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giovedì 21 novembre 2024

QUI SQUADRA MOBILE - POLLICINO VA IN CITTA'

1580_QUI SQUADRA MOBILE - POLLICINO VA IN CITTA' . Italia, 1976; Regia di Anton Giulio Majano 

La seconda stagione di Qui Squadra Mobile venne trasmessa tre anni dopo la prima, e questo è un fatto certamente curioso, se consideriamo il successo della serie nel 1973. Tuttavia uno dei motivi di questo «ritardo» è legato alla cura maniacale con cui sono stati realizzati gli episodi. Per concludere le sei puntate che compongono anche questa seconda serie, è stato necessario più di un anno di lavorazione. Giancarlo Sbragia, che nella prima stagione era il capo della Mobile, il commissario Carraro, stante i suoi impegni teatrali, non ha potuto partecipare considerato l’impegno in termini di tempo che richiedeva questa produzione televisiva. I soggetti sono, anche in questo caso, sono ispirati a episodi di cronaca, finemente lavorati in sede di scrittura da Massimo Felisatti e Fabio Pittorru, ai quali si aggiunge poi il regista Anton Giulio Majano, per una sceneggiatura congiunta. Rispetto alla prima serie, c’è la volontà da parte degli autori di enfatizzare ancor meno gli eventi, nonostante la verosimiglianza fosse già la caratteristica dello sceneggiato, come il sottotitolo, Cronache di Polizia Giudiziaria, lascia intendere.

1 POLLICINO VA IN CITTA’

Come accennato, Giancarlo Sbragia, che interpretava il protagonista principale, il commissario Carraro, non era disponibile per questa nuova stagione. Gli autori approfittano di questo elemento per mettere sul terrendo nuovi elementi narrativi. In pratica il primo episodio, al netto della trama investigativa legata ad un originale innesto tra il traffico di droga e l’«affitto» di minori ai mendicanti per chiedere le elemosina, serve per inserire il nuovo personaggio del capo della Mobile, Guido Salemi. Ad interpretarlo, un’assoluta star degli sceneggiati della televisione italiana, Luigi Vannucchi: il suo carisma scenico, basta da solo ad innalzare le aspettative su questa seconda serie. Che non vengono deluse neppure da questa prima puntata, come detto, sostanzialmente introduttiva: c’è da trovare i nuovi equilibri tra i vari membri della Squadra, problema non di poco conto considerato che Salemi in qualità di capo della Mobile regge le fila di tutti i filoni d’indagine. Da quel che si apprende, il nuovo commissario capo è di estrazione manageriale, non è, cioè, uomo che arriva dal campo d’azione, e questo è un tema da una parte interessante e, dall’altra, anche triste. Prevedibilmente, dopo un iniziale scetticismo di qualche membro della Mobile nei confronti di un «imbrattacarte» o «mezzemaniche» che dir si voglia, Salemi saprà farsi valere, risolvendo a suon di pistolettate il primo episodio. Il che è anche normale, Vannucchi come physique du rôle sovrasta di due spanne chiunque altro nel cast dello sceneggiato. Tuttavia l’idea che emerge è che il manager, come professione a sé stante, sia la soluzione ideale per la società italiana che, in quegli ancora tribolati anni Settanta, si preparava al boom economico del decennio successivo. Il rampantismo sarà la conferma di queste teorie, dichiarate espressamente dal commissario Moraldi (Giulio Platone) in un dialogo dello sceneggiato, e, ancora oggi, nonostante gli sfaceli economico-sociali che il ricorso ai manager –in luogo a dirigenti provenienti dal settore specifico– ha determinato nel corso di questi anni un po’ ovunque, si tratta dell’unica soluzione di gestione aziendale utilizzata e riconosciuta come vincente. Per altro, al tempo, poteva essere un’ingenua fiducia nell’adozione di sistemi in uso nelle più evolute economie anglosassoni, del resto Moraldi utilizza proprio il termine «manager» quando «dirigente d’azienda» sarebbe stato anche più comprensibile. Si sarebbe compreso, cioè, che in questo modo si andava ad intendere qualunque ruolo di gestione come se ci si trovasse in un’impresa privata, commerciale o industriale. E se l’utilizzo di personale istruito a comandare –i manager– anziché elementi promossi dall’interno dell’azienda, potrebbe avere un valore –e non ce l’ha– in ambito dell’impresa privata, assai più arduo utilizzare scegliere i vertici di comando con questo criterio per strutture di matrice pubblica come la Squadra Mobile. La nostra società, nel tempo, ha fatto di ben peggio, utilizzando la figura del manager in ambito sanitario e trasformando gli ospedali in aziende, autentica blasfemia del nostro quotidiano. Ma torniamo allo sceneggiato in questione, sul quale, per altro, queste considerazioni gravano costantemente e ne influenzano, senza alcuna attenuante, la valutazione finale. In ogni caso, tra le varie coordinate che gli autori devono dettare, per questa nuova stagione, ci sono i rapporti tra i vari membri. Il secondo personaggio per ordine di importanza, già dalla serie del 1973, è il commissario Solmi (Orazio Orlando), capo della Omicidi: la sua scarsa attitudine ad agire in equipe, è ribadita in questo Pollicino va in città, primo episodio della seconda stagione. Si tratta di un ponte ideale con la prima serie, dove, nell’ultima puntata, Solmi aveva vanamente promesso a Carraro di evitare, in futuro, colpi di testa; a parziale difesa del capo della Omicidi va detto che, nello sceneggiato come nella realtà, sono passati tre anni e, quindi, se non altro, il commissario non ha rotto immediatamente la sua promessa. Più spazio viene dato al commissario Astolfi (Gino Lavagnetto), capo della Narcotici che collabora con l’ispettrice Giovanna Nunziante (Stefanella Giovannini). Per quel che riguarda la traccia sentimentale, la Nunziante sembra essersi allontanata da Alberto Argento (Elio Zamuto), capo della sezione Rapine, ma la cosa sembra ovviamente solo pretattica narrativa. Sul profilo umoristico, tengono banco le gag tra Solmi e il maresciallo Mandò (Marcello Mandò), un personaggio nuovo così come il più diligente agente Di Franco (Claudio Capone). Il risultato complessivo di questa puntata d’esordio è equilibrato tra le parti e sufficientemente scorrevole. 

martedì 19 novembre 2024

IL CAIMANO DEL PIAVE

1579_IL CAIMANO DEL PIAVE . Italia, 1951; Regia di Giorgio Bianchi 

Nel 1951 l’Italia cercava ancora di riprendersi dalla tragedia della Seconda Guerra Mondiale e, in quest’ottica, Il Caimano del Po di Giorgio Bianchi poteva aiutare a sollevare almeno un poco il morale della popolazione. Perché, seppure non si tratti di un’opera intrisa di patriottismo di stampo fascista atta a celebrare la Vittoria nella Grande Guerra, non era nemmeno uno di quei testi sarcastici che raccontavano in modo forse eccessivamente disilluso la nostra partecipazione alla Prima Guerra Mondiale. Al netto delle eventuali carenze tattico strategiche  dei comandanti nei momenti cruciali (facile esempio la disfatta di Caporetto, di cui si vedono gli effetti nel film di Bianchi), e di altre lacune militari innegabili (equipaggiamento, addestramento), qualche merito le truppe del Regio Esercito Italiano doveva pur averle se fu in grado di resistere sulla linea del fiume Piave dopo la debacle della XII battaglia dell’Isonzo. Insomma, tra la propaganda fascista del ventennio e quel revisionismo divenuto nel tempo eccessivamente critico, forse anche nato nel solco del capolavoro di Mario Monicelli La Grande Guerra (1959), c’era sicuramente posto per un onesto film di parte come Il Caimano del Po. C’è l’eroico italiano, Franco (Frank Latimore), triestino e irredentista, c’è il valoroso Colonnello di Torrebruna (un aitante Gino Cervi), c’è anche la nobile ragazza italiana, Lucilla di Torrebruna (una deliziosa Milly Vitale) e, per chiudere con gli attori principali, c’è Ciapin, giovane paraplegico che, grazie anche alla carica umana di Francesco Golisano, incarna bene il sentimento di chi avrebbe voluto dare il suo contributo al conflitto ma ne è rimasto fuori. Quest’ultimo elemento è da ricondurre, più che ad un sentimento patriottico d’annunziano, al tenore melodrammatico che, soprattutto al cinema, incominciava a spopolare negli anni Cinquanta. Al quale si iscrive anche la storia d’amore tra Lucilla e Franco, sebbene mantenuta ad un livello di sobrietà proprio dallo scatenarsi del conflitto di cui il film è comunque coinvolto. Per i tedeschi un ruolo marginale, attivamente solo nell’occupazione di Villa di Torrebruna nel finale, mentre la figura delle spie, Helene (Ludmilla Dudarova) e Majda (Gina Falckenberg), è criticabile solo in parte. In ottica bellica è infatti pienamente legittimo il loro operare spionistico, assai meno l’inganno sentimentale di Helena che sposa il colonnello, vedovo da tempo, unicamente per occupare una posizione strategica. D’altronde lo si è detto: negli anni Cinquanta le trame rosa intrigavano più di quelle belliche. Tuttavia nel quadro complessivo dell’opera, oltre alla gradevolezza del narrato cinematografico, va segnalato lo spunto che dà il titolo al film e quindi non può certo essere ritenuto secondario. Nota importante, i Caimani del Piave furono un reparto di fanteria marina, tra i quali molti provenivano dagli Arditi e che operarono effettivamente lungo il fronte del Piave. E’ quindi storico l’elemento più interessante de Il Caimano del Piave e questo, soprattutto per un film bellico, è sempre un titolo di merito.


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domenica 17 novembre 2024

ADDIO ALLE ARMI (1932)

1578_ADDIO ALLE ARMI (A Farewell to arms). Stati Uniti, 1932; Regia di Frank Borzage

Innanzitutto va riconosciuto che non è facile raccontare una storia di Ernst Hemingway quando non si è Ernst Hemingway. Fatta questa iniziale presa di distanza dal capolavoro letterario dello scrittore americano alla base del film Addio alle armi di Frank Bozarge, vanno registrate altre limitazioni che subì l’opera filmica. A quel tempo, il sentimento antimilitarista di Hemingway poteva essere tollerato in un libro ma pensare che lo stesso accadesse ad un film era pura utopia. La censura intervenne già in sede di sceneggiatura, andando ad eliminare quei passaggi troppo realistici, non necessariamente di carattere bellico, presenti nel libro; sebbene anche sotto quest’ultimo aspetto la Paramount Pictures, lo studio di produzione del film, interpellò addirittura l’Ambasciata Italiana a Washington per evitare ogni riferimento scomodo all’operato dell’esercito del belpaese nella storia narrata. In effetti le situazioni poco lusinghiere che si verificarono a Caporetto e nei giorni successivi non sono approfondite dal film che sembra glissare su questi aspetti, dando un’idea confusa e poco decifrabile di quegli avvenimenti. Insomma, Hemingway scriveva capolavori ma con elementi troppo in anticipo sui tempi, per esempio si veda anche solo la storia d’amore consumata dai due protagonisti senza essere sposati, e a quel cinema tali libertà non erano concesse. Fatte queste ulteriori premesse è quasi naturale che Addio alle armi risulti, a vederlo oggi, una semplice storia d’amore molto drammatica, anzi tragica, a cui l’inconsistenza del terzo vertice del tipico triangolo nega anche la possibilità al crescente pathos di sfociare mai nel melodramma. Il protagonista è il tenente Frederic Henry (un Gary Cooper fresco fresco), addetto alle ambulanze di stanza in Italia; al suo fianco l’infermiera inglese Catherine (Helen Hayes). Se non la doveste vedere guardate in basso: raramente sullo schermo si è vista una coppia così mal assortita dal punto di vista dell’altezza. Coop era infatti un metro e novanta (e al tempo anche un po’ allampanato), la Hayes circa un metro e mezzo. Tuttavia va riconosciuto all’attrice americana il piglio giusto unito ad un fascino notevole: pur se in un confronto con un asso del cinema come Cooper, la Hayes non sfigura affatto, anzi. Chi invece finisce per rovinare le già poche chance di riuscita del film fu Adolphe Menjou: non per le sue capacità interpretative, per carità, ma il ruolo del Maggiore Rinaldi è troppo ottuso e stupido per reggere lo schermo. Le sue sciocche ripicche non possono essere, come invece sono all’atto pratico, il tema portante del dramma; neppure se ad aiutarlo in questa infantile e dispettosa condotta si mette anche l’amica di Catherine, Helen (Mary Phillips). Certo, non è che Frederic si dimostri questo cavaliere provetto nei confronti dell’amico, andando a soffiandogli la dama da sotto il naso senza alcun riguardo. Ma se non altro lo fa a viso aperto. Invece i meschini dispettucci di Rinaldi, malamente celati da preoccupazione amichevoli, sono fatti sottobanco e sono i veri responsabili delle svolte salienti della trama: le lettere respinte dal Maggiore per ostacolare la storia tra Frederic e Catherine, ma anche l’ostracismo di Helen. Certo la trama poi si infiamma con fatti concretamente gravi: Catherine, incinta e disperata per la mancanza di notizie dell’amato, partorisce ma il bimbo nasce morto. Frederic riesce alla fine a raggiungerla ma la donna, ormai prosciugata dal dolore, spira tra le sue braccia. Se ci si lascia trasportare, è un finale ad effetto; ma quelle che lo alimentano sono fiammate senza sostanza e passato il momento non ne rimane nemmeno la cenere. Senza andare a prendere in considerazione il romanzo di Hemingway che, come si è visto, verteva su ben altri presupposti, rimane il dubbio se fosse proprio necessario ambientare una storia del genere durante le fasi cruciali della Prima Guerra Mondiale. Caporetto, il Piave, vengono lasciati con noncuranza sullo sfondo e il rischio poteva essere che questi tragici eventi ne uscissero sviliti senza una degna contropartita. Il sostanziale fallimento dell’operazione Addio alle armi di Frank Bozarge scongiura questa eventualità.   






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venerdì 15 novembre 2024

OUR WORLD WAR: WAR MACHINE

1577_OUR WORLD WAR: WAR MACHINE. Regno Unito, 2014; Regia di Bruce Goodison 

Il terzo capitolo della serie di film televisivi della BBC dedicata alla Prima Guerra Mondiale è un interessante viaggio all’interno di uno dei più inconsueti veicoli della Storia: il carro armato. Il mezzo protagonista di questo film, un Niveleur Mark V, era uno dei primi veicoli corazzati da combattimento di questo tipo e fu protagonista di quello che, nel film, viene definito il più grande attacco meccanico fai sferrato fino al quel momento. Il momento storico è cruciale: i tedeschi avevano ormai perso la superiorità numerica che il ritiro della Russia dal conflitto e il successivo disimpegno tedesco sul fronte orientale aveva creato. L’Offensiva di Primavera era ormai finita, del resto si era ai primi giorni di agosto, senza che la situazione di stallo fosse stata sostanzialmente modificata. Gli alleati prepararono quindi la mossa decisiva: l’Offensiva dei Cento Giorni che verrà inaugurata dalla Battaglia di Amiens, illustrata in modo efficace proprio da War Machine, il film BBC. Gli alleati dell’Intesa furono in grado di mettere in campo 420 carri armati e, contrariamente alla consuetudine del tempo, evitarono il classico fuoco di artiglieria che, se cercava di spianare la strada ad un imminente assalto, metteva comunque in all’erta il nemico. I Tank alleati si mossero così sfruttando il duplice effetto sorpresa: i tedeschi non ebbero il preavviso di prepararsi e, soprattutto, non si aspettavano di trovarsi di fronte un attacco meccanizzato di tali proporzioni. La narrazione moderna del film televisivo della BBC, con i suoi rimandi agli odierni documentari e alla grafica dei videogames, permette di comprendere al meglio sia la dinamica degli eventi sul campo di battaglia che quella funzionale del carro armato. A fronte di un notevole interesse del racconto per l’aspetto tecnico/tattico (il tank Mark V e le fasi della battaglia) gli autori ben bilanciano la storia con alcune pennellate umanistiche. Il tempo complessivo è limitato ma ce n’è comunque abbastanza per assistere all’evolversi del rapporto tra il rude veterano Doods (Chris Reilly) e il pivello del gruppo Weston (Danny Walters). Questi, tra l’altro, è un buon meccanico e lo dimostra subito; ma è una recluta del 1918, ovvero uno di quelli che non aveva aderito a suo tempo alla causa bellica, preferendo continuare la sua vita borghese. Un fatto imperdonabile agli occhi di Doods, che la Grande Guerra l’aveva cominciata nel ’14 e sul fronte aveva perso due fratelli. Tra le varie peripezie, tra cui l’abbandono di un membro dell’equipaggio perché ferito, si arriva alla fine anche se va detto che manca un po’ il tempo per approfondire le personalità degli altri componenti della squadra. E’ però una scelta, da parte degli autori, anche funzionale perché in questo modo si trova il tempo per sviluppare una traccia poetica, con Chas (Gerard Kears), uno dei membri dell’equipaggio, che, trovato una lettera d’amore di un commilitone morto, decide di portarla di persona alla destinataria e recitarla a memoria ora che era andata mezzo distrutta. E dire che per tutto il film avevamo creduto che Anne (Anna Bolton) fosse sua moglie e che fosse stato l’amore per lei a dare la forza a Chas di sopravvivere. Ma la scoperta della verità non sminuisce certo la forza del più nobile tra i sentimenti, anzi. In guerra si è veramente al cospetto della morte e l’unico antidoto per sopravvivere è davvero l’amore. Perfino l’amore di uno sconosciuto per sua moglie.




mercoledì 13 novembre 2024

IL BATTAGLIONE PERDUTO

1576_IL BATTAGLIONE PERDUTO (The Lost Battalion). Stati Uniti, Lussemburgo, 2001; Regia di Russell Mulcahy

Prodotto televisivo che ha la confezione paragonabile ad un vero film per il cinema, Il battaglione perduto di Russell Mulcahy racconta di fatti realmente accaduti durante la Prima Guerra Mondiale. Siamo nell’ottobre del 1918, nelle Argonne, in Francia. E’ un momento decisivo per le sorti della guerra e la 77° Divisione americana guidata dal maggiore Whittlesey (Rick Schroder) è comandata per condurre un’incursione oltre la linea tedesca, fiancheggiata ai lati da un’altra formazione statunitense e da una francese. Al maggiore sembra una missione suicida, ma l’ordine è perentorio: bisogna rompere gli indugi e dare la spallata decisiva al nemico. Pur consapevole di condurre i propri uomini al macello, all’ufficiale non rimane che obbedire. I 600 uomini partono all’assalto e raggiungono il bosco obiettivo dell’offensiva a prezzo di perdite carissime; pare che se la caveranno in meno di 200. Durante la battaglia, dei due reparti alleati che dovrebbero essere ai fianchi dei nostri uomini, non c’è traccia. In effetti soltanto la 77° Divisione è riuscita nell’impresa di occupare la posizione nemica, i colleghi americani e francesi sono stati respinti. Praticamente circondati in territorio nemico, gli uomini di Whittlesey vengono isolati anche dai collegamenti: il bosco è una autentica foresta e i tedeschi sembrano ovunque. Il senso di smarrimento, il timore per un nemico che può arrivare da qualsiasi parte, assale i soldati trasforma Il battaglione perduto in qualcosa di simile ad un horror. Mulchahy è ora sul suo terreno: riconosciuto regista di videoclip musicali e di film di azione ( Razorback-Oltre l’urlo del demonio, 1984; Highlander, l’ultimo immortale, 1986) padroneggia le paure di protagonisti e spettatori infierendo senza fare sconti. L’atrocità della guerra trova un valido testimone ne Il battaglione perduto ma non siamo ancora all’apice della rappresentazione: entra in scena, in modo maledettamente efficace, l’artiglieria. I colpi di cannone aprono vuoti spaventosi sulla collina boscosa tanto quanto nelle fila degli americani e, per completare il discorso sull’assurdità della guerra, si tratta di fuoco amico. Nelle retrovie, infatti, non è giunta notizia dell’impresa della 77° Divisione e si pensa di bombardare una posizione nemica: perfino i tedeschi ne sono stupefatti. Tedeschi che, per onor di cronaca, sembrano affascinati dalla folle audacia degli yankee e offrono ai loro valorosi avversari una resa onorevole. In questa fase c’è uno dei  passaggi meno convincenti de Il battaglione perduto: Mulcahy sa il fatto suo in materie adrenaliniche ma appare un po’ improvvisato in quelle sociologiche. Il fatto che la 77° Divisione trovi una sua forza nell’origine indisciplinata dei suoi soldati può anche essere possibile; assai meno che gli ufficiali tedeschi riescano a cogliere queste sfumature nel corso della battaglia. Il punto che preme al regista è affermare che il battaglione americano sia composto prevalentemente da gente della periferia newyorkese, ragazzi di strada, figli di immigrati non propriamente wasp (White Anglo-Saxon Protestant). Un proposito certamente lodevole nelle intenzioni: il discorso di Mulcahy cerca di valorizzare la società multiculturale e quindi di abbattere gli steccati tra le caste sociali. Un argomento anche inerente nello specifico alla Prima Guerra Mondiale che vide, nel suo svolgersi, la caduta ufficiale dell’Ancien Regime, incarnato dagli Imperi Centrali e dalla dinastia degli Zar. Ma tra messa in scena ben calibrata tra azione e tensione emotiva rimane poco posto per questi approfondimenti che sarebbero validi spunti, se lasciati appunto come tali. Il regista insiste invece un po’ troppo, specialmente nel confronto coi tedeschi che, con il loro senso dell’onore cavalleresco, ben incarnano, almeno nell’etichetta, i valori di quel mondo a cui la Grande Guerra avrebbe posto termine. Tutto sommato un peccato veniale, peraltro congenito alla cifra stilistica di Mulcahy, di un regista comunque bravissimo nel suo terreno, tra l’altro assai adatto ad una rappresentazione bellica. E allora godiamoci le gesta dei gangster dei sobborghi newyorkesi divenuti eroici soldati per quel che sono: un’ora e mezza di vibrante azione bellica.           



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lunedì 11 novembre 2024

I FUCILIERI DELLE ARGONNE

1575_I FUCILIERI DELLE ARGONNE (The Fighting 69th). Stati Uniti, 1940; Regia di William Keighley

Cosa ci fa un gangster alla Prima Guerra Mondiale? James Cagney nel ruolo di Jerry Plunkett in I fucilieri delle Argonne ne dà un esauriente saggio. Il film di William Keighley, come altri film americani inerenti alla Grande Guerra, è diviso in due parti: l’addestramento e il fronte. Per gli americani sembra sempre importante sottolineare, anche narrativamente, con un preambolo in cui si evidenzi in modo chiaro come la guerra sia già in corso, che il loro intervento avvenga solo in un secondo momento. Quasi un modo un po’ infantile per dire non abbiamo cominciato noi. In ogni caso questa tipica struttura narrativa permette a Cagney di sviluppare in modo completo la personalità di Plunkett, vero mattatore dell’opera. Ad onor di cronaca il film è un omaggio a due figure storiche della Prima Guerra Mondiale a stelle e strisce: la dedica esplicita è per padre Duffy (Pat O’Brien), il cappellano, ma un posto di rilievo nell’opera ce l’ha anche Wild Bill Donovan (George Brent), il comandante del 69° reggimento. Il titolo originale è, in effetti, The Fighting 69th e c’è una certa attenzione, specie nella fasi di addestramento, per l’indole un po’ esuberante di questo corpo d’armata composto in gran parte da newyorkesi di origine irlandese. Tuttavia Plunkett, che è invece un personaggio di fantasia, è usato dal regista come sorta di testa d’ariete per dimostrare come i temperamenti più insubordinati possano alfine essere sempre ricondotti nella giusta direzione. Un messaggio di matrice cattolica, di qui l’importanza del cappellano, assai utile in un 1940 dove, in America, c’era bisogno della massima adesione allo sforzo bellico allora in corso. Il personaggio di Cagney è quindi il simbolo dei litigiosi ma combattivi soldati del 69° e l’attore, chiamato a recitare un suo classico ruolo fuori contesto, da grande interprete qual è, non si lascia certo sfuggire l’occasione. Il suo Plunkett comincia subito a piantar grane e viene presto preso di mira dal sergente istruttore Big Mike Wynn (Alan Hale) tanto che la loro diatriba sarà costante per tutto il lungometraggio. Il ruolo previsto per Cagney gli consente di recitare perennemente sopra le righe e questo, oltre a riuscirgli benissimo, tiene vivace il ritmo della pellicola anche durante l’addestramento. In questa fase Keighley, anche perché, come accennato, il film esce in piena Seconda Guerra Mondiale, ricorre spesso ad un certo retorico patriottismo, per altro nemmeno troppo fastidioso perché concretizzato prevalentemente nelle parate a suon di marce militari anche godibili, in particolare Garry Owen e I wish i was in Dixie Land. I due pezzi musicali erano stati rispettivamente tra i principali inni militari di nordisti e sudisti nella tutto sommato neppure troppo lontana Guerra Civile Americana. In effetti il reggimento agli ordini di Wild Bill Donovan vedrà confluire reparti da New York e dall’Alabama, quasi a sancire la definitiva unione del paese a fronte di una causa comune. Un’unione battezzata da una mega rissa appena le reclute vengono a contatto e si rammentano le ruggini della Guerra Civile, dove i sudisti dell’Alabama misero in fuga i nordisti di New York. Arrivati al fronte questi aspetti vengono presto dimenticati: gli americani non sono preparati alla realtà della Grande Guerra e si trovano di fronte ad una situazione tragica. Il primo a cedere è proprio il più spaccone: Plunkett combina subito un disastro, causando la morte di alcuni commilitoni e nascondendosi vigliaccamente nel momento cruciale. Padre Duffy cerca di sostenerlo ma per Plunkett è difficile ravvedersi, dopo una vita a fare lo sbruffone senza mai essere stato messo veramente alla prova. Il fronte è per lui un’esperienza insostenibile e si copre ancora di atti vili, con altri compagni morti a suo carico: insomma, non sembra esserci per lui nessuna via di uscita. Poi, mentre infuria una furibonda battaglia, il suo storico nemico, il sergente Big Mike Wynn, è colpito al braccio e non può più azionare il mortaio. Qualcosa scatta nella testa di Plunkett e, sebbene ormai totalmente perduto per la causa militare, salta nel fosso a fianco del sottoufficiale e comincia un micidiale fuoco d’artiglieria che apre voragini nel reticolato tedesco. Il riscatto non è ancora completo, tante sono le colpe a carico di Plunkett, che non lo potrà dirsi che in un unico modo. Ecco quindi la provvidenziale bomba a mano tedesca che arriva nella buca e il nostro eroe cerca di contenerne l’effetto mettendoci sopra l’elmetto e buttandocisi sopra: l’esplosione lo dilania, ma il sergente Big Mike, il suo migliore nemico, è salvo. Ed è salvo anche l’onore di Jerry Plunkett, vero simbolo dei gloriosi Fucilieri delle Argonne.     



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sabato 9 novembre 2024

NIEMANDSLAND

1574_NIEMANDSLAND. Germania, 1931; Regia di Victor Trivas

Che l’epicentro stesso della Grande Guerra, la famigerata striscia compresa tra le trincee nota come terra di nessuno, possa assurgere a luogo-manifesto per un film antimilitarista è un’intuizione davvero niente male. E’ infatti lì che Victor Trivas ambienta il suo Niemandsland, facendo incontrare in un ricovero per la truppa lungo una trincea ormai finita nella terra di nessuno, cinque diversi partecipanti alla Prima Guerra Mondiale. Questi personaggi sono stati presentati in precedenza, nel lungo incipit, e quindi abbiamo una certa familiarità con essi. C’è il soldato tedesco Ernst (Ernst Busch) che, risvegliatosi nella ridotta, cerca di aiutare Lewin (Vladimir Sokoloff), ebreo russo che avevamo visto essere un sarto. Il poveretto è finito sotto una trave e, in seguito ad uno shock causato dall’esplosione di una bomba, non può sentire né parlare. Meno male che arriva il francese Charles (Georges Péclet) a dare una mano al tedesco e il povero sarto viene tolto dalla scomoda posizione. Dopo il primo moto di solidarietà scaturito dalla vista di Lewin moribondo, il tedesco e il francese cominciano a guardarsi con sospetto: il tentativo di tornare nelle rispettive trincee naufraga però subito sotto il terrificante fuoco d’artiglieria che si scatena appena qualcosa si muove. Tornati nel rifugio, vengono raggiunti da Joe Smile (Louis Douglas), un soldato francese di colore, che trascina l’inglese Charles (Hugh Douglas), in un primo momento privo di conoscenza. A questo punto il quintetto di personaggi è riunito e la storia prosegue mettendo in risalto l’assurdità della situazione seconda solo a quella della guerra in generale. E’ interessante, forse per via dell’epoca del film, la mancanza del politicamente corretto di facciata in voga oggi a fronte di un più convinto e profondo rispetto per l’altro, il diverso. Joe Smile viene presentato come nero senza troppi giri di parole e, ad un certo punto, il Charles francese (che si chiama come il militare inglese) richiede il suo aiuto con un hey ‘bianco’, vieni ad aiutarmi! che oggi suonerebbe probabilmente offensivo. Ma nel film non c’è nessuna azione denigratoria nei confronti di Joe Smile che, in quanto artista, è al contrario quello che riesce a cogliere con maggiore lucidità le contraddizioni del tempo e che la situazione paradossale di Niemandsland mette bene in rilievo. Il finale con la marcia dei cinque uomini che si avventano sul filo spinato, che si erge al centro della terra di nessuno, per abbatterlo, è una scena di grande impatto visivo e simbolico. Il film, infatti, risente fortemente dell’eredità del cinema muto che utilizzava immagini di forza prorompente per supplire la mancanza dei suoni. Niemandsland eccede forse in questo senso nella prima parte, quella in cui sono presentati i personaggi nella loro vita borghese, mentre quando ci si sposta al fronte la potenza visiva sembra adeguata al contesto. Certamente nell’emblematica e memorabile ultima sequenza che provava a dare un po’ di speranza ad un mondo che, ben presto, l’avrebbe di nuovo malauguratamente persa. 



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