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giovedì 27 novembre 2025
LA SPIA DELLE GIUBBE ROSSE
lunedì 24 novembre 2025
DECADENCE (1994)
1762_DECADENCE , Regno Unito 1994. Regia di Steven Berkoff
Quando Joan Collins ricevette la chiamata per interpretare Alexis in Dynasty,
era in vacanza ma, nei mesi precedenti, era impegnata sul palcoscenico teatrale.
L’attrice inglese, appena aveva avuto una svolta decisiva nella carriera
–grazie al successo di The Stud – Lo stallone e The Bitch–, ne
aveva approfittato per tornare a calcare i palchi dal vivo, per quella che in
fondo era stata la sua prima vera passione artistica: il teatro. Figuriamoci
come possa essersi sentita quando, nel 1994, fu chiamata da Steven Berkoff per
portare sul grande schermo Decadence, un film tratto dall’omonima pièce
teatrale del 1981, opera dello stesso polivalente e bizzarro artista inglese. Accanto
a Berkoff, per il doppio ruolo di Helen/Sybill, si era pensato di ingaggiare
qualcuno tra Helen Mirrell, Miranda Richardson o Diana Rigg ma, alla fin fine,
la scelta di Joan Collins può essere considerata una delle cose più riuscite di
Decadence. L’idea di trasportare al cinema un teatro così estremo
–espressionista, eccessivo, volgare, autocompiaciuto– non è particolarmente
funzionale e, in effetti, il film non riesce a cogliere tutti gli spunti
dell’opera teatrale. Certo, la critica alla Gran Bretagna thatcheriana graffia
ancora, tuttavia a quel tempo gli anni Ottanta erano passati da un pezzo. In
ogni caso, le scene memorabili riguardano, ancora una volta, le derive sadomaso
o fetish che la Collins interpreta con particolare attitudine. Per fare un
esempio, si possono prendere i passaggi che, in ambito pornografico, verrebbero
etichettati come «ponyplay»,
e in cui vediamo Joan, con tanto di frustino, cavalcare Berkoff messo a carponi.
Iconica, ça va sans dire.
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venerdì 21 novembre 2025
JACK LONDON - L'AVVENTURA DEL GRANDE NORD
1761_JACK LONDON - L'AVVENTURA DEL GRANDE NORD , Italia, Jugoslavia 1974. Regia di Angelo D'Alessandro
Nel 1973 uscì il film Jack London – La mia grande avventura, per la regia di Angelo D’Alessandro; si trattava di una versione condensata per l’uscita nelle sale cinematografiche di una lunga miniserie, sette episodi per oltre sei ore, che sarebbe stata trasmessa l’anno seguente dalla Rai. Il titolo dello sceneggiato fu cambiato leggermente, divenendo Jack London – L’avventura del Grande Nord ma, nel complesso, si tratta di un’operazione piuttosto deludente. La Produzione era una collaborazione italo jugoslava e nel paese balcanico vennero girato prevalentemente gli esterni che avrebbero dovuto «interpretare» il Grande Nord americano. Il racconto è impostato come una sorta di biografia dello scrittore Jack London, nello specifico degli anni della sua gioventù nei quali si recò nel Klondike, per la Febbre dell’Oro. Gli autori della sceneggiatura, oltre al regista Angelo D’Alessandro, Piero Pieroni e Antonio Saguera, punteggiano quest’avventura con episodi che possano essere stati poi l’ispirazione nell’attività di scrittore di London. Ci sono, quindi, riferimenti ai famosi cani protagonisti dei libri dello scrittore americano, da Buck de Il richiamo della foresta a Zanna Bianca dell’omonimo romanzo. Si tratta, come intuibile, di una forzatura, che gli stessi autori non riescono a rendere propriamente fluida. La scarsa fruibilità dello sceneggiato, le lunghe fasi di stanca, soprattutto nei primi episodi, e l’incoerente ritmo generale, tarpano le ali ad un progetto che, in linea teorica, sarebbe anche interessante. Per la verità, con il proseguo delle puntate la situazione generale migliora, ma certo difficilmente si può dire che il risultato finale sia soddisfacente. Rimane un mistero perché, a fronte di episodi in cui succede davvero pochissimo, il sesto è zeppo di azione e di passaggi davvero avvincenti. In questa puntata ci sono almeno tre situazioni che avrebbero potuto reggere il peso di un singolo episodio, equilibrando un po’ meglio tutto quanto lo sceneggiato. C’è un incontro di pugilato di London, una prova di forza di Zanna Bianca e, per finire, l’assurdo processo allo stesso cane, reo di aver aggredito e ucciso un uomo. Gli scenari jugoslavi non sono molto credibili, in particolar modo quelli non innevati che contraddistinguono la prima parte; successivamente, il manto bianco ha un intrinseco potere evocativo che mitiga la sensazione deprimente complessiva.
Gli attori se la cavano con mestiere, per quanto non è che ci si entusiasmi troppo: Orso Maria Guerrini è Jack London, oltre che l’interprete del brano I want to go, sigla delle puntate; Arnaldo Bellofiore è Fred Thompson; Andrea Checchi è Matt Gustavson; Alfano Sarlo è Jacob Shepard; Carlo Gasparri è Merritt Sloper; Husein Cokic è Jim Goodman. Insomma, a parte qualche nome, non siamo di fronte ad un cast particolarmente memorabile. Manca quasi totalmente la componente femminile; in compenso, c’è una storia d’amore canina. Per dare corpo al «richiamo della foresta», per fare riferimento all’omonimo romanzo, viene coinvolta una lupa che va ad intessere una love-story con il cane Buck, nella prima parte dello sceneggiato. Se già, in qualche caso, nei film di avventura per ragazzi le scene romantiche tra umani erano noiose e stucchevoli, si può ben immaginare che effetto possano avere, sul povero spettatore, le infinite scene di due cani che corrono gioiosi nei campi. Ma, come detto, col passare degli episodi lo sceneggiato migliora e si potrebbe anche arrivare ad accordargli una sufficienza, mettiamola così. Se non fosse per un piccolo passaggio che difficilmente può essere trascurato. Un passaggio assolutamente discutibile che, in un simile contesto, risulta particolarmente sconveniente: è evidente, infatti, che un film su Jack London sia un prodotto che solletichi l’interesse dei più giovani.
Se si fa riferimento a quello, come si evince dal titolo, in Jack London – L’avventura del Grande Nord non si parla tanto di un generico scrittore americano ma di quello scrittore che ha fatto innamorare migliaia di ragazzi dei paesaggi innevati, dei cani dai slitta, dei lupi selvaggi: un autore che è lui stesso un personaggio praticamente leggendario. Nello sceneggiato, ad un certo punto, una coppia di cercatori vuole comprare il vecchio Dog, un cane scansafatiche e ladro che si è affezionato a Matt, l’anziano che si è aggregato alla comitiva di London in viaggio verso il Klondike. Matt è un pover’uomo che nell’amicizia del vecchio Dog ha uno dei pochi motivi di conforto; il cane, da parte sua, non è di alcuna utilità e, piuttosto, sottrae il cibo delle sparute provviste che i viaggiatori portano con sé. Tuttavia Dog ha delle qualità insospettabili: è furbo, scaltro, sa arrampicarsi sugli alberi e, in un certo senso, è in grado di contare. Per questo attira l’attenzione degli acquirenti che offrono una bella sommetta di denaro, che potrebbe essere utile successivamente per comprare i cani da slitta. Ma con che coraggio si potrebbe convincere il vecchio Matt a separarsi dal suo cane? Un coraggio che il London interpretato da Guerrini trova e che, vedendolo esortare Matt ad accettare, provoca più disagio nello spettatore che nel vecchio. Davvero imperdonabile, questo passaggio. Per quanti soldi possano aver offerto, non possono aver raggiunto il valore dell’affetto per un cane, anche per uno che non fosse raccontato da Jack London. E il fatto che Dog lo sia, almeno stando a D’Alessandro, è una sorta di beffa per gli amanti dello scrittore americano. E, nel film, il fatto che a convincere Matt a cedere all’offerta sia proprio London, la rende ancora più amara.
martedì 18 novembre 2025
LA LETTERA ACCUSATRICE
1760_LA LETTERA ACCUSATRICE (Cause for Alarm!), Stati Uniti 1951. Regia di Tay Garnett
È una cosa un po’ sorprendente che un regista che nel 1946 abbia diretto un classico come Il postino suona sempre due volte [The Postman always rings twice, Tay Garnett, 1946], si ritrovi, cinque anni dopo, alle prese con la regia di un film come La lettera accusatrice. In sé, Cause for Alarm! non è certo un’onta all’interno di una filmografia, tuttavia è troppo evidente la sua matrice minore per essere davvero ritenuto interessante per un cineasta che avesse diretto, oltre a Lana Turner, anche Marlene Dietrich e Jean Harlow, solo per restare alle attrici famose. Per la verità, ne La lettera accusatrice, c’è Loretta Young, star di un certo rango che può quindi aggiungersi alla lista, ma questo è uno dei pochi elementi davvero di rilievo del film. Che non è brutto, come accennato, ma, unicamente, si fonda su un pretesto narrativo che poteva essere valido per un film televisivo se non addirittura un telefilm. Stando alle cronache, la Young insistette con il marito Tom Lewis, produttore della pellicola, per avere la parte di Ellen Jones, la protagonista. Il ruolo, in effetti, prevede una certa intensità emotiva e, su questo, Loretta si impegna a dovere oltre ad essere particolarmente predisposta per le situazioni di stoica sofferenza amorosa. La lettera accusatrice è classificato come Noir o Thriller e tale è l’impostazione ma se ci aggiungiamo il carico sentimentale che la Young dispensa e il colpo di scena risolutivo, degno di una commedia se non di un film comico, si può ben capire come i conti fatichino a tornare. In effetti, per la MGM, lo studio di produzione, si trattò di un fiasco commerciale e la ragione è, molto probabilmente, la sensazione di incompiutezza che lascia nello spettatore. Non è, tuttavia, un’opera noiosa o malfatta, sia chiaro, manca però uno sviluppo vero e articolato: la situazione è sempre quella e si aggrava sempre più, fino alla risoluzione che, per quanto possa far sorridere, allo stesso tempo si rivela una delusione. Il soggetto non sembra lavorato a dovere e, oltre a prevedere un forte salto temporale, elemento sempre di un certo disturbo, questo è anche giustificato in modo approssimativo: l’idea di rendere tutto quanto un flashback prova infatti a rendere omogeneo il racconto, ma è palese che si tratti unicamente di un espediente. Durante la guerra, Ellen, sorta di infermiera adibita al supporto morale dei feriti, è assistente del dottor Ranney (Bruce Cowling), evidentemente innamorato di lei.
Un giorno, all’ambulatorio arriva un amico del dottore, George Z. Jones (Barry Sullivan), pilota d’aereo che, colpito dalla bellezza della ragazza, si infila in un letto e si finge malato, riuscendo a conquistarne l’attenzione prima e il cuore poi. Con un balzo temporale si passa quindi a guerra finita: Ellen e George si sono alfine sposati. Ironia della sorte, l’ex militare sta ancora sotto le coperte in condizioni di malattia, non si capisce bene se vera o presunta, tuttavia questa volta i suoi intenti sono meno nobili. L’uomo si è, infatti, convinto dell’infedeltà di sua moglie, sospettando una tresca con l’amico Ranney; in realtà George soffre di disturbi mentali, probabilmente causati dal conflitto bellico, e arriva a progettare di uccidere la propria consorte. Per vendicarsi scrive quindi una lettera al procuratore, nel quale accusa Ellen e Ranney di avvelenarlo con la scusa dei medicinali; la donna, convinta dal marito che si tratti di una innocente missiva all’assicurazione, la consegna al postino. Quando, ormai completamente in preda al suo delirio, George cerca di uccidere Ellen, sparandole, viene colpito da infarto ma, prima di morire, rivela alla moglie il contenuto della lettera. Il tema del racconto diviene ora il disperato tentativo, da parte della donna, di recuperare per tempo la lettera in questione: il contenuto, infatti, l’accuserebbe dell’omicidio del marito. La tensione sale di tono ma, proprio in questo momento, il film si sgonfia perché che ad ostacolare il tentativo di riprendersi la lettera la donna trovi solo l’apparato burocratico delle poste è un mezzo autogol degli sceneggiatori. Prima il portalettere (Irvin Bacon) –un postino cocciuto pasticcione di pasta ben diversa dal John Garfield de Il postino suona sempre due volte– poi il sovraintendente (Art Baker) si appellano al regolamento e a cavilli burocratici per non restituire la lettera. Che poi, ironia della sorte, viene resa al mittente perché troppo pesante in relazione al valore dei francobolli affrancati: simpatica soluzione, d’accordo, ma assolutamente non adeguata alla tensione provocata dal film.
Loretta Young
venerdì 14 novembre 2025
THE NEST OF THE CUCKOO BIRDS
1759_THE NEST OF THE CUCKOO BIRDS , Stati Uniti 1965. Regia di Bert Williams
“Era una
leggenda, non lo aveva mai visto nessuno”. Queste le lapidarie parole di
Nicolas Winding Refn a proposito di The nest of the cuckoo birds di Bert
Williams. Refn, da tempo, si occupa di recuperare e restaurare film sconosciuti
e quello di Williams è uno dei suoi lavori più illustri. Il Southern Gothic, o
Gotico Sudista, è un genere cinematografico ben definito, con opere mirabili e
note come La morte corre sul fiume [Night of the hunter, Charles
Laughton, 1955] o Un tram chiamato desiderio [A streetcar named
desire, Elia Kazan, 1951] tanto per fare due nomi. Ma The nest of the
cuckoo birds, sebbene condivida alcuni temi caratteristici del Southern
Gothic, l’ambientazione negli Stati Uniti del sud, l’atmosfera malsana, il
disagio diffuso, li porta però all’eccesso, apparentandosi alla corrente
estrema del genere. Qui si può inserire in quel filone che vede opere abbastanza
famose come Mudhoney [Russ Meyer, 1965] o Non aprite quella porta
[The Texas Chain Saw Massacre, Tobe Hooper, 1974], quest’ultimo film,
tra l’altro, probabilmente ispirato proprio da The nest of the cuckoo birds.
In generale, queste pellicole non brillano per la confezione formale
impeccabile e, anzi, fanno di una certa trascuratezza visiva uno dei punti di
forza. Quello di Bert Williams, tuttavia, forse esagera un po’, dando
l’impressione, ad esempio all’inizio, di essere un filo troppo sgangherato. In
effetti l’introduzione della vicenda è abbastanza confusa: il detective protagonista
(lo stesso regista, Bert Williams), per sfuggire ad una banda di
contrabbandieri, si dilegua nelle paludi infestate dagli alligatori. Infine
trova rifugio al Cuckoo Birds Inn, una locanda abitata da tre soggetti
particolarmente singolari: lo strano inserviente Harold (Chuck Frankle), l’inquietante
padrona (Ann Long) e la sua povera figlia Lisa (Jackie Scelza). La giovane
ragazza è tenuta incatenata in soffitta ed è evidente, al di là delle stranezze
di facciata, che qualcosa di profondamente malsano si nasconda nella locanda. La
recitazione non è certo convincente e anche il ritmo narrativo ogni tanto tende
ad assopirsi, salvo poi avere dei passaggi traumatizzanti che possono
sorprendere perfino lo scafato spettatore moderno. Anche per questo motivo,
quello di Williams non è un film che va sottovalutato, nonostante le sue
imperfezioni. Ben sorretto dalle musiche di Peggy Williams, The nest of the
cuckoo birds riesce, in definitiva, a trasmettere perfettamente il senso di
un genere, il Southern Gothic, che è particolarmente utile se si vuole
comprendere meglio la vera anima dell’America. Quella oscura.
martedì 11 novembre 2025
IL PONTE DEI SENZA PAURA
1758_IL PONTE DEI SENZA PAURA (The Cariboo Trail), Stati Uniti 1950. Regia di Edwin L. Marin
sabato 8 novembre 2025
LA PIU' GRANDE AVVENTURA
1757_LA PIU' GRANDE AVVENTURA (Drums along the Mohawk), Stati Uniti 1939. Regia di John Ford
Per una
volta, il titolo originale, Drums along the Mohawk [traduzione
letterale, Tamburi lungo il Mohawk] non è poi molto più inerente della
versione italiana La più grande avventura. Certo, quello utilizzato nel
Belpaese è un titolo molto generico, mentre quello scelto ad Hollywood è assai
più specifico. Ma l’essere così calzante alla storia raccontata nel film
potrebbe finire, per assurdo, per essere fuorviante; si potrebbe pensare,
infatti, che Drums along the Mohawk abbia come obiettivo proprio gli
scontri nella vallata del Mohawk River, ai tempi della Guerra d’Indipendenza
Americana. Che è quello che poi si vede nel film, intendiamoci, ma La più
grande avventura è, in concreto, il manifesto del Sogno Americano al punto
che un titolo come The American Dream sarebbe stato probabilmente più
azzeccato. Si tratta di una provocazione, naturalmente, perché è del tutto superfluo
fare ipotesi su scelte diverse da quelle fatte dagli autori che, di fatto, non sussistono.
Tuttavia stupisce la centralità del Sogno Americano nel film e il totale
convincimento di Ford in questo ideale quando, in seguito, il regista
statunitense si dimostrerà assai più critico con quella che fu, in buona
sostanza, una sorta di propaganda ideologica. Ma, evidentemente, nel 1939,
durante la realizzazione de La più grande avventura, Ford aveva ancora
cieca fiducia che quello che si andava costituendo fosse davvero un grande
Paese, che fosse davvero la terra delle libere opportunità come si autoproclamava:
l’ideale stava prendendo forma concreta.
Ma torniamo al film e andiamo con ordine. I titoli di testa ci presentano il
lungometraggio su tovagliette ricamate a punto a croce, con i caratteri delle
parole molto curati nei dettagli e le immagini delle casette coloniche in mezzo
ai pini tutt’intorno al fiume. Il che è curioso, essendo La più grande
avventura comunque un western, per quanto atipico essendo ambientato in un
periodo storico e in un’ambientazione leggermente diversi rispetto ai canoni del
genere. Ma si trattava comunque di una storia della Frontiera, con i bianchi a
conquistare terre alla natura, per renderle coltivabili e produttive, e gli
Indiani a difendere il proprio habitat selvaggio: le basilari coordinate del
genere western.
Ne La più grande avventura la guerra, immancabile risultato di ogni confronto in caso di interessi divergenti tra collettività umane, era tra i coloni americani e la corona britannica, ma il contributo degli indiani, che fu certamente rilevante in ambito storico, è enfatizzato e utilizzato in modo strumentale da Ford. Ne La più grande avventura, il ruolo degli Irochesi leali alla corona, abilmente manovrati da Caldwell (John Carradine), rappresenta ben più che gli interessi dell’Inghilterra. Gli Indiani ostili all’avanzata dei coloni americani incarnano l’asprezza e la durezza di una Terra tanto promessa quando difficile da raggiungere, ma anche l’estrema difesa della Natura all’incombere della Civiltà. Lo scontro tra questi due modi antitetici di concepire il mondo, inteso come luogo in cui si vivesse, era inevitabilmente cruento; e la guerra, il risultato altrettanto inevitabile, era un tema che affascinava maggiormente il pubblico maschile che con ricami all’uncinetto avevano poco a che fare. Questa influenza femminile, se si può definire così, permane anche nell’incipit del film che comincia con il matrimonio tra Lana e Gil Martin: oltretutto nei manifesti dell’epoca il nome di Claudette Colbert, l’attrice che interpreta Lana, è riportato prima di quello di Henry Fonda, il protagonista maschile. Questa impostazione di partenza, porta con sé due significati distinti. Il primo è che la donna è, secondo Ford, la figura centrale della famiglia che è la prima cellula della collettività; pertanto, una società nascente non può che mettere al centro del progetto una figura femminile. A cui fanno riferimento tutti i dettagli «domestici», le tovagliette ricamate, i mobili, le porcellane, i vestiti con pizzi e merletti, che ritornano a più riprese soprattutto nella prima parte del film. Perché nella seconda è progressivamente, o meglio a strappi devastanti, intervenuto l’altro significato che tutta questa chincaglieria ha nell’economia del discorso di Ford sulla nascita della nazione. Sotto i pesanti attacchi dei lealisti e dei loro ferocissimi alleati indiani Irochesi, i coniugi Martin, Lana e Gil, perdono tutto, e come loro anche gli altri coloni del film. Qui veniamo quindi al secondo significato: gli Stati Uniti, per poter nascere, per poter dar corpo al Sogno Americano, si devono spogliare dell’eredità di stampo europeo e non ci si riferisce solo ai beni materiali. Lana, una fanciulla di famiglia facoltosa dell’est, deve essere disposta a fare la donna di servizio presso la fattoria della signora McKlennar (Edna May Oliver), vecchia e arzilla vedova di rango sociale decisamente più modesto ma, in quel frangente, in condizioni economiche certamente migliori. La fattoria dei Martin, infatti, costruita con indicibili fatiche, soprattutto per una giovane ragazza abituata alla vita confortevole nella residenza paterna dell’Est, è finita in fumo grazie ad uno dei raid degli Irochesi. Il fuoco, alimentato a più riprese dagli indiani, rappresenta simbolicamente la prova da superare per i coloni, per i nuovi americani. Gli Irochesi, che lo usano in modo distruttivo, sono anch’essi da annoverare tra le difficoltà che i coloni devono superare e Ford utilizza il contesto storico, in cui alcune di queste tribù rimasero fedeli all’alleanza con gli Inglesi, contro cui gli indipendentisti americani insorsero, per dare forza al suo racconto.
Ma non c’è, ne La più grande avventura, una deriva razzista o discriminatoria nei confronti dei nativi americani. Innanzitutto va detto che effettivamente gli Irochesi, e in particolare i Mohawk che prevedibilmente vediamo all’opera –essendo il film ambientato nella valle del fiume che deve a loro il nome– erano effettivamente particolarmente bellicosi e feroci sul campo di battaglia. Chiedere agli Uroni o agli Algonchini per conferma. Inoltre, uno dei personaggi più interessanti della pellicola è Falco Blu (o Blue Back, interpretato da Chief John Big Tree) che è un indiano ma, al contempo, un buon cristiano, per usare le sue parole. Il finale celebra la nascita degli Stati Uniti sotto la bandiera a stelle e strisce e, significativamente, prima della coppia di protagonisti Lana e Gil, Ford inquadra l’indiano Falco Blu e la domestica di colore Daisy (Beulah Hall Jones), come a sottolineare la multietnicità del Paese. Considerato l’importanza della posta in palio, il regista sfodera la sua proverbiale capacità di dosare gli ingredienti: ci sono i passaggi drammatici e quelli sentimentali, gli intermezzi umoristici e non mancano, ovviamente in Ford, i momenti musicali della tradizione folcloristica. Tra le scene di maggior rigore simbolico c’è quella della morte del generale Herkimer (Roger Imhof), a cui succede, per contrapposizione, la nascita del figlio di Lana e Gil. Un’altra sequenza emblematicamente fordiana è quella in cui la signora McKlennar resiste sul suo letto all’incursione di due feroci indiani. La donna, addirittura, ordina ai due belluini guerrieri di portala fuori, mentre se ne sta imperterrita seduta sul letto, perché non vuole che questo bruci nel rogo appena appiccato dagli indiani. È, evidentemente, una scena ironica, che alleggerisce la drammaticità della situazione oltre a rimarcare la superiorità morale della vecchia colona rispetto ai selvaggi; ma è anche una situazione al limite del grottesco e solo la sublime capacità narrativa di Ford riesce a mantenerla nei canoni di un plausibile passaggio tragico virato da un’assurda comicità. Un’alchimia mirabile e il regista americano amava utilizzare «ingredienti» che conosceva bene. Non a caso il cast pullula di attori che erano o diverranno negli anni habitué del cinema di Ford: da Fonda a Carradine, a Ward Bond (è Adam Hartman), a Francis Ford, fratello del regista (è Joe Bolero), fino a Russell Simpson (è il dottor Petry). A molti di loro sono deputati questi momenti ibridi, tra dramma e commedia, ad esempio l’Adam di Ward Bond audace e coraggioso tanto nel flirtare con la signora McKlennar quanto in battaglia, oppure il reverendo Rosenkrantz (Arthur Shields), che interrompe la predica durante la funzione per fare la pubblicità all’emporio della zona. Sembra un uomo venale, il prete, ma dimostrerà la sua tempra morale quando si troverà costretto a sparare a sangue freddo a Joe Bolero, prima che gli indiani mandino lo scout arrosto ancora vivo e vegeto.
In una gestione universale, come quella del cineasta americano, non tutti gli interpreti avevano compiti sfaccettati, ad esempio, ad occuparsi delle gag comiche troviamo Eddie Collins (Christian Reall) che, pur non avendo forse lo status di attore tipico di Ford, aveva comunque già recitato in precedenza in un paio dei suoi film, tra cui Alba di Gloria [Young Mr. Lincoln, 1939]. E, eventualmente per dare equilibrio al bilancio complessivo, anche il Caldwell da John Carradine è un personaggio a tutto tondo, nel suo caso un vero e proprio villain. Il cattivo della storia è ispirato alla figura storica di William Caldwell, un lealista alla corona britannica che combatté nelle file dei Rangers di Butler, di cui anche il personaggio del film indossa la divisa verde. Interessante il modo ironico e intelligente con cui Ford ci informa di come sia passato a miglior vita durante la battaglia, ovvero con l’ennesimo innesto tra il registro drammatico e quello comico. Il passaggio è una vera e propria gag comica, infatti è presentata da Reall, ed è risolta con un’entrata in scena beffarda di Falco Blu, che sfoggia la benda sull’occhio appartenuta a Caldwell. Questi, storicamente, aveva sì combattuto nelle guerre di Frontiera nella valle del Mohawk River, ma non in quella di Oriskany che è uno dei momenti migliori dell’intero film. Ford decise per la verità di non girare le scene di questo scontro e si affida alla sua capacità registica e all’intensità recitativa di Fonda, che interpreta Gil reduce dalla battaglia gravemente ferito. In un primo momento l’uomo sembra quasi dato per morto ma Lana non si arrende e non smette di cercarlo, trovandolo poi accasciato lungo la via del ritorno, sotto un nubifragio notturno. Una volta al riparo, Gil è in grado di raccontare le sorti della battaglia, mentre, poco più in là, al generale Herkimer devono tagliare la gamba ferita e ormai irrecuperabile. Come accennato, il generale non sopravviverà, causa un’emorragia non arrestata; nella realtà storica la morte all’ufficiale fu cagionata da un’infezione e avverrà solo una decina di giorni dopo. Del resto Gil racconta anche di aver vinto la battaglia di Oriskany, per quanto le condizioni delle truppe indipendentiste tornate al forte lascino qualche dubbio, quando storicamente lo scontro è registrato come successo britannico. Ma queste imprecisioni storiche di Ford, ivi compreso la descrizione dei nativi americani, non sono frutto di sciatteria o trascuratezza quanto la necessità di piegare la Storia alle necessità dell’Epica. In seguito, questo sarà comunque vero, perché Ford sentiva il dovere di raccontare la nascita del proprio Paese, tuttavia si farà progressivamente strada un certo rammarico per ciò che, nella conquista del west, era andato perduto. Al contrario, come accennato, ne La più grande avventura c’è ancora completa fiducia nel futuro dell’America. Il film uscì nel novembre del 1939, la Seconda Guerra Mondiale era appena iniziata, gli Stati Uniti non si erano ancora iscritti al conflitto e, di conseguenza, non lo avevano ancora vinto. La vittoria e la conclamazione di leader assoluto del mondo occidentale, era quindi ancora di là da venire: sarebbe stata la consacrazione, a livello geopolitico, del Sogno Americano sbandierato ne La più grande avventura. Ma era solo questione di tempo. Se, dopo oltre un secolo e mezzo, era possibile stilizzare per motivi epici la Questione Indiana, con i morti di Hiroshima, Nagasaki e tutti gli altri tragici teatri di guerra negli occhi, sarebbe stata un’impresa che, con l’andar del tempo, si sarebbe rivelata insostenibile anche per il più patriota dei registi.
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