domestici», le tovagliette ricamate, i mobili, le porcellane, i vestiti con pizzi e merletti, che ritornano a più riprese soprattutto nella prima parte del film. Perché nella seconda è progressivamente, o meglio a strappi devastanti, intervenuto l’altro significato che tutta questa chincaglieria ha nell’economia del discorso di Ford sulla nascita della nazione. Sotto i pesanti attacchi dei lealisti e dei loro ferocissimi alleati indiani Irochesi, i coniugi Martin, Lana e Gil, perdono tutto, e come loro anche gli altri coloni del film. Qui veniamo quindi al secondo significato: gli Stati Uniti, per poter nascere, per poter dar corpo al Sogno Americano, si devono spogliare dell’eredità di stampo europeo e non ci si riferisce solo ai beni materiali. Lana, una fanciulla di famiglia facoltosa dell’est, deve essere disposta a fare la donna di servizio presso la fattoria della signora McKlennar (Edna May Oliver), vecchia e arzilla vedova di rango sociale decisamente più modesto ma, in quel frangente, in condizioni economiche certamente migliori. La fattoria dei Martin, infatti, costruita con indicibili fatiche, soprattutto per una giovane ragazza abituata alla vita confortevole nella residenza paterna dell’Est, è finita in fumo grazie ad uno dei raid degli Irochesi. Il fuoco, alimentato a più riprese dagli indiani, rappresenta simbolicamente la prova da superare per i coloni, per i nuovi americani. Gli Irochesi, che lo usano in modo distruttivo, sono anch’essi da annoverare tra le difficoltà che i coloni devono superare e Ford utilizza il contesto storico, in cui alcune di queste tribù rimasero fedeli all’alleanza con gli Inglesi, contro cui gli indipendentisti americani insorsero, per dare forza al suo racconto. 

Ma non c’è, ne La più grande avventura, una deriva razzista o discriminatoria nei confronti dei nativi americani. Innanzitutto va detto che effettivamente gli Irochesi, e in particolare i Mohawk che prevedibilmente vediamo all’opera –essendo il film ambientato nella valle del fiume che deve a loro il nome– erano effettivamente particolarmente bellicosi e feroci sul campo di battaglia. Chiedere agli Uroni o agli Algonchini per conferma. Inoltre, uno dei personaggi più interessanti della pellicola è Falco Blu (o Blue Back, interpretato da Chief John Big Tree) che è un indiano ma, al contempo, un buon cristiano, per usare le sue parole. Il finale celebra la nascita degli Stati Uniti sotto la bandiera a stelle e strisce e, significativamente, prima della coppia di protagonisti Lana e Gil, Ford inquadra l’indiano Falco Blu e la domestica di colore Daisy (Beulah Hall Jones), come a sottolineare la multietnicità del Paese. Considerato l’importanza della posta in palio, il regista sfodera la sua proverbiale capacità di dosare gli ingredienti: ci sono i passaggi drammatici e quelli sentimentali, gli intermezzi umoristici e non mancano, ovviamente in Ford, i momenti musicali della tradizione folcloristica. Tra le scene di maggior rigore simbolico c’è quella della morte del generale Herkimer (Roger Imhof), a cui succede, per contrapposizione, la nascita del figlio di Lana e Gil. Un’altra sequenza emblematicamente fordiana è quella in cui la signora McKlennar resiste sul suo letto all’incursione di due feroci indiani. La donna, addirittura, ordina ai due belluini guerrieri di portala fuori, mentre se ne sta imperterrita seduta sul letto, perché non vuole che questo bruci nel rogo appena appiccato dagli indiani. È, evidentemente, una scena ironica, che alleggerisce la drammaticità della situazione oltre a rimarcare la superiorità morale della vecchia colona rispetto ai selvaggi; ma è anche una situazione al limite del grottesco e solo la sublime capacità narrativa di Ford riesce a mantenerla nei canoni di un plausibile passaggio tragico virato da un’assurda comicità. Un’alchimia mirabile e il regista americano amava utilizzare «ingredienti» che conosceva bene. Non a caso il cast pullula di attori che erano o diverranno negli anni habitué del cinema di Ford: da Fonda a Carradine, a Ward Bond (è Adam Hartman), a Francis Ford, fratello del regista (è Joe Bolero), fino a Russell Simpson (è il dottor Petry). A molti di loro sono deputati questi momenti ibridi, tra dramma e commedia, ad esempio l’Adam di Ward Bond audace e coraggioso tanto nel flirtare con la signora McKlennar quanto in battaglia, oppure il reverendo Rosenkrantz (Arthur Shields), che interrompe la predica durante la funzione per fare la pubblicità all’emporio della zona. Sembra un uomo venale, il prete, ma dimostrerà la sua tempra morale quando si troverà costretto a sparare a sangue freddo a Joe Bolero, prima che gli indiani mandino lo scout arrosto ancora vivo e vegeto. 

In una gestione universale, come quella del cineasta americano, non tutti gli interpreti avevano compiti sfaccettati, ad esempio, ad occuparsi delle gag comiche troviamo Eddie Collins (Christian Reall) che, pur non avendo forse lo status di attore tipico di Ford, aveva comunque già recitato in precedenza in un paio dei suoi film, tra cui Alba di Gloria [Young Mr. Lincoln, 1939]. E, eventualmente per dare equilibrio al bilancio complessivo, anche il Caldwell da John Carradine è un personaggio a tutto tondo, nel suo caso un vero e proprio villain. Il cattivo della storia è ispirato alla figura storica di William Caldwell, un lealista alla corona britannica che combatté nelle file dei Rangers di Butler, di cui anche il personaggio del film indossa la divisa verde. Interessante il modo ironico e intelligente con cui Ford ci informa di come sia passato a miglior vita durante la battaglia, ovvero con l’ennesimo innesto tra il registro drammatico e quello comico. Il passaggio è una vera e propria gag comica, infatti è presentata da Reall, ed è risolta con un’entrata in scena beffarda di Falco Blu, che sfoggia la benda sull’occhio appartenuta a Caldwell. Questi, storicamente, aveva sì combattuto nelle guerre di Frontiera nella valle del Mohawk River, ma non in quella di Oriskany che è uno dei momenti migliori dell’intero film. Ford decise per la verità di non girare le scene di questo scontro e si affida alla sua capacità registica e all’intensità recitativa di Fonda, che interpreta Gil reduce dalla battaglia gravemente ferito. In un primo momento l’uomo sembra quasi dato per morto ma Lana non si arrende e non smette di cercarlo, trovandolo poi accasciato lungo la via del ritorno, sotto un nubifragio notturno. Una volta al riparo, Gil è in grado di raccontare le sorti della battaglia, mentre, poco più in là, al generale Herkimer devono tagliare la gamba ferita e ormai irrecuperabile. Come accennato, il generale non sopravviverà, causa un’emorragia non arrestata; nella realtà storica la morte all’ufficiale fu cagionata da un’infezione e avverrà solo una decina di giorni dopo. Del resto Gil racconta anche di aver vinto la battaglia di Oriskany, per quanto le condizioni delle truppe indipendentiste tornate al forte lascino qualche dubbio, quando storicamente lo scontro è registrato come successo britannico. Ma queste imprecisioni storiche di Ford, ivi compreso la descrizione dei nativi americani, non sono frutto di sciatteria o trascuratezza quanto la necessità di piegare la Storia alle necessità dell’Epica. In seguito, questo sarà comunque vero, perché Ford sentiva il dovere di raccontare la nascita del proprio Paese, tuttavia si farà progressivamente strada un certo rammarico per ciò che, nella conquista del west, era andato perduto. Al contrario, come accennato, ne La più grande avventura c’è ancora completa fiducia nel futuro dell’America. Il film uscì nel novembre del 1939, la Seconda Guerra Mondiale era appena iniziata, gli Stati Uniti non si erano ancora iscritti al conflitto e, di conseguenza, non lo avevano ancora vinto. La vittoria e la conclamazione di leader assoluto del mondo occidentale, era quindi ancora di là da venire: sarebbe stata la consacrazione, a livello geopolitico, del Sogno Americano sbandierato ne La più grande avventura. Ma era solo questione di tempo. Se, dopo oltre un secolo e mezzo, era possibile stilizzare per motivi epici la Questione Indiana, con i morti di Hiroshima, Nagasaki e tutti gli altri tragici teatri di guerra negli occhi, sarebbe stata un’impresa che, con l’andar del tempo, si sarebbe rivelata insostenibile anche per il più patriota dei registi.    

    

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mercoledì 5 novembre 2025

AN ACCIDENTAL SOLDIER

1756_AN ACCIDENTAL SOLDIER , Australia 2013. Regia di Rachel Ward

Chiariamo subito una cosa: Marie Bunel, protagonista femminile di An accidental soldier, film televisivo australiano di Rachel Ward, è una gran bella donna. Poi, certo, all’epoca del film aveva 52 anni e non era quindi una giovane rampolla ma il passaggio cruciale del film, quello a cui si gira attorno sin da subito, è legato all’idea che Colombe (la Bunel, appunto) sia una donna indurita e quindi imbruttita dalla vita. Va dato atto alle capacità espressive dell’attrice francese di essere anche convincente e certo il suo personaggio non appare seducente come una femme fatale; che poi siano in Francia, durante la Prima Guerra Mondiale, gli uomini sono al fronte o chissà dove e le donne sono costrette a lavorare nella fabbrica di armamenti per tirare avanti. Non è quindi un posto ideale per seduzioni o storie d’amore… o forse si? A casa di Colombe, ad un certo punto, piomba infatti Harry (Dan Spielman) soldato australiano che è fuggito dalla prima linea. Un disertore, insomma. Harry faceva il panettiere e non aveva alcuna intenzione di arruolarsi ma il disprezzo dei suoi compaesani alla fine l’aveva convinto; tuttavia, se fare il pane sotto l’esercito non era poi diverso che nella vita da civile, quando arriva il momento di andare in prima linea l’uomo decide di scappare. E’ quindi un vile, Harry, un codardo; perlomeno è così che vengono definiti i disertori. Una donna brutta (o presunta tale) e un vigliacco: questo è quello che abbiamo per le mani nella nostra storia. Se il mondo abitualmente gira storto per una donna di aspetto non piacevole, nella nostra società, figuriamoci durante una catastrofe come la Grande Guerra, dove avere qualche privilegio è fondamentale per sopravvivere o magari sopravvivere anche bene. D’altro canto per un uomo vile il tempo di guerra è la cosa peggiore che possa capitare. E, a complicare le cose, c’è anche il fatto che i due non si capiscano, parlando ovviamente lingue diverse. Ma proprio il linguaggio, uno strumento nato per comunicare e quindi condividere, unire, e divenuto poi all’opposto troppo spesso barriera insormontabile, è il grimaldello che permette ai due di fare il primo passo in avanti. Sforzarsi per capire l’altro e poi ancora, sforzarsi per farsi comprendere. Una volta che la donna e l’uomo aprono un pertugio nel muro di diffidenza, indifferenza, timore, paura, entrambi scoprono quello di cui avevano bisogno. Una metafora interessante in un film di guerra ma, ovviamente, l’obiettivo particolare della storia è più circoscritto. E, tornando a quello di cui i nostri protagonisti hanno bisogno (come tutti, del resto), questa cosa è, ovviamente l’amore. Ma il racconto è persino ancora più specifico, nella sua metafora: lui trova in Colombe il coraggio di una donna che rischia tutto pur di proteggerlo, di tenerselo nascosto in casa quando la gendarmerie militare è in cerca dei disertori. E lei, nelle attenzioni e nelle premure, ingenue nel senso puro del termine, di quell’uomo mite venuto da lontano, si scopre finalmente bella.  

lunedì 3 novembre 2025

MISS MARPLE - GIOCHI DI PRESTIGIO

1755_MISS MARPLE - GIOCHI DI PRESTIGIO (They do it with Mirrors)Stati Uniti, Regno Unito 2010. Regia di Andy Wilson

Il terzo episodio della quarta stagione della serie televisiva britannica Miss Marple è tratto dal romanzo di Agata Christie Giochi di prestigio, nell’originale They do it with mirrors, di cui conserva, tutto sommato, l’elaborata trama. Julia McKenzie, nel ruolo di Miss Marple da questa stagione, è sempre convincente, anche perché ha una innata modestia che le permette di «tirare le redini» del giallo stando sempre un passo indietro. Il che è un po’ lo stile di questo tipo di storie, dove una innocua vecchietta è in grado di bagnare il naso a navigati inquirenti. Lo stile discreto della McKenzie risulta evidente nel finale, quando «spiega» al detective di turno, l’ispettore Curry (Alex Jennings) la soluzione degli omicidi accaduti a Stonygates, la residenza degli Serrocold: ma, a quel punto, l’ispettore ha già capito che l’anziana signorina è avvezza a risolvere gialli e non si scompone più di tanto, del resto è il tipico inglese d’inizio XX secolo dotato del caratteristico aplomb. In un passaggio precedente, quando il poliziotto interroga la Marple –tra l’altro, è curioso che non sia a lui nota, visto i tanti i casi già risolti dalla donna– lei quasi si diverte e, con malcelata noncuranza, centellina quelle informazioni che, argutamente, aveva fin lì già raccolto. In questo atteggiamento di modestia un po’ di maniera tipico di questi personaggi, la McKenzie è molto brava ma il suo approccio, diciamo così, umile, sembra sincero e professionale e lo si vede anche nel rapporto con la guest star dell’episodio. In effetti Miss Marple: Giochi di prestigio è noto per la partecipazione di Joan Collins e non è mai semplice, per gli interpreti regolari di una serie o per gli autori, gestire la presenza di star del calibro della diva inglese. Anche nel romanzo di Agata Christie, Ruth Van Rydock, il personaggio interpretato dalla Collins, è descritto come una donna ancora bellissima e il fatto di essere coetanea di Miss Marple, che quasi sembra la sua anziana madre a confronto, ne enfatizza il fascino. La scena è ripresa anche nel film, con una sorta di «aggravante» per la povera McKenzie: se Miss Marple appare decisamente più attempata di Lady Van Rydock nonostante abbiano la stessa età, l’attrice protagonista deve sostenere questa parte pur avendo otto anni in meno della Collins. Joan, 76 anni portati sospendendo il passaggio del tempo, è relegata in una parte secondaria –il suo ormai tipico ruolo di donna ricca e cinica, almeno in apparenza– ma quando è in scena si mangia ovviamente il film, attori compresi. 
In effetti, nessuno del cast è nemmeno lontanamente paragonabile al suo status di stella di prima grandezza di Hollywood e il film appare forse più coerente quando la diva è assente dalla scena. Tuttavia Joan è adorabile, come suo solito, ed è particolarmente piacevole rivederla nell’incipit, la scena dell’incendio, nel quale sembra di ritornare ai suoi horror inglesi degli anni Settanta. Il film, nel complesso, restituisce abbastanza fedelmente sia il romanzo all’origine che il tipico mondo di Agata Christie, fatto di situazioni intricate ed elaborate colme di bizzarrie che necessitano di pazienza e apposita predisposizione per lasciarsene catturare, dopodiché immergono completamente il lettore, o lo spettatore in questo caso, nel microcosmo creato ad arte dall’autrice inglese. Tra le note più curiose di questo film c’è il cancello d’entrata di quella sorta di riformatorio che sorge accanto a Stonygates ma, prima di chiarire perché, occorre inquadrare un minimo la vicenda. La proprietaria della residenza, Carrie Louise Serrocold (Penelope Wilton), sorella di Ruth Van Rydock, è una filantropa al centro di una famiglia allargata e, accanto alla sua elegante casa, ha allestito un istituto per recupero di detenuti. Qui c’è un primo livello della riflessione della Christie sull’origine del Male: nonostante i pregiudicati nelle vicinanze abbondino, gli «ospiti» dell’istituto, il punto nevralgico dell’intrico delittuoso sarà ovviamente trovato all’interno della famiglia. Una famiglia articolata quanto le trame della scrittrice inglese, dove abbondano mariti, ex mariti, figlie naturali, figlie adottive, figliastri e via di questo passo. Il citato cancello di ingresso reca una scritta che rielabora un verso della Divina Commedia di Dante, “Lasciate ogni speranza voi che entrate” [Dante Alighieri, La Divina Commedia, Terzo canto dell’Inferno], cambiato in questo caso in “Recover Hope All Ye Who Enter Here” (Traduzione: Ritrovate la speranza o voi che entrate). È una bella intuizione e, in effetti, l’istituto per il recupero dei criminali sembra in anticipo sui tempi, visto che il romanzo uscì nel 1952. Tuttavia, al netto della citazione esplicita di Dante, l’ingresso del cancello ricorda molto di più quello dei campi di concentramento nazisti con l’insegna “Arbeit macht frei” (Traduzione: Il lavoro rende liberi). Un cortocircuito concettuale interessante, sebbene molto inquietante.    



Joan Collins