1768_IL CANDELABRO A SETTE FIAMME , Italia 1974. Regia di Mario Ferrero
Il primo
episodio della serie Il commissario De Vincenzi lascia lo spettatore
disorientato sin dallo spiazzante incipit e ce lo lascia a più riprese. Lo
sceneggiato comincia in modo anonimo, senza titolo o sovraimpressioni: c’è un
signore, nel buio di una strada, una scena inquietante. E a ragione: l’uomo,
che ha con sé una curiosa valigia asimmetrica, verrà ucciso da alcuni sinistri
individui. A quel punto, irrompe una musica d’altri tempi a tutto volume e
compare la scritta «Luce»,
riferimento al celebre Istituto Luce. A meno di non essersi preventivamente
informati sulla natura dello sceneggiato, si potrebbe pensare già a qualche refuso.
Poi, la sigla attacca, il bel motivo musicale di Bruno Nicolai in stile anni 30
è abbinato ad immagini dell’epoca e il tutto assume un’aria più coerente. Ma
per poco: perché la musichetta allegra cambia leggermente tono e compaiono
fotogrammi di repertorio del duce e del fascismo. Quindi è il turno di alcune simpatiche
donnine con relativa soave melodia e, a seguire, un’altra virata stavolta più cupa
accompagnata da Hitler e dalle parate naziste. Un vero frullatore che lascia
basito uno spettatore dei giorni nostri figuriamoci uno di metà anni Settanta,
ma non è ancora finita. Ecco che ricompare di nuovo la scritta «Luce» e,
perlomeno, la scritta «Milano 1933» ci dà qualche minima informazione. A questo
punto dovrebbe cominciare il film vero e proprio; invece no: assistiamo alla
divertente scena finale di Due cuori felici [Due
cuori felici, Baldassarre Negroni, 1932], sebbene lì per lì non è che sia
una cosa immediata da comprendere. Poi, sullo schermo, arrivano Paolo Stoppa e
Gina Sammarco (è Antonietta, la sua governante) che discutono del film appena
visto, con la donna che non è affatto convinta della novità rappresentata dai
film sonori, abituata com’è al cinema muto. Finalmente ci siamo: il racconto
filmico è cominciato ma, come è a questo punto facile intuire, non sarà un
racconto semplice da seguire. De Vincenzi, il personaggio interpretato da
Stoppa, è un commissario di Polizia e si trova coinvolto in un omicidio che è
parte di un gioco spionistico internazionale che introduce nientemeno la
Questione Palestine, faccenda intricata ora figuriamoci negli anni 70 e peggio
ancora negli anni 30. A testimonianza che la trama sia effettivamente difficile
da decifrare nei suoi tanti anfratti, in coda al racconto il commissario fa una
sorta di riassunto e questa è, in genere, una vera e propria ammissione da
parte degli autori che il loro lavoro è un po’ criptico. In effetti, da un
punto di vista investigativo Il candelabro a sette fiamme non entusiasma, dal
momento che l’intrico giallo è poco decifrabile, tuttavia una serie di fattori
contribuiscono a strappare una sufficienza piena. In primo luogo Stoppa, che è
perfettamente a suo agio nel ruolo; poi la scelta di alcuni attori, davvero
congeniali, come Vittorio Sanipoli nei panni del barone Von Wenzel e Walter Bentivegna
in quelli di Johan Veheran, alias il Ragno, formidabile acrobata che sfoggia un
look degno di un nemico di Batman, davvero notevole. In tema di fascino,
nessuno può sognarsi di offuscare quello di Maria Grazia Spina: l’attrice
veneziana è Virginia Olcomb, un’agente israeliana d’elegante bellezza anni 70
eppure adeguata al contesto in cui ambientata la vicenda.
Ingegnoso il lavoro di De Angelis alla base, sul quale si adeguano gli autori
dello sceneggiato, riuscendo a renderlo fruibile pur tra le troppe divagazioni.
La Questione Palestinese che aleggia su tutta quanta la faccenda, aiuta a
rendere il film interessante ma più a titolo di curiosità, considerata la
complessità dell’argomento.











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