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domenica 14 dicembre 2025

IL COMMISSARIO DE VINCENZI - IL CANDELABRO A SETTE FIAMME

1768_IL CANDELABRO A SETTE FIAMME , Italia 1974. Regia di Mario Ferrero

Il primo episodio della serie Il commissario De Vincenzi lascia lo spettatore disorientato sin dallo spiazzante incipit e ce lo lascia a più riprese. Lo sceneggiato comincia in modo anonimo, senza titolo o sovraimpressioni: c’è un signore, nel buio di una strada, una scena inquietante. E a ragione: l’uomo, che ha con sé una curiosa valigia asimmetrica, verrà ucciso da alcuni sinistri individui. A quel punto, irrompe una musica d’altri tempi a tutto volume e compare la scritta «Luce», riferimento al celebre Istituto Luce. A meno di non essersi preventivamente informati sulla natura dello sceneggiato, si potrebbe pensare già a qualche refuso. Poi, la sigla attacca, il bel motivo musicale di Bruno Nicolai in stile anni 30 è abbinato ad immagini dell’epoca e il tutto assume un’aria più coerente. Ma per poco: perché la musichetta allegra cambia leggermente tono e compaiono fotogrammi di repertorio del duce e del fascismo. Quindi è il turno di alcune simpatiche donnine con relativa soave melodia e, a seguire, un’altra virata stavolta più cupa accompagnata da Hitler e dalle parate naziste. Un vero frullatore che lascia basito uno spettatore dei giorni nostri figuriamoci uno di metà anni Settanta, ma non è ancora finita. Ecco che ricompare di nuovo la scritta «Luce» e, perlomeno, la scritta «Milano 1933» ci dà qualche minima informazione. A questo punto dovrebbe cominciare il film vero e proprio; invece no: assistiamo alla divertente scena finale di Due cuori felici [Due cuori felici, Baldassarre Negroni, 1932], sebbene lì per lì non è che sia una cosa immediata da comprendere. Poi, sullo schermo, arrivano Paolo Stoppa e Gina Sammarco (è Antonietta, la sua governante) che discutono del film appena visto, con la donna che non è affatto convinta della novità rappresentata dai film sonori, abituata com’è al cinema muto. Finalmente ci siamo: il racconto filmico è cominciato ma, come è a questo punto facile intuire, non sarà un racconto semplice da seguire. De Vincenzi, il personaggio interpretato da Stoppa, è un commissario di Polizia e si trova coinvolto in un omicidio che è parte di un gioco spionistico internazionale che introduce nientemeno la Questione Palestine, faccenda intricata ora figuriamoci negli anni 70 e peggio ancora negli anni 30. A testimonianza che la trama sia effettivamente difficile da decifrare nei suoi tanti anfratti, in coda al racconto il commissario fa una sorta di riassunto e questa è, in genere, una vera e propria ammissione da parte degli autori che il loro lavoro è un po’ criptico. In effetti, da un punto di vista investigativo Il candelabro a sette fiamme non entusiasma, dal momento che l’intrico giallo è poco decifrabile, tuttavia una serie di fattori contribuiscono a strappare una sufficienza piena. In primo luogo Stoppa, che è perfettamente a suo agio nel ruolo; poi la scelta di alcuni attori, davvero congeniali, come Vittorio Sanipoli nei panni del barone Von Wenzel e Walter Bentivegna in quelli di Johan Veheran, alias il Ragno, formidabile acrobata che sfoggia un look degno di un nemico di Batman, davvero notevole. In tema di fascino, nessuno può sognarsi di offuscare quello di Maria Grazia Spina: l’attrice veneziana è Virginia Olcomb, un’agente israeliana d’elegante bellezza anni 70 eppure adeguata al contesto in cui ambientata la vicenda.
Ingegnoso il lavoro di De Angelis alla base, sul quale si adeguano gli autori dello sceneggiato, riuscendo a renderlo fruibile pur tra le troppe divagazioni. La Questione Palestinese che aleggia su tutta quanta la faccenda, aiuta a rendere il film interessante ma più a titolo di curiosità, considerata la complessità dell’argomento.  


venerdì 12 dicembre 2025

SANDOKAN - LA PERLA DI LABUAN

1769_SANDOKAN - LA PERLA DI LABUAN  , Italia, Francia 2025. Regia di Luca Bernabei e Jan Maria Michelin 

Il secondo episodio, diretto ancora da Jan Maria Michelini, è intitolato a Lady Marianna (Alanah Bloor) e mette in effetti al centro del racconto la figlia del console inglese Lord Guillonk (Owen Teale). Alanah Bloor non sembra tuttavia così convincente, come interprete; ma era una critica che, in principio, si poteva fare anche a Carole André, tanto per insistere con il paragone con lo sceneggiato del 1976. Fu solo con l’andar del racconto che l’attrice francese riuscì a rendere magnetica quella che, inizialmente, sembrava una bellezza troppo acerba. Per dire, Milla Sannoner, che nel Sandokan di Sollima era un personaggio comprimario, aveva un appeal più immediato. Quindi, quella di apparire un po’ infantile è evidentemente una caratteristica di Lady Marianna, che trova conferma nel suo non sopportare le scarpe e i vestiti da donna. Intanto, accanto a lei, ne La Perla di Labuan Sandokan tiene costantemente la scena e lo fa in modo assolutamente carismatico, con Can Yaman che gestisce con naturalezza anche le scene meno dinamiche nel ruolo dell’innocuo mercante. Bene anche Alessandro Preziosi, sebbene Yanez sia relegato ferito in prigione e abbia poco spazio di manovra, ma l’attore napoletano ha infine centrato il ruolo. La trama di questo episodio ruota intorno alla festa di compleanno di Lady Marianna e il piano di Sandokan per far evadere i pirati, con un valido bilanciamento tra la traccia romantica e quella avventurosa. Tra la Tigre della Malesia e l’aristocratica ragazza si inserisce l’insidioso James Brooke (Ed Westwick) e la tensione è mantenuta alta su entrambe le piste narrative. Brooke ha guadagnato punti, agli occhi della ragazza ma soprattutto a quelli di suo padre il console, con il colpo di fucile con cui ha freddato la tigre, nel finale del precedente episodio. Il salvatore di Marianna è quindi lui, Brooke, il cacciatore di pirati; ma il suo tempestivo intervento sarebbe stato fatalmente in ritardo se non fosse per quel mercante che, armato del solo coltello, si era scagliato contro la belva, ferendola e proteggendo in modo decisivo la Perla di Labuan. Questo atto di coraggio è un po’ sospetto, per un semplice commerciante di seta: sia Brooke, che il sergente Murray (l’ottimo John Hannah) cominciano a sentire puzza di bruciato. Questa costante attenzione sul protagonista in incognito alimenta la tensione narrativa che sostiene questo episodio. Tra i personaggi che si ritagliano spazio in questa puntata si può ricordare Sani (Madeleine Price), la cameriera indigena di Lady Marianna che si dimostra particolarmente intraprendente. Battibecca più volte con Sandokan, viene umiliata dal Sultano Muda Hashim (Matt McCooey), un vero bifolco, e infine è decisiva nella liberazione di Yanez e dei pirati. La narrativa di Emilio Salgari era un susseguirsi di azione e pregna di sentimento, e qui va fatto un plauso a Marianna/Alanah Bloor, ed è praticamente impossibile annoiarsi. Bernabei e Michelini, con il loro toni sempre un po’ enfatici, ne trovano una loro efficace interpretazione.   

martedì 9 dicembre 2025

SANDOKAN - LA TIGRE DELLA MALESIA

1768_SANDOKAN - LA TIGRE DELLA MALESIA  , Italia, Francia 2025. Regia di Luca Bernabei e Jan Maria Michelin

L’approccio del primo capitolo della nuova miniserie dedicata a Sandokan, il leggendario personaggio creato da Emilio Salgari, rischia di compromettere tutta quanta l’audace operazione ideata da Luca Bernabei e firmata in regia da Jan Maria Michelini –suo l’episodio d’esordio– e Nicola Abbatangelo. Un certo ostracismo, legato all’effetto nostalgia per lo storico sceneggiato di Sergio Sollima, era da mettere in conto, come anche tutti gli inevitabilmente deficitari paragoni con i mostri sacri del Sandokan del 1976. Kabir Bedi, Philippe Leroy, Adolfo Celi, Carole André sono divenute autentiche icone e, d’altronde, non si può evitare il confronto dal momento che il Sandokan del 2025 si rifà apertamente allo serie degli anni Settanta e, quindi, si tratta di uno scotto da pagare. Che, per molti spettatori, dopo solo pochi fotogrammi di visione, non ha possibilità di essere saldato e allora tanti saluti; questo almeno leggendo le valanghe di critiche che hanno innondato i social network. Pare che il Sandokan di Sollima, quasi per una sorta di reazione indotta, abbia avuto un’impennata negli streaming sulla piattaforma RaiPlay, dove è disponibile. Una specie di rigetto degli spettatori disgustati dalla nuova versione che si sono rituffati nell’amato sceneggiato che già ben conoscono e in cui si riconoscono. Peccato. Perché il Sandokan del 2025 non è affatto male. Certo, l’impatto, non è semplice: qualcuno ha scomodato il paragone col fumetto, ma quella di Bernabei visivamente è più una via di mezzo tra una serie televisiva e certe docu-fiction che sfoderano quei passaggi degni di un video turistico promozionale. Panoramiche realizzate con droni, grandangoli con aperture enormi, colori sgargianti, insomma, se vogliamo farci del male e tirare in ballo ancora il Sandokan di Sollima, niente a che vedere con la serietà di quelle riprese che, al contrario, erano degne del cinema vero, quello da grande schermo. Un altro tasto un po’ dolente della nuova versione è l’uso sopra le righe della regia, con l’insistito utilizzo della camera a mano, quasi fossimo in presenza di riprese amatoriali: uno stratagemma da due soldi usato per dare una semplicistica idea di verosimiglianza. In aggiunta a ciò, ai colori sgargianti, alle luci artificiali, alla regia su di tono, c’è la recitazione enfatica degli attori. Sul momento, il risultato può sembrare una specie di videogame o, forse anche un fumetto, verrebbe in effetti da dire. A patto che si intenda un fumetto che abbia conservato quell’aspetto giocoso che aveva un tempo e che, in quello stesso tempo, aveva anche il nostro cinema «di genere», per altro. Il tono enfatizzato, per la verità, per quel che riguarda i protagonisti, è legato soprattutto al personaggio di Yanez con Alessandro Preziosi che, in principio di episodio, sembra davvero troppo sopra le righe. Poi, con l’andare del tempo, un po’ forse ci si abitua, un po’ forse Preziosi aggiusta il tiro. Cosa che succede in parte anche con la regia: lo stucchevole tenore votato all’eccesso che sottolinea i passaggi forti trova poi una sua coerenza e, soprattutto, una discreta funzionalità. Quasi che il meccanismo complessivo abbia necessità di andare a regime, di trovare i giri giusti. Chi fatica assai meno a carburare è Can Yaman nei panni di Sandokan. Kabir Bedi è un’icona leggendaria, d’accordo, ma Yaman non teme certo il confronto fisico e compensa l’aura mistica del predecessore con un lato ironico molto indovinato. Questo velato aspetto umoristico potrebbe essere una delle chiavi vincenti di questo Sandokan. Insomma, mentre ci stiamo adeguando ai discutibili stilemi stilistici della serie, la Tigre della Malesia è già a Labuan, trovato sulla spiaggia e salvato da Lady Marianna (Alanah Bloor), Yanez e i pirati sono stati catturati e la storia ben congeniata da Salgari sta ora facendo il suo lavoro egregiamente. Sandokan del 2025 appassiona, altro che balle. E la scena finale, quella dello scontro con la tigre, ne è il momento clou: funziona infatti molto bene.       


    


IL COMMISSARIO DE VINCENZI

1767_IL COMMISSARIO DE VINCENZI , Italia 1974. Regia di Mario Ferrero

È in genere accettato che la letteratura italiana gialla non abbia radici paragonabili a quelle anglosassoni e, oltretutto, si deve considerare, per comprenderne il ritardo, i divieti imposti dal regime fascista che nel 1941 la mise sostanzialmente al bando. Eppure, proprio durante il Ventennio, ci fu uno dei pionieri del giallo italiano, ovvero quel Augusto De Angelis, prolifico scrittore che, in seguito, sprofondò nel dimenticatoio almeno finché Oreste Del Buono nel 1963 ne curò una ristampa. Undici anni dopo, la televisione di stato completò la riscoperta, mettendo in cantiere una miniserie televisiva affidando la regia a Mario Ferrero, e le sceneggiature ad un pool di autori specializzati in detective stories, Manlio Scarpelli, Bruno Di Geronimo, Paolo Barberio e Nino Palumbo. I romanzi selezionati avevano protagonista il commissario De Vincenzi, portato sullo schermo da Paolo Stoppa, attore dall’atteggiamento dolente ma ostinato che, con la sua naturale umanità, fu il punto di forza degli sceneggiati. La peculiarità del creatore del commissario De Vincenzi, lo scrittore Augusto De Angelis, fu quella di scrivere gialli in un’epoca, il Ventennio fascista, che questo genere proprio non lo digeriva e arrivò addirittura a metterlo al bando, nel 1941. Va da sé che un simile atto di coraggio, sfidare un regime tanto prepotente, è già motivo di merito sufficiente a porgere De Angelis in una posizione di prestigio. La Rai, nella scelta dei titoli per la sua riduzione televisiva, diede la precedenza a Il candelabro a sette fiamme, una storia che parlava della Questione Palestinese più che altro in relazione alla condizione degli ebrei che, al tempo, erano perseguitati. Il romanzo fu pubblicato nel 1936 mentre le famigerate Leggi Razziali fasciste, discriminatorie nei confronti degli ebrei, furono emanate nel 1938. Sembra evidente che queste ignobili leggi non spuntarono fuori dal nulla e quindi la situazione per gli ebrei fosse già fosca a partire dagli anni 30, ma va anche ricordato che la politica di Mussolini non è rimasta nella storia per la coerenza nel tempo. Quello che si può dire con certezza, perché si tratta di fatti storici, è che De Angelis nel 1943 finirà accusato di antifascismo per i suoi articoli sulla Gazzetta del Popolo e il regime impose il sequestro dei suoi romanzi. 


sabato 6 dicembre 2025

I QUATTRO CAVALIERI DELL'APOCALISSE

 1766_I QUATTRO CAVALIERI DELL'APOCALISSE (The Four Horsemen of the Apocalypse), Stati Uniti 1921. Regia di Rex Ingram

Nonostante venga in genere citato per essere stato il film che lanciò Rodolfo Valentino nell’olimpo dorato di Hollywood, I quattro cavalieri dell’Apocalisse è nel suo complesso un’opera di grande rilievo. Nel 1921 fu il film che ottenne il maggiore incasso e ancora oggi gode, per la verità, di un’ottima reputazione. Rex Ingram, il regista, sapeva il fatto suo e in questo racconto dai forti passaggi riesce sempre a tenere la barra dritta. Il testo all’origine è l’omonimo romanzo di Vicente Blasco Ibáñez e, data la trama articolata, era considerato assai poco adatto alla trasposizione sullo schermo. I meriti del successo dell’impresa sono in primis riconducibili alla sceneggiatrice June Mathis che riuscì a cavarne una scrittura di prim’ordine. Visto la qualità dell’autrice, alla Metro Pictures Corporation decisero di ascoltare i suoi suggerimenti sia per la scelta del regista (Ingram, appunto), sia per quella dell’interprete di Julio, per la quale la Mathis indicò inaspettatamente Rodolfo Valentino. Lo studio fece qualche resistenza sul nome di quest’ultimo, all’epoca praticamente uno sconosciuto, ma i fatti diedero ragione alla Mathis visto che Valentino fu l’elemento che trainò il film ad un successo epocale. Celeberrima è la scena del tango, una delle scene cult e senza tempo del cinema, ma tutte quante le apparizioni sullo schermo di Valentino marchiarono a fuoco il pubblico, in particolar modo quello femminile. Va riconosciuto che l’attore italiano aveva una bellezza magnetica che ancora oggi sembra moderna e quindi si può comprendere l’isteria delle fan, tuttavia I quattro cavalieri dell’Apocalisse è anche altro. In effetti, qualche eredità della scarsa natura cinematografica (stando alla fama) del soggetto si può ancora intravvedere, nel numero eccessivo di trame che poi il cinema, e il cinema muto in particolare, ha difficoltà a riannodare completamente. La vicenda racconta di due famiglie, i von Hartrott e i Desnoyers, discendenti da un unico patriarca, il Centauro Madariaga (Pomeroy Cannon). Siamo in Argentina, agli inizi del XX secolo e le sue due figlie si sono maritate rispettivamente con un tedesco e francese. L’ottica del racconto mette già in cattiva luce, una luce militaresca e autoritaria, il ramo tedesco e questa predilezione per la sponda francese è resa esplicita dallo stesso Madariaga che ha eletto il nipote Julio (Valentino, come detto) come favorito, a dispetto dei suoi tre cugini di razza ariana. Alla morte del vecchio le due famiglie si spartiscono l’ingente patrimonio e decidono di far ritorno al paese natale dei capifamiglia, in Europa. A conferma che i favori della storia seguono i transalpini il racconto rimane concentrato sulle questioni di casa Desnoyers, dove il citato Julio se la spassa tra la pittura e le belle donne e non ha alcuna intenzione di arruolarsi per servire la Francia allorché scoppia la Prima Guerra Mondiale

Non contento di dare queste delusioni al padre Marcelo Desnoyers (Joseph Swickard), patriota francese, Julio si innamora di Marguerite Laurier (Alice Terry) una donna già sposata. Il che provoca un bello scandalo, visto l’ambiente altolocato in cui si muove la nostra storia, sebbene la guerra arriverà a scombinare i piani di Julio e Marguerite. I tedeschi irrompono nel castello di casa Desnoyers, con il povero Marcelo che si ritroverà a tu per tu con uno dei suoi nipoti che non mostrerà, come prevedibile, particolare clemenza nei suoi confronti. E, nel complesso, i tedeschi si comportano da veri vandali saccheggiando le case e molestando le ragazze. La guerra si fa sempre più cruenta e monsieur Lurier rimane cieco in seguito ad una ferita in battaglia: a quel punto sua moglie non se la sente di abbandonarlo per fuggire con il suo grande amore Julio. A questi non rimane che affogare il dispiacere arruolandosi: al fronte ritroverà uno dei suoi cugini ma sarà un incontro assai breve, interrotto bruscamente da una potente esplosione che ucciderà entrambi. Come si vede la trama è ricca di risvolti narrativi che necessitano di essere descritti nello specifico e ne consegue qualche intoppo di troppo da un punto di vista della scorrevolezza che, ad essere onesti, ad un film muto dalla durata di oltre due ore, si può anche concedere. Inoltre, se le escursioni surreali (a cominciare dalle citazioni bibliche) tutto sommato reggono ancora, le vampate melodrammatiche del bel Rudy alle prese con l’amata segnano un po’ il passo a guardarle oggi. In definitiva quello servito da Ingram è un cocktail dai sapori forti: la tragedia è intrisa di sentimento e romanticismo ma il risultato complessivo è quanto mai lucido. Il (presunto) pessimismo che matura nel finale si rivelerà, purtroppo, quanto mai profetico e i Quattro Cavalieri dell’Apocalisse torneranno sulla scena europea e mondiale ancor prima del prevedibile. 






mercoledì 3 dicembre 2025

NOI ERAVAMO

1765_NOI ERAVAMO , Italia 2017. Regia di Leonardo Tiberi 

Dopo Fango e Gloria, Leonardo Tiberi ci riporta ancora indietro di un secolo per farci conoscere un protagonista poco noto della Prima Guerra Mondiale italiana: Fiorello La Guardia (nel film, Yari Gugliucci). L’impronta storica del film di Tiberi è ben riconoscibile nell’opera, dal momento che, esattamente come nel citato Fango e Gloria, moltissimi passaggi sono filmati d’epoca colorati e adeguati al resto del lungometraggio, che è una normale fiction. Dall’aspetto e dal “rango generale” –interpretazioni degli attori, dialoghi, inquadrature– troppo televisiva ma, questo, è un limite di molto del nostro cinema. Al netto di ciò, quella di Tiberi è una bella sfida: e, fosse anche solo per la possibilità data allo spettatore di vedere contestualizzati i filmati storici, va segnalata come scelta coraggiosa. Le immagini storiche sono state accuratamente colorate e, per quanto possibile, sincronizzate con le odierne riprese; anche da un punto di vista cromatico si tratta di un lavoro apprezzabile, ma, purtroppo, non “invisibile”. La differenza tra i filmati di diversa provenienza rimane evidente e, per attenuarla, gli autori hanno ricorso ad uno stratagemma che rivela un certo acume: visto che era impossibile portare le immagini di repertorio all’aspetto di quelle della fiction, si è in parte operato nella direzione opposta. La colorazione delle immagini di finzione ha quindi delle accentuazioni, delle enfatizzazioni di parti del fotogramma, poco naturali, andando quindi ad amalgamarsi con quelle storiche ricolorate.
Un altro merito che va riconosciuto a Tiberi è l’attenzione ad un personaggio come La Guardia, che ci permette di capire come il sentimento patriottico italiano fosse diffuso per il mondo cent’anni fa probabilmente più di quanto lo è oggi entro i nostri confini. Se Fiorello viveva a New York, altri personaggi importanti nel film sono, infatti, i fratelli Cusin che arrivano sul fronte italiano della Grande Guerra dall’Argentina. Guglielmo (Alessandro Tersigni) è il meccanico dell’areo su cui vola La Guardia –un mitico Caproni Ca.33– Luciano (Davide Giordano), dopo Caporetto, è relegato suo malgrado al ruolo di reporter di guerra. Il più giovane dei Cusin vorrebbe infatti avere ancora parte attiva in battaglia ma finirà più che altro per scontrarsi col fratello maggiore, per questioni di cuore oltre che di autonomia. Oggetto al centro delle attenzioni dei fratelli italoargentini, la bella infermiera di turno, Agnese (Beatrice Arnera), ma, sul piano sentimentale, il racconto lascia onestamente molto a desiderare. Il melodramma avrebbe anche gli elementi per incendiarsi –Guglielmo che presta il sangue per salvare il fratello moribondo, Agnese che fa l’altezzosa, Luciano che prova ad approfittare della condizione di ferito per conquistare l’infermiera – ma né la regia, né tantomeno gli attori, sembrano a loro agio in questo ambito.
Per chiudere a dovere, su quella che è un’operazione comunque nel complesso meritevole, meglio tornare a rimarcare la felice scelta di riproporre le immagini restaurate in un contesto di svago come lo è un film di guerra. Uno svago intelligente e istruttivo, beninteso.    






    


domenica 30 novembre 2025

TESTAMENT OF YOUTH - GENERAZIONE PERDUTA

1764_TESTAMENT OF YOUTH - GENERAZIONE PERDUTA (Testament of Youth), Regno Unito 2014. Regia di James Kent

Innanzitutto va detto che per la vicenda all’origine di Generazione Perduta, raccontata nel romanzo autobiografico di Vera Brittan (nel film omonimo interpretata da Alicia Vikander), bisogna avere il massimo rispetto. Durante la Prima Guerra Mondiale, la ragazza perse infatti il fratello, il fidanzato e un caro amico, e si prodigò come infermiera volontaria sul fronte occidentale. D’innanzi ad una simile sciagura personale, che si somma a quella collettiva che fu la Grande Guerra, qualunque reazione, anche la più becera, sarebbe, se non giustificabile, almeno comprensibile. Invece, dopo un paio di ore nel complesso un po’ stucchevoli, il film Generazione perduta di James Kent, cala l’asso che rende la visione forse non del tutto gratificante ma perlomeno sufficientemente appagante. Per comprendere perché quella breve scena del dibattito post bellico in cui si discute come farla pagare ai tedeschi sia così importante occorre però inquadrare un minimo la questione. La protagonista del film, la citata Vera Brittan, pur se di gradevole aspetto, non è che ispiri tutta questa simpatia. Certo, potrà raccogliere i favori delle adolescenti (di nome e di fatto) iper problematiche e che rappresentano il normale bacino di utenza per il tipo di storia che prevalentemente si snoda. Roland (Kit Harington) alla nostra ragazza sembra un cafone e quindi lei se ne innamorerà inevitabilmente mentre Victor (Colin Morgan), che è dolce e carino, finirà relegato nella tremenda friend-zone: tutto come da copione prevedibilissimo delle tipiche storie sentimentali amate dal pubblico femminile. Non a caso il libro della Brittan, che unitamente alle disgrazie belliche si fonda su queste beghe di cuore, divenne un autentico best seller. Meno scontato è il rapporto solidale col fratello Edward (Taron Egerton) mentre con il padre (Dominic West) e la madre (Emily Watson) va riconosciuto a Vera di anticipare i temi della contestazione giovanile di moltissimi anni dopo. Se vogliamo possiamo intendere le rivendicazioni della protagonista (il diritto anche per una donna di studiare a Oxford) come la certificazione che la Grande Guerra fu il vero spartiacque che ci portò nel XX secolo di fatto. Tuttavia la personalità problematica di Vera può legittimamente suscitare qualche dubbio: ha probabilmente le sue ragioni quando si inalbera col padre perché questi gli ha regalato un pianoforte. Non che la musica non piaccia alla ragazza, ma quei soldi le avrebbero permesso di pagare la retta di un’intera annata all’università. 

Peraltro non sembra sia un problema economico, quando il preconcetto famigliare sul fatto che una ragazza perda tempo con gli studi. Tuttavia il genitore è meno rigido di quanto la storia (raccontata dal punto di vista di Vera) lo dipinga perché quanto prima la ragazza ottiene il via libera paterno. Ma quando si presenta a Oxford all’esame di ammissione, con la presunzione di prepararsi in autonomia, senza aver nemmeno compreso su cosa vertesse l’esame, si rimane un po’ spiazzati. Insomma, la dichiarazione programmatica della protagonista (pronunciata proprio quando entra in scena il suo futuro partner) “io non mi sposerò mai”, unita al colpo di scena che fa giungere la notizia della morte di Roland proprio nel giorno previsto dalle nozze, sembra fornire un quadro delle contraddizioni, caratteriali e circostanziali, che caratterizzarono la vita della giovane. Vera era una persona che prendeva a testate la vita e che, dalla vita stessa, ricevette altrettante botte sul cranio. Insomma, non la persona dalla quale attendersi una riflessione ponderata e ragionevole. O, forse, proprio per questo suo scontrarsi vis a vis con le avversità dell’esistenza, era proprio lei che poteva cogliere la verità delle cose. Come in effetti accade nella citata scena finale che rivaluta, in un’ottica decisamente più interessante, lo strappalacrime racconto giunto fin lì. Agli ottusi compatrioti riuniti nell’assemblea, Vera rivela che gli odiati tedeschi, gli unni, i barbari nemici che ora tutti vogliono crocefiggere visto che han perso la guerra, altro non sono che uomini quanto gli inglesi. Una rivelazione scioccante e non accettata dalla platea presente nel racconto filmico. Ma, ancora più scioccante, è constatare, visto che il film di Kent è del 2014 e fonda la sua ragion d’essere proprio su questo passaggio, che da quelle parti lo sia ancora oggi.