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venerdì 31 ottobre 2025

FUMO NERO ALL'ORIZZONTE

1753_FUMO NERO ALL'ORIZZONE , Italia 2008. Regia di C. Sambuchi, L. Ricciardi, M. Visalberghi

Ad oltre 80 anni dal primo e unico tributo filmato – Gli eroi del mare nostro, 1927, regia di Edoardo Bencivenga – la mitica Impresa di Premuda del 1918 torna finalmente sugli schermi. In questo caso televisivi, ma non è certo il caso di fare gli schizzinosi. Il nostro cinema di genere ha, per decenni, colpevolmente ignorato i tanti spunti storici e le figure eroiche del nostro paese, finendo per essere completamente colonizzato dalle produzioni perlopiù angloamericane. Eventi come l’Impresa di Premuda, nonostante si trattasse di un’azione bellica compiuta nella Grande Guerra, erano probabilmente ritenuti in grado di evocare nostalgie per il Ventennio fascista che, al contrario, andava cancellato dalla memoria collettiva. In effetti, per anni, concetti come “eroismo” e “amor di Patria”, furono praticamente banditi dall’opinione comune, ritornando in parte, se non di moda, comunque presenti nel linguaggio comune, solo in tempi relativamente recenti. Fumo nero all’orizzonte è una tipica docu-fiction che assembla immagini di repertorio, ricostruzioni filmate e interviste ai famigliari dei protagonisti, riuscendo a fornire un quadro completo degli avvenimenti. In questo caso, il piatto forte dell’opera è costituito dalle scene dell’affondamento della corazzata Santo Stefano, ripresa dagli stessi austriaci da un’altra nave da guerra, la Tegetthoff: l’ammiraglio Miklòs Horthy aveva previsto una vittoria per l’Impero Austro-Ungarico e si era premunito di immortalarla con tutti gli onori. La missione della Imperial-Regia Marina da Guerra Austro-Ungarica era quello di forzare il blocco degli Alleati sul canale di Otranto e decidere le sorti della guerra nel Mediterraneo. Un cambio di passo nel conflitto che meritava una registrazione cinematografica e così gli operatori e le macchine da presa vennero imbarcati sulla Tegetthoff: quello che poi filmeranno sarà uno dei più spettacolari affondamenti di una nave da guerra della Storia, ma, contrariamente alle previsioni, subito dalla loro stessa flotta. Il responsabile di tutto ciò fu Luigi Rizzo, in procinto di rientrare in Italia dopo una missione con i MAS nel Mar Adriatico, vide quel fumo nero all’orizzonte utilizzato poi come titolo per questo docu-drama. Il fumo era quello delle corazzate austriache e Rizzo, anziché darsela a gambe, si gettò a capofitto contro la flotta nemica: del resto il suo MAS – Motoscafo Armato Silurante – doveva accorciare la distanza se voleva avere qualche chance di danneggiare un colosso d’acciaio come la Santo Stefano. L’audacia di Rizzo colse probabilmente di sorpresa gli austriaci che non fecero in tempo a reagire in alcun modo: il motoscafo italiano si avvicinò alla nave da guerra austriaca, lanciò i suoi missili e si allontanò a tutta birra, inseguito vanamente da una delle navi d’appoggio nemiche. Dalle interviste della figlia Guglielmina, dei nipoti Francesco e Giorgio, possiamo scoprire particolari inediti della vita di Luigi Rizzo ma anche alcune nozioni tecniche fondamentali per chiare alcuni dettagli della vicenda. Francesco è Capitano di Vascello e Giorgio Ingegnere Navale e parlano quindi con cognizione di causa. Più intimo l’approccio di Valerie Herrenstein, figlia di Franz Dueller, uno dei marinai sopravvissuti della Santo Stefano. La donna, ormai anziana, scopre che il padre si comportò da vero eroe, durante le fasi dell’affondamento, meritandosi la decorazione al valor militare che gli venne in seguito conferita. Quest’attenzione alla controparte, con una celebrazione dell’eroe italiano, Rizzo, bilanciata dalla rievocazione del valore di Dueller, evita che il film possa in qualche modo essere strumentalizzato a fini pseudo-propagandistici. Ben fatto. 




mercoledì 29 ottobre 2025

REGENERATION aka BEHIND THE LINES

1752_REGENERATION aka BEHIND THE LINES , Regno Unito, Canada 1997. Regia di Gillies MacKinnon 

Tratto dal romanzo omonimo di Pat Barker, Regeneration di Gillies MacKinnon è un film ambientato nell’ospedale di guerra di Craiglockhart, a Edimburgo, in Scozia, quando in Europa infiammava ancora la Prima Guerra Mondiale. Tra i protagonisti della vicenda spicca la figura di Sigfried Sassoon (James Wilby), personaggio storico (come altri nel film) piuttosto controverso. Comandante di compagnia benvoluto dai suoi uomini, fu decorato per il valore dimostrato in battaglia; un valore che spesso sconfinava nella sfrenata audacia tanto da meritagli il soprannome di Mad Jack (Jack il pazzo). Pur cavandosela bene anche con la penna, ottenne la notorietà in questo campo non tanto con le sue poesie quanto con la spiazzante Dichiarazione di un soldato. Lui, un decorato di guerra, dopo aver gettato la sua croce al valor militare nel fiume Mersey, scriveva alla stampa e al Parlamento di Londra un proclama contro quella che definiva una guerra che, da guerra in difesa della libertà, si era rivelata però essere una guerra di aggressione e sopraffazione. Gli inglesi, già alle prese coi loro problemi nel merito, non si potevano certo permettere una diserzione di tale portata, da parte di un eroe decorato, e quindi dichiarano Sasson inabile alla leva e lo mandano in cura affinché si ravveda. Certo, Sassoon non vuole fare il disfattista e quindi, al capitano Rivers (Jonathan Pryce), il medico che se ne occupa, dichiara che non è contrario a tutte le guerre ma solo a quelle dove gli interessi politico economici la facciano da padrone. Da parte sua Rivers è un soldato e un medico onesto; altri dottori dell’esercito arrivano praticamente a torturare i militari che professano un qualche problema psicologico, allo scopo di farli guarire o desistere (a seconda dei casi e delle opinioni) dal mantenere tali disturbi. Tuttavia la coscienza di Rivers sarà messa a dura prova, tra la cura di Sassoon e quella degli altri pazienti: eppure, nonostante le prime incertezze che si palesano nel suo medico curante, alla fine, Sassoon si convince a guarire e decide di tornare a combattere. Una scelta, a suo modo, di comodo, perché in realtà c’era poco da ravvedersi: Mad Jack aveva semplicemente aperto gli occhi. La propaganda bellica aveva (e clamorosamente continua ancora oggi) raccontato della Prima Guerra Mondiale come un conflitto tra chi difendeva la libertà e chi propugnava il militarismo; tale propaganda fu particolarmente efficace, vuoi perché la miglior qualità anglosassone è esattamente quella di diffondere convintamente il proprio credo, ma anche perché, perlomeno per quel che riguardava la raffigurazione del nemico, era una propaganda che forse era assecondata anche dagli stessi tedeschi. Molti, tra i sudditi dell’imperatore Guglielmo II, probabilmente, si riconoscevano nella definizione marziale, austera e severa con cui venivano descritti al di qua del fronte occidentale: certo, c’era del disprezzo ma anche tanta paura. 

E niente di più facile che fosse proprio quest’ultima deriva a solleticare la vanità teutonica di un popolo che in parte si crogiolava nella propria natura forte e dominante. In realtà, molto più prosaicamente, quello del 1914-18 era un conflitto che verteva sulla disputa di interessi economici in ambito internazionale in un panorama che andava già da tempo globalizzandosi. Ma, fosse anche stata vera la storia della difesa della libertà, questa si stava fondando su una radice fortemente contradditoria. Un equivoco (in malafede) che ancora oggi di tanto in tanto riporta alla luce l’ipocrisia insita nella sbandierata libertà di cui ci vantiamo di vivere nel mondo occidentale: a tanti, troppi soldati che furono mandati a combattere in prima linea per costruire il cosiddetto mondo libero del XX secolo (e oltre) non fu concessa alcuna libertà se non quella di andare a farsi deliberatamente massacrare contro le mitragliatrici nemiche in sterili azioni prive di senso. Una presunzione di libertà che si fonda su una privazione della più elementare delle libertà, quella della sopravvivenza, di chi ne pagò lo scotto. Oggi, in condizioni normali, il problema non si pone: ma provate a pensare quanti di noi, cittadini del mondo libero occidentale, sarebbero disposti ad andare incontro a danni personali, o addirittura alla morte, se la libertà collettiva fosse minacciata da una guerra, da un’epidemia, da un’invasione aliena o da quello che volete voi? Quanti, metterebbero a repentaglio la propria salute, la propria vita, se non obbligati? E allora ecco che la nostra libertà rivela il suo lato oscuro: si fonda su una privazione di libertà. Storicamente, nelle vite dei soldati mandati deliberatamente incontro a morte certa (non solo nelle estenuanti battaglie della Prima Guerra Mondiale ma, per fare un altro esempio secco e lampante, si possono prendere i primi che sbarcarono in Normandia nella seconda). E, Storia a parte, nella nostra quotidianità questo torna ad accadere appena capita una situazione simile a quelle citate. Giusto appena, eh. 



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lunedì 27 ottobre 2025

AFRICA NUDA, AFRICA VIOLENTA

1751_AFRICA NUDA, AFRICA VIOLENTA , Italia 1974. Regia di Mario Gervasi 

Figura a suo modo misteriosa, Mario Gervasi, autore polivalente di Africa nuda, Africa violenta, era, secondo il quotidiano Stampa sera, “un italiano che ha una ventennale esperienza africana, e del Continente Nero conosce tutti i misteri e le infinite particolarità”. [in prima, Stampa sera, anno 106, n. 96, venerdì 26 aprile 1974, pagina 11]. Il suo apporto al cinema si esaurisce con questa sua opera di cui, per altro, fu ideatore, realizzatore, direttore della fotografia e regista, aiutato in ambito «artistico» da Guido Guerrasio, al tempo fresco della collaborazione con i gemelli Castiglioni. Stando al citato articolo, il contributo di Guerrasio si focalizzò su montaggio e commento, sebbene la moglie ne minimizzi l’apporto. “Dopo (Magia nuda, NdA) ne ha montato solo un altro che si chiamava… ma adesso non mi ricordo più il vero nome che gli avevano dato con un’altra società”. L’intervistatore arriva in soccorso alla memoria della signora Guerrasio: “Africa nuda, Africa violenta di Mario Gervasi dove è accreditato come collaboratore?” e la donna chiude laconicamente la questione: “Si, ma aveva guardato solo qualche cosa perché era stufo di fare quei film”. [Conversazione con Mimi Ferrari. Da Fabrizio Fogliato e Fabio Francione, Jacopetti Files, Milano-Udine, Mimesis Cinema, 2016, pagina 206]. In realtà, Guerrasio, sembra mettere direttamente la firma al commento in un passaggio ironico in cui cita due suoi precedenti lavori con i Castiglioni. Le immagini mostrano alcuni indigeni che sfoggiano, sotto i calzoncini, biancheria intima all’occidentale: “L’Africa non è più tanto segreta e ama in mutande” recita il commento, citando Africa segreta (1969) e Africa ama (1971). La ‘voce over’ chiosa quindi con una riflessione filosofica: “Al posto dell’antica e schietta sincerità, subentra la malizia che è figlia del pudore e madre dell’ipocrisia”.   
Il maestro A. F. Lavagnino si occupò delle musiche, perlopiù riprese direttamente dai canti tribali africani che, insieme alla fotografia un po’ smunta della TeleColor, conferiscono a Africa nuda, Africa violenta, l’aspetto naif di un filmino amatoriale. Forse, per compensare questa impressione, derivante probabilmente dal formato originale della pellicola, Gervasi inserisì una robusta traccia narrativa che sorregge tutta quanta l’operazione. Le protagoniste sono due donne, e da un Mondo movie era quasi naturale aspettarselo: Maludì, interpretata da Marilou Ahité, una ragazza africana, e Chantal, nel cui ruolo troviamo Herta Malag, giovane europea. La vicenda è ambientata nell’Africa occidentale, tra Togo, Dahomey, Costa D’avorio, Camerun: Maludì è convinta di essere vittima di una sorta di maledizione inflittagli da una Féticheur, uno stregone animista, e parte per un viaggio all’interno del continente per cercare di liberarsene. Oltre alla generica voce narrante, tipica dei Mondo movie, c’è qui quella di Chantal che si occupa di rivelare i dettagli delle esperienze vissute dalle due giovani a contatto di una serie interminabile di riti religiosi particolarmente violenti e sanguinari. 

I pensieri intimi e le tentazioni saffiche di Chantal, con protagonista Malidù, riescono, tutto sommato, ad alleggerire la pesantezza dei rituali, in qualche frangente persino ossessivi, La ragazza africana era nata in un villaggio e, in seguito, si era diplomata segretaria d’azienda e, almeno apparentemente, viveva inserita nel mondo «civilizzato»; tuttavia, anche da un punto di vista religioso, la sua adesione al cattolicesimo non era riuscita a eliminarne completamente la matrice animista. La sua figura è probabilmente il simbolo dell’Africa, in bilico tra la modernità e le proprie antiche tradizioni, almeno quanto il fascino che emanava su Chantal era quello che il mondo civilizzato, in quegli anni Settanta, avvertiva per il Continente Nero, nel quale poteva vedere, forse per l’ultima volta, la sua antica origine. Il film di Gervasi prova a ricostruire, attraverso filmati amatoriali, comunque ben realizzati, e una trama onestamente un po’ stentata, questo quadro, e tutto sommato qualche cosa riesce a combinare. Scettica, come prevedibile, la critica del tempo: “All’origine del film è un discorso ormai abituale. Nell’Africa nera i riti ancestrali convivono con la nuova fede cristiana, le usanze tribali si scontrano con la mentalità del XX secolo. In genere vittime di questi dissidi sono le donne, tuttora condannate a un posto secondario nella società patriarcale e assoggettate a una dura fatica in famiglia e sul lavoro. Nel Dahomey, nel Togo, nella Costa d’Avorio, vediamo seviziare le vergini innocenti, vediamo punire le sacerdotesse che hanno infranto il tabù della castità, vediamo soprattutto un numero incredibile di iniziazioni sanguinose con adolescenti dell’uno o dell’altro sesso. Nei cento minuti di proiezione i «flash» inattesi e spietati non si contano. Manca però in Gervasi la coscienza vera dell’etnologo. Spesso le cerimonie e i loro sadici particolari vengono evidentemente protratti per la morbosa curiosità della cinepresa”. [p. p., Sexy dall’Africa, La Stampa, anno 108, n.99, martedì 7 maggio 1974, pagina 7]. Pur se con la consueta severità, il commento sembra centrato sulle effettive caratteristiche del film. Come del resto anche quest’altro: “Per certi nostri cineasti, l’Africa resta nuda e violenta, anche se, da molti segni, risulta che in quel continente stanno avvenendo molte altre cose. Qui si immagina di seguire le mosse di una ragazza africana che, in compagnia di una coetanea bianca, vaga per il proprio paese alla ricerca della verità circa una oscura profezia lanciatale nel villaggio natio. Riti e sacrifici, danze e iniziazioni, occupano quasi l’intero metraggio della colorata pellicola; ma nonostante le spiegazione della voce «fuoricampo» il vero significato di quanto ci viene mostrato rimane abbastanza in ombra. La parte narrativa del film, vagamente ispirata a concezioni animistiche, non lega infatti con quella documentaria, che forse può essere salvata qua e là come illustrazione di costumi in via di trasformazione. Tuttavia lo scopo ultimo del regista Mario Gervasi (ha collaborato con lui Guido Guerrasio) sembra essere quello di mostrare con insistenza seni e glutei tra sangue e sporcizia”. [Le prime, Africa nuda, Africa violenta, L’Unità, sabato 18 maggio 1974, pagina 9].
Nel complesso, un’operazione non del tutto riuscita che non «pagò» nemmeno al botteghino. Da segnalare, oltre allo splendido manifesto realizzato dal maestro Sandro Symeoni Simeoni, i flani che, sui quotidiani, promettevano sfracelli: «Quello che non avete mai visto – quello che non vedrete più: Mamie Water mangia i cuori vivi. Implorazioni al dio fallo. Gli amori proibiti delle vergini sacre. La danza del sangue. La maledizione del Gri-Gri. Sacrifici e riti pagani in città e foreste. Il fallo che punisce la vergine infedele. Non è uno slogan pubblicitario! Severamente vietato ai minori di anni 18. Si avverte il pubblico che il film contiene scene di agghiacciante crudezza e alta sensualità, se ne sconsiglia pertanto la visione alle persone emozionabili».
Che dire, quasi più eccitante del film stesso. 



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sabato 25 ottobre 2025

NUOVA GUINEA - L'ISOLA DEI CANNIBALI

1750_NUOVA GUINEA - L'ISOLA DEI CANNIBALI , Italia 1974. Regia di Akira Ide

Misteriosa produzione italo-nipponica, Nuova Guinea, l’isola dei cannibali, si può considerare, a tutti gli effetti, un Mondo movie della corrente del Belpaese. Forse, l’idea di coinvolgere un troupe giapponese, che stando alle scarse notizie reperibili si addentrò nella giungla della Nuova Guinea insieme ad una italiana <https//:www.allcinema.net/cinema/9238 visitata l’ultima volta il 15 aprile 2024>, servì per contenere i costi. Il Giappone era geograficamente più vicino all’obiettivo, e, quindi, la trasferta era di conseguenza più economica; in secondo luogo il film avrebbe avuto un’agevolazione a porsi sul mercato nel paese del sol levante, che era un interessante approdo. O, più probabilmente, l’intervento italiano avvenne successivamente, dal momento che, leggendo nei credits, apprendiamo come tutte le attività ‘sul ‘campo’ furono affidate ad operatori nipponici –a parte Giancarlo Graziano che collaborò alla fotografia– mentre il grosso del contributo dei nostri connazionali si limitò ad interventi successivi. Un esempio in tal ottica è quel che riguarda la traccia audio: il testo di Annibale Roccasecca è letto da Sergio Fiorentini, le musiche di Corrado Demofonti, sono impreziosite dalla canzone Why – musica di Riz Ortolani, parole di Norman Newell, cantata da Jack Henderson. Interventi che potrebbero esser stati realizzati a pellicola già montata. L’impressione generale è quella di un classico Mondo movie; per la verità, Nuova Guinea, l’isola dei cannibali è uno dei più duri, per lo stomaco dello spettatore. La partenza è subito terribile: durante un rito funebre, una donna si ciba dei vermi che si sono formati nel cranio in putrefazione del marito; la voce pastosa di Fiorentini, che nel corso del film scivolerà qualche volta in un ironico paternalismo, ci informa che è una dimostrazione d’amore che non ha eguali nel mondo civilizzato. 

Restando nello stesso ambito, i ‘funerali al vento’ sono altresì tremendi: i corpi vengono lasciati all’aria aperta e le parenti del defunto si cospargono il corpo con le secrezioni del cadavere, e il commento ci informa come il tanfo, nelle loro vicinanze, sia insopportabile. Il riferimento nel titolo ai cannibali è, ovviamente, il piatto forte –si perdoni il gioco di parole– e, nonostante la pratica sia bandita dalla legge, l’esocannibalismo, ovvero cibarsi dei nemici uccisi, era negli anni Settanta ancora una tentazione costante per le popolazioni indigene. Naturalmente non si contano i riti dolorosi e sanguinolenti, così come la violenza inflitta agli animali, ma la popolazione della Nuova Guinea aveva anche una spiccata vocazione figurativa con acconciature appariscenti e di grande impatto scenico. Piume, penne, ossa, accostamenti di colori sgargianti, in Nuova Guinea, l’isola dei cannibali c’è spazio anche per il folclore meno truculento. In assoluto, il passaggio più evocativo è comunque inquietante, sebbene di natura meno estrema, ed è legato ai Asaro, gli uomini di fango, e alla loro silenziosa e sinistra danza. In linea con i cliché dei Mondo un buono spazio viene dedicato all’omosessualità, giustificata, secondo il commento di Roccasecca, dalla cronica mancanza di donne sull’isola. In proposito, Fiorentini racconta –ma la credibilità rimane quella del genere, quindi prossima allo zero– di un caso di un villaggio, in cui, per 96 uomini, ci fossero solo due donne. In effetti si tratta di una curiosa motivazione, peraltro non priva di logica matematica, per spiegare le differenze di gusti in campo sessuale. La voce over, si dovrebbe averlo ormai capito, cerca di alleggerire la visione, come detto piuttosto dura da sostenere, con un’ironia che, forse anche legittimamente, spesso può infastidire, venendo fatta alle spalle di popoli che, ovviamente, vanno rispettati come tutti gli altri. In realtà il testo può essere tacciato di superficialità, più che di reale mancanza di rispetto, ma i Mondo movie non brillarono mai per essere politicamente corretti, questo va riconosciuto.
Ma è appunto questo il motivo per cui, dopo mezzo secolo, sono ancora comunque interessanti.    






           

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giovedì 23 ottobre 2025

LA SFIDA DEI FUORILEGGE

1749_LA SFIDA DEI FUORILEGGE (Hell Canyon Outlaws), Stati Uniti 1957. Regia di Paul Landres

In apparenza, La sfida dei fuorilegge è un filmetto western piuttosto scontato per quanto realizzato con onesto mestiere. E potremmo anche chiudere qui l’analisi, dal momento che Paul Landres non è un regista che rimarrà nella storia del cinema come del resto il suo film, nonostante vi abbiano collaborato tecnici esperti come Floyd Crosby, sua la fotografia in bianco e nero, e il montatore Elmo Williams in sala taglio. E, in effetti, il risultato è che La sfida dei fuorilegge è un film che si lascia guardare e che, ora della fine, rivela almeno un aspetto che merita attenzione. Prima di questo elemento, però, c’è da riconoscere che la storia è piuttosto risaputa: a Golden Ridge, lo sceriffo Caleb Wells (Dale Robertson), grazie alla sua colt, ha fatto pulizia di tutti i fuorilegge che infestavano il paese. Ma ora, il consiglio cittadino, vorrebbe disfarsi di Caleb per avere maggior libertà di manovre, e la scusa trovata è quello che lo sceriffo ha sì pacificato il paese, ma lo ha fatto grazie all’uso della pistola, con la violenza. Lo sceriffo viene quindi sollevato dal suo incarico: mai scelta fu più avventata. La sfida dei fuorilegge è un B-Movie dal budget, anche di tempo, risicato e Landers e i suoi collaboratori non hanno pellicola né giorni di riprese da sprecare: ecco quindi che Happy Waters (Brian Keith) e i suoi sgherri piombano subito in città con il chiaro intento di piantar grane. I maggiorenti di Gold Ridge, tutti omuncoli o mezze tacche, non fanno neanche tempo a pentirsi di aver liquidato Wells, che già si trovano nei pasticci. A cominciare dal volenteroso Bert (Alexander Lockwood) che si è preso la briga di assumere la carica di nuovo sceriffo: purtroppo i suoi raffinati metodi diplomatici non hanno alcuna valenza con gentaglia come Waters e i suoi. La violenza, in America, abbiamo imparato essere necessaria per sconfiggere la violenza: paradossale, certo, ma tant’è. Come visto il soggetto non è particolarmente originale ma è tuttavia interessante come Landers utilizzi il cast per stilizzare il suo racconto, dandogli maggior forza espressiva. 

Dale Robertson, il protagonista, era un attore professionale ma non troppo espressivo. La sua figura impettita è congeniale a quella del cavaliere senza macchia e senza paura, giusto e retto esattamente come la postura che mantiene per tutto il film. A suo fianco, da un lato il più pacioso vicesceriffo Bear (Charles Fredericks) e dall’altro la bella e platinata Maria (l’italiana Rossana Rory ai tempi del suo tentativo di aver successo ad Hollywood). In quest’ottica, l’aspetto più interessante del film è la maggior attenzione che viene data per la scelta degli interpreti per la banda di fuorilegge a cui si riferisce il titolo. Sono in quattro, due vestono interamente di nero, uno di nero ha solo il cappello mentre il quarto veste molto scuro e ha il cappello chiaro: più o meno viene rispettato il cliché vestiario dei cattivi. Ma ad impressionare è la loro imponenza: Stan (Buddy Baer), Nels (Mike Lane) e Walt (Don Megowan) superano tutti il metro e novanta che, in un film del 1957, li rende davvero giganteschi. Il capoccia, Happy Waters, al loro confronto, sembra un ragazzino: e dire che Brian Keith, che lo interpreta, era comunque alto un metro e ottantacinque. Queste singolari scelte evidenziano alcuni aspetti poi confermati dalla scarna trama: i cattivi sono semplicemente dei bulli, prepotenti senza arte né parte che approfittano del loro essere grandi e forti per fare i propri porci comodi. Il più interessante è, naturalmente, il personaggio di Keith: come detto, al cospetto dei suoi scagnozzi sembra un ragazzino, un banale teppista, e anche questo è un elemento che caratterizza in sottrazione la figura del cattivo. Non ci sono, in sostanza, ragioni psicologiche, sociologiche o altre raffinatezze per motivare la violenza: bastano superficialità, noncuranza e indolenza. Il capobanda, peraltro, dimostra più volte di conoscere il valore morale delle sue azioni: vuole pagare il conto all’emporio, cerca di non uccidere il giovane e sciocco Smiley (Dick Kallman), propone una soluzione leale per il duello finale con Caleb. Il villain Happy Waters, interpretato in modo efficace da Brian Keith è, in sostanza, un preciso ritratto del personaggio cattivo, senza retoriche sociologiche. Stilizzato, certo, ma, proprio per la bravura dell’attore e l’attenzione degli autori, assai funzionale a descrivere come essere malvagi non è tanto un’indole ma una scelta, deliberata e libera.   



Rossana Rory 



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martedì 21 ottobre 2025

NOTTE DI BIVACCO

1748_NOTTE DI BIVACCO (Cheyenne), Stati Uniti 1947. Regia di Raoul Walsh 

Negli anni Quaranta Raoul Walsh aveva la mano caldissima e, in quel 1947, aveva già messo a referto l’interessantissimo Io amo [The Man I Love], noir con una sontuosa Ida Lupino, e il capolavoro Notte senza fine [Pursued], un tenebroso western con Robert Mitchum. Comunque, siccome era un regista svelto, prima della fine dell’anno riuscì a realizzare un altro western romantico, Notte di bivacco, opera certamente minore ma comunque interessante. Il film è un tipico esemplare della corrente del genere western di quel decennio e la storia sentimentale non solo è al centro del racconto ma le beghe di cuore sono in realtà finemente intessute con la trama. E i personaggi in gioco non sono solo i due protagonisti della love story, il gambler James Wylie (Dennis Morgan, non troppo a suo agio) e l’ambigua ma elegantissima Ann Kincaid (Jane Wyman, meno convincente di altre volte) ma hanno un ruolo anche la ballerina e cantante da saloon Emily Carson (Janis Paige) e il villain della vicenda, Ed Landers (Bruce Bennett), ovvero il «Poeta». Questi è un astuto rapinatore di diligenze che riesce misteriosamente a far sparire il contenuto delle cassette di valori in viaggio, lasciando una poesia come ricordo in luogo del bottino. Wylie, come detto, è un gambler, e non si sognerebbe certo di giocare a guardia e ladri ma, con un pretesto non troppo elaborato, viene costretto a dare la caccia al Poeta per poter vedersi scagionare da ogni pendenza con la Legge. Come si vede, uno dei tipici cliché dei Western Romantici è rispettato: il protagonista è un fuorilegge, seppur non sia certo un ammazzasette. La forte presenza femminile è naturalmente un’altra delle caratteristiche dei Western degli anni Quaranta e qui abbiamo Jane Wyman, un’attrice importante di Hollywood, e Janis Paige, interprete con non riuscì mai realmente ad imporsi ma, proprio in Notte di bivacco, si mette particolarmente in mostra. 

In parte questo è dovuto al fatto che la Wyman, certamente star di altro rango, non sembrava particolarmente a suo agio nei western, benché avesse già interpretato I tre moschettieri del Missouri [Bad Men of Missouri, Ray Enright, 1941] proprio insieme a Dennis Morgan, lo stesso coprotagonista di Notte di bivacco. Eppure non si nota alcuna scintilla particolare o quantomeno un’intesa significativa, tra i due nel film di Walsh, tanto che questo rimane uno degli elementi che ne tarpa le ali. Nel Western Romantico la figura femminile era determinante per il successo del film, sebbene poi lo sviluppo dell’eroe fosse legato al protagonista maschile, e su questi aspetti Notte di bivacco non riesce a cogliere pienamente nel segno. Come accennato, la vicenda narrata verte su una serie di rapine alle diligenze in cui entra in gioco anche il bandito Jim Younger (Arthur Kennedy) ma senza dare particolarmente senso alla storia. Arthur Kennedy era un ottimo cattivo dei western ma, in questo caso, patisce che la sua banda sia tenuta in scacco da figure non troppo convincenti come lo stesso protagonista e il Poeta, un villain decisamente scialbo. Tuttavia, nonostante i tanti limiti, Notte di bivacco non è un brutto film, perché Walsh in regia riusciva a trainare qualsiasi racconto con un piglio narrativo accattivante. La confezione formale dell’opera è comunque del livello che garantiva la Hollywood dell’epoca, sebbene qualche dettaglio desti qualche perplessità: ad esempio, ad ogni apparizione della diligenza si riaccendono le note musicali del commento di Max Steiner in modo talmente enfatico da sembrare un registro narrativo comico. Tuttavia è proprio la musica a garantire i momenti migliori del film. Da buon Western Romantico, Notte di bivacco si concede, infatti, un paio di godibili passaggi musicali, nei quali Janis Paige sciorina un physique du rôle invidiabile. Memorabile la sua interpretazione di Going to Old Cheyenne [Musica di Max Steiner, testo di Ted Koehler], una canzone molto bella, a cui Walsh dedica tutta l’attenzione dovuta al momento clou dell’opera. Può bastare per salvare il film? Ringraziando Raoul Walsh per la solida mano in regia e canticchiando Going to Old Cheyenne, e pensando alle gambe della Paige, si può dire di sì. 





Janis Paige



 Jane Wyman 


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domenica 19 ottobre 2025

LA CASA DEI FANTASMI

1747_LA CASA DEI FANTASMI (House on Haunted Hill), Stati Uniti 1959. Regia di William Castle

Spesso l’horror di culto La casa dei fantasmi di William Castle viene definito in modo quanto mai efficace con il termine «Camp». Che, letteralmente, significa “qualcosa di ostentato, esagerato, teatrale, autoironico e sofisticato” per attenerci alle parole che ne dà l’AI di Google. In sostanza una descrizione di quello che era il cinema, almeno quello horror, per William Castle, cineasta che non esitava a sciorinare qualunque espediente, qualunque colpo basso, pur di raggiungere il suo scopo. Per La casa dei fantasmi Castle ideò uno dei suoi più celebri trucchi promozionali: Emergo. Si trattava di uno scheletro –finto, naturalmente– che con un sistema di cavi e carrucole veniva issato e fatto passare sopra gli spettatori durante le proiezioni del film, in corrispondenza della scena in cui uno scheletro usciva da una vasca di acido. Castle credeva molto in questi espedienti e per il coevo Il mostro di sangue, inventò Percepto, un’altra diavoleria simile, a suo modo altrettanto efficace. Perché, per quanto possa sembrare strano, questo approccio ruspante e privo di ogni pudore artistico, funzionava alla grande, al punto che persino Hitchcock, per il suo celebre Psyco, ne trasse ispirazione per fare una promozione pubblicitaria inconsueta. La differenza, a voler essere onesti, era poi sul film vero e proprio, perché il maestro inglese si adoperò per realizzare un capolavoro anche sotto il profilo prettamente artistico e autoriale mentre Castle, coerente con la sua poetica, infarciva le sue opere di stratagemmi narrativi triti e ritriti, utilizzandoli oltretutto con piglio strumentale ma facendo tutto quanto in modo intelligente. La casa dei fantasmi, infatti, non presenta alcuna novità e il citato Emergo era appunto quel qualcosa di cui si sarebbe potuta avvertire la mancanza all’epoca. Lo spettatore a cui avessero chiesto com’era il film di Castle, cosa poteva infatti riferire? Una tipica storia dell’orrore, su una casa in cui si manifestano presenze inquietanti, fatta con solido mestiere ma senza alcuna scena davvero memorabile nel senso di realmente innovativa. 

A questo serviva l’apparizione dello scheletro di Emergo, che rendeva il film un evento imperdibile. Col passare degli anni, il citato sfacciato gusto «Camp» ha sostituito la funzione dello scheletro sopra le teste degli spettatori ed è divenuto il valore aggiunto che rende La casa dei fantasmi un film di culto dalla visione davvero godibile. La pellicola, come detto, è coerente con la politica promozionale e si basa su una storia non troppo originale, un gruppo di persone chiuse dentro una casa infestata –la casa dei fantasmi, appunto– con un qualunque pretesto e una serie di eventi spaventosi conditi da due omicidi a spaventare personaggi e pubblico. Tra gli attori, a far da mattatore c’è Vincent Price, sornione e autocompiaciuto come non mai, che interpreta Frederick Loren, il facoltoso signore che organizza il singolare party al centro del racconto. La festa è in onore della sua bellissima moglie, Annabelle (Carol Ohmart), e prevede che insieme ai Loren ci siano cinque sconosciuti, due donne e tre uomini, per passare l’intera notte in una casa infestata. Chi resisterà fino al mattino avrà in premio 10.000 dollari; la mezzanotte è il limite massimo entro il quale si può ritirarsi dalla competizione e abbandonare la dimora e i verdoni annessi. Appare già evidente che, come situazione, non sia del tutto plausibile e, in effetti, la cosa è anche manifestata in alcuni dialoghi. Tuttavia La casa dei fantasmi non insegue certo la verosimiglianza per cui non è certo difficile soprassedere su qualche perplessità che possa insorgere. Vincent Price, con il suo egocentrico carisma, domina in modo naturale le scene mentre Carol Ohmart ha il physique du rôle ma le manca un pizzico di quell’allure tipico delle gran dive per reggere davvero bene la parte. Tra gli altri, bene Elisha Cook nel ruolo di Watson Pritchard, il nevrotico e pauroso padrone di casa che ha perso il fratello dentro quelle mure domestiche e crede che siano davvero maledette. La sorella di Robert Mitchum, Julie, è Ruth Bridgers e si intuisce come, se avesse avuto una presenza scenica soltanto un filo di maggiore impatto, avrebbe avuto ben altra carriera. Più ordinari Alan Marshal (è il dottor Trent), Carolyn Craig (è Nora Manning) e Richard Long (è Lance Schroeder). Il racconto si snoda mettendo in fila i colpi di scena e i classici trucchi del mestiere sorretti adeguatamente da una musica perfettamente a tempo che i momenti clou: niente di più di quanto possa essere prevedibile in un horror su una casa infestata, ma anche niente di meno. 













Carol Ohmart



Julie Mitchum


Carolyn Craig 


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