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mercoledì 17 settembre 2025

HONDO

1731_HONDO , Stati Uniti 1953. Regia di John Farrow

Tre anni prima del fondamentale Sentieri selvaggi [The Searchers, John Ford, 1956] John Wayne interpretò Hondo, un film che, in un certo senso, ne anticipa alcune conclusioni. La regia di John Farrow è solida e, nel complesso, la confezione formale del film è quella tipica di un western classico, con un equilibrio tra gli elementi che rasenta la perfezione o ne dà comunque l’impressione. Wayne, in seguito, sostenne di aver avuto un ruolo maggiore a quello di semplice interprete di Hondo Lane, il protagonista; difficile stabilire se fosse vero nei termini intesi dall’attore, in ogni caso, il Duca aveva sempre un ruolo maggiore a quello di semplice interprete, in ogni suo film. In questo particolare caso, poi, il lato inquietante, nella personalità di Hondo, lascia intendere che ci fosse davvero qualcosa di John Wayne, uomo d’onore e rispettabile, fuor di ogni dubbio, ma di idee non certo accomodanti. Era un uomo tutto d’un pezzo, Wayne, e non solo fisicamente; peraltro, in Hondo, sfoggia una forma fisica particolarmente atletica. I meriti del film, in ogni caso, risiedono altrove. Ma ruotano, effettivamente, intorno alla figura del protagonista: Hondo, appiedato in pieno territorio apache, arriva al ranch dei Lowe; qui vi trova Angie (Geraldine Page), la signora Lowe, e il piccolo Johnny (Lee Arker, in seguito famoso per il ruolo di Rusty nella serie televisiva Le avventure di Rin Tin Tin), senza che vi sia traccia dell’uomo di casa. Questo aspetto, l’assenza di Ed Lowe (Leo Gordon) dal ranch, aleggia in modo insidioso su tutti i discorsi tra Hondo e Angie: la situazione è potenzialmente critica per la donna, considerata la sinistra fama di pistolero del suo ospite. Una situazione atipica per un western classico, considerato che il tizio in questione è il protagonista della storia. In una scena, in cui Hondo rivela ad Angie di essere mezzo apache, si ha la conferma che la tensione tra l’uomo e la donna sia oltre il consueto limite di guardia. Per dimostrare come sia vero che gli indiani abbiano un olfatto più sviluppato, Hondo annusa Angie quasi alla stregua di un animale, concludendo, in modo non troppo rassicurante, che sarebbe in grado di localizzarla anche al buio. 

Gli Apache sono un altro elemento centrale della vicenda e il gran capo Victorio (Michael Pate) è ben tratteggiato: valoroso, leale, a suo modo giusto, senza troppe concessioni a debolezze umane e, all’occorrenza, anche spietato. Angie nutre nei suoi confronti, e in quelli degli Indiani in generale, una fiducia a dir la verità un po’ esagerata e che stupisce si manifesti in un film del 1953. La posizione politica della donna a riguardo dei nativi, sembra quella di un’esponente del cosiddetto Contro-Western degli anni Settanta, nel quale gli indiani vennero idealizzati in modo strumentale per mettere sotto accusa il Sistema Borghese. Questo è uno degli aspetti più interessanti di Hondo: non solo è un film moderno rispetto ai coevi classici perché rivela il lato oscuro dell’eroe, ma evidenzia gli elementi presenti nella Conquista del West che furono in seguito utilizzati per la critica al capitalismo dalla Rivoluzione Sessantottina. In realtà, Farrow si premura di non fare un’agiografia degli Apache, popolo fiero e di grandissima dignità ma che viveva di scorrerie fin da prima dell’arrivo dell’uomo bianco, chiedere ai loro vicini Pueblo, Zuni e Hopi per conferma. Tuttavia, pur con le loro asprezze, si veda ad esempio il cruento rito di sangue tra Victorio e il piccolo Johnny, gli Apache sono presentati come un modello coerente di vita inserito nel contesto ambientale. La loro durezza riflette la durezza del territorio ma, culturalmente, non conoscono l’inganno o l’imbroglio, al punto che, almeno secondo Hondo, in lingua apache la parola «bugia» non esista neppure. Hondo è un personaggio anticonvenzionale, un vero anti-eroe in anticipo sui tempi, e non è facilmente collocabile. Si presenta in qualità di messaggero per conto dell’esercito degli Stati Uniti, un ruolo che ne rivela un certo inquadramento nei ranghi degli invasori bianchi. Tuttavia ha anche la fama di fuorilegge, il che lo disallinea subito con quello schieramento; inoltre, la funzione di scout portaordini, che già sembra prevedere alcune libertà, risulta poi essere effettivamente estemporanea, dal momento che Hondo si dedica ai suoi affari senza alcuna preoccupazione di eventuali nuovi incarichi. D’altra parte, ad Angie confessa di essere mezzo Apache e di aver avuto una donna indiana; con Victorio e i suoi uomini ha più di un violento scontro, ma questo non muta la stima di Hondo per i nativi e per il loro modo di intendere la vita. 

La posizione «terza» di Hondo è resa esplicita da altri dettagli, come il tipo di compagnia che pare essersi scelto. In effetti un’altra stranezza di questo personaggio western è che si presenti appiedato, senza quel cavallo che è parte integrante della figura dell’eroe della frontiera. In seguito, utilizzerà un cavallo che è quello del marito di Angie, quasi ad indicare quale sarà il suo posto nel proseguo della storia. Ma, al suo arrivo al ranch Lowe, accanto a lui, altrettanto sfinito, sfiancato, affamato e assetato c’è il cane Sam. Già il fatto che Hondo scelga una compagnia non umana rafforza il suo sentirsi estraneo al contesto sociale, ma anche il tipo di relazione istaurata con l’animale rafforza questo concetto. Hondo definisce Sam «indipendente» e non lo considera il «suo» cane: l’animale deve arrangiarsi a trovare nutrimento e badare a sé stesso. Hondo, in sostanza, non solo rifiuta la società umana, sia quella bianca che quella indiana, ma rinnega ogni possibile interazione tra individui e perfino tra uomini e animali. Con il cane Sam non ha un rapporto di proprietà o amicizia, ma piuttosto «professionale», teso a cacciare gli Apache; inoltre, cosa, questa, per un cow-boy del cinema western classico quasi impossibile da immaginare, non ha nemmeno un cavallo che sia suo. Se si aggiunge questa caratteristica alla scena in cui scaglia lontano il suo fucile, l’altro elemento irrinunciabile ad ogni protagonista di un film del Far West, abbiano l’idea di quanto Hondo sia una figura a dir poco inconsueta. La connotazione che ritorna più volte, nella condotta esplicita e intenzionale di Hondo, è la volontà di lasciare che ognuno faccia come preferisce. Perfino al cane si premunisce di non dare consigli o indicazioni: ognuno deve fare come gli pare. Un’intenzione lodevole, ovviamente, ma che nasconde la volontà di non impegnarsi in un qualche rapporto piuttosto di quella di non voler influenzare il suo prossimo. Su questa impostazione molto ben articolata e definita, Farrow inserisce la considerazione più originale e interessante di Hondo: il fatto di dire sempre la verità, nel racconto, è l’altra caratteristica del protagonista. Ma, in questo conteso, la sincerità ad ogni costo, appare come un’ulteriore intenzione di non farsi coinvolgere, di non mettere nulla di proprio, di personale, nelle relazioni con gli altri. In sostanza Farrow fa notare come la tanto agognata verità sia una maniera di estraniarsi da tutto quanto, dalle vite altrui e dalla società nel suo complesso, con il rischio che diventi presto una forma di deresponsabilizzazione. Nel finale, Hondo si ricorda di essere comunque un western classico: il protagonista evita di dire al piccolo John di essere stato lui ad uccidergli il padre, e ne assume il ruolo, con Angie a completare la tipica famiglia elemento base del nascente Paese. Il povero Sam, nel frattempo, era già morto da un pezzo, ucciso senza troppi complimenti dagli Apache, passaggio che simbolicamente segna un primo cambio di direzione di Hondo. Nel cast ci sono attori habitué del genere, come James Arness (sarà il mitico Zeb Machan nella serie Tv Alla conquista del west) e Ward Bond. Al suo personaggio, l’istrionico Buffalo Baker, va il merito di una battuta, ripetuta due volte, resa poi celebre da un altro film: “Sei pronto” gli chiede Hondo e lui, in risposta, “Dalla nascita”. Trentatré anni prima di Kurt Russell in Grosso guaio a Chinatown [Big Trouble in Little China, John Carpenter, 1986]. Lo si è già detto che Hondo è un film in anticipo sui tempi?   









 Galleria 






lunedì 15 settembre 2025

CAROVANA D'EROI

1730_CAROVANA D'EROI (Virginia City), Stati Uniti 1940. Regia di Michael Curtiz 

L’anno successivo al suo esordio con il genere, Gli avventurieri [Dodge City, 1939], Michael Curtiz si cimenta nuovamente con il western con Carovana d’eroi, riuscendo anche stavolta a portare a casa il risultato. In realtà Carovana d’eroi è un western atipico, in quanto ambientato durante la Guerra Civile Americana, un elemento storico sempre piuttosto ingombrante al cinema hollywoodiano. In effetti non sembra affatto un caso che l’anno di uscita del film sia di poco precedente all’entrata in guerra degli Stati Uniti nel secondo conflitto mondiale. Anche in quell’occasione gli States avevano soppesato la cosa per un certo tempo e il film di Curtiz sembra proprio un appello all’unità nazionale di fronte ad una difficile scelta. Al di là di questi elementi in qualche modo condizionanti, il regista di origine ungherese, pur non essendo acclamato come uno dei maestri del cinema autoriale, sapeva il fatto suo e raramente non coglieva nel segno. Carovana d’eroi è un film che supera le due ore ma Curtiz, una volta impostato il suo ritmo, non concede nemmeno un minuto alla noia: l’impressione, guardando queste sue vecchie pellicole, è che il regista di Casablanca sia stato un cineasta sottovalutato. In Carovana d’eroi Curtiz si permette anche alcune citazioni illustri, come la scena della galleria scavata dai galeotti che ricorda nientemeno che La grande illusione [La grande illusion, Jean Renoir, 1937] o quella più inerente al genere dell’uomo che si getta tra i cavalli di una diligenza lanciata a tutta velocità [lo stesso stuntman Yakima Canutt l’aveva girata l’anno prima in Ombre rosse, (Stagecoach), John Ford]. Ma la qualità migliore di Curtiz anche in questa pellicola è probabilmente sempre quella di assoggettare tutti gli elementi a sua disposizione alla riuscita di un film che funziona come un meccanismo oliato e perfettamente registrato. Solida sceneggiatura, opera di Robert Buckner e Howard Koch, musiche classiche di Max Steiner, fotografia stilosa in bianco e nero di Sal Polito: dal punto di vista tecnico non ci sono pecche, tutt’altro. 

Sul cast, che è comunque sontuoso, qualche appunto si può fare, ma il terzetto d’assi è davvero ragguardevole: Errol Flynn è Kerry Bradford, ufficiale del controspionaggio nordista; Randolph Scott è Vance Irby, suo corrispettivo sudista; Humphrey Bogart è il bandito John Murrell. Come sempre, la sfacciata ed esuberante personalità di Flynn annichilisce chiunque gli capiti a tiro, tuttavia sia Scott che Bogart sono buoni incassatori. Il primo riesce ad essere credibile come avversario che, col tempo, si guadagna il rispetto dell’eroe del film, che è ovviamente il personaggio di Flynn, e, pur essendone sempre secondo, non ne viene sminuito in modo eccessivo. Diversamente da Scott, Bogie non aveva una presenza scenica per reggere il protagonista ma, a quel tempo, era ancora utilizzato come villain, ruolo che, in Carovana d’eroi, ricopre con particolare efficacia. Il suo Murrell è un tipo viscido e infido che ispira assai poca fiducia, soprattutto per il ghigno sinistro che era uno dei segni distintivi del Bogart prima maniera. Ad affiancare poi Kerry Bradford, il protagonista, ci sono un paio di spalle comiche: Alan Hale è Olaf e Gun «Big Boy» Williams è Marblehead, inserite nel copione per non far calare mai il tono del racconto. Curtiz, ancora una volta, dimostra la capacità di gestire con grande profitto il cast che la Warner Bros gli aveva concesso: Flynn era libero di scorrazzare a piacimento, Scott era comunque bravo a non farsi pestare i calli, Bogart sapeva stare defilato, con fare insidioso, mentre Hale e «Big Boy» Williams intervenivano nei momenti opportuni per alleggerire il racconto e prepararne il rilancio. 

Probabilmente, Carovana d’eroi è troppo influenzato dal peso del tema principale per poter essere ascritto a qualche corrente del western: la «guerra tra gli stati», rammentata per fare appello, per contrasto, all’unità nazionale in vista dell’entrata in guerra, era come detto troppo ingombrante. Tuttavia il film risente comunque del clima generale che era diffuso nel genere, sebbene poi ne tradisca l’elemento cardine. Per il cinema western gli anni 40 furono caratterizzati da una fortissima deriva romantica che, in effetti, non manca nemmeno in Carovana d’eroi, anzi, tutt’altro. Del resto Errol Flynn era la tipica faccia da schiaffi che incarnava perfettamente l’ideale romantico di questo tipo di racconti. Tuttavia l’argomento principale, la Guerra Civile, non permetteva troppe divagazioni per cui, Carovana d’eroi non è propriamente un western romantico, corrente che altri titoli interpretarono in modo più fedele. Anche perché la protagonista, la pur valida Miriam Hopkins (è Julia), è lasciata da sola a fronteggiare troppi personaggi maschili. La Hopkins era una grande attrice, aveva recitato con registi del calibro di Ernst Lubitsch e Howard Hawks ma, nonostante bravura, bellezza, charme, intensità, non le manchino nemmeno in quest’occasione, non riesce a rendere davvero indimenticabile il suo personaggio. E, a ben vedere, in questo senso Carovana d’eroi è allora un perfetto Western Romantico, perché le sue sorti dipendono più dall’attrice che non dall’attore protagonista, cosa che nel successivo periodo, quello «classico» del genere, non sarà più vera. 

E Carovana d’eroi, sebbene sia senza ombra di dubbio un film godibile, non va oltre quello; il che, stante tutti gli elementi a disposizione, qualche rimpianto lo lascia. A prima vista, a tradire è proprio il personaggio di Julia: il problema, probabilmente, non risiede nelle qualità dell’attrice, dal momento che la Hopkins era interprete di talento e non mancava del physique du rôle, come si può vedere nelle piacevoli scene del saloon dove si esibisce nei tipici abiti succinti. Così come difficilmente può essere Curtiz in regia a fare un passo falso: forse non avrà mai raggiunto le vette dei più grandi, ma ben raramente il cineasta nato a Budapest metteva il piede in fallo. Il punto è che Carovana d’eroi, come tutti i prodotti della grande Hollywood, coglie gli spunti del momento, che erano appunto quelli del western romantico: quindi, giovanotti ribelli ben oltre il consentito e ragazze gagliarde in grado di tener loro testa che, per ricondurli sulla retta via, ricorrevano alle loro classiche armi, bellezza e sensualità. Ma, in Carovana d’eroi, non succede niente di ciò: le schermaglie tra Kerry e Julia sono legate alle questioni politiche della Guerra Civile e, oltretutto, a stare con il Sud, e quindi dalla parte del torto –almeno a rigor di Storia ufficiale– è la ragazza. In sostanza il personaggio maschile, che nel western rimane comunque il riferimento, non ha alcuno sviluppo, nella vicenda; e, quello femminile, che in questi casi è il vero e proprio motore della storia, non ha che un pallido ruolo sentimentale da compiere. Nonostante tutto, Curtiz riesce a dare confezione formale di grande livello e Carovana d’eroi non delude certo lo spettatore; ma rimane forte il dubbio che sia un’occasione sprecata.   






Miriam Hopkins 





Galleria 







sabato 13 settembre 2025

IL TENENTE SHERIDAN - LA CORTINA DI FOSFORO

1729_IL TENENTE SHERIDAN - LA CORTINA DI FOSFORO, Italia 1959. Regia di Stefano De Stefani

La cosa curiosa dell’ultimo episodio della prima stagione della serie dedicata al tenente Sheridan è che al centro del caso de La cortina di fosforo ci sia un furto di una collana e nessuno venga ammazzato. Il che, essendo Sheridan a capo della Sezione Omicidi, non dovrebbe coinvolgere il nostro eroe dall’impermeabile chiaro interpretato da Ubaldo Lai. Tuttavia la storia raccontata è abbastanza intrigante, un giallo classico, con un pugno di potenziali colpevoli in un ambiente ristretto e si lascia guardare con buon interesse per la soluzione finale. Il curioso titolo fa riferimento ad una polvere fosforescente che viene spruzzata su chi non abbia preventivamente disinserito il dispositivo apposito al momento dell’apertura della cassaforte dove viene custodita la preziosa collana. Un espediente narrativo da fin troppo arzigogolato da spiegare, figuriamoci da vedere in un film che dovrebbe far leva sulla logica deduttiva. Tale stratagemma, infatti, è utile in un caso come quello raccontato ne La cortina di fosforo, ma sarebbe uno sforzo totalmente inutile e infruttuoso se il ladro si potesse dileguare una volta compiuto il furto, come avviene nella realtà praticamente sempre in tali circostanze. Tuttavia va ricordato che gli autori delle prime avventure del tenente Sheridan dovevano architettare racconti che fungessero da pretesto per una sorta di programma a quiz che era Giallo Club – Invito al poliziesco. Fatta quindi la tara alle contingenti premesse, anche La cortina di fosforo assolve degnamente allo scopo, forte anche dell’ambientazione particolarmente suggestiva dell’episodio. Tra gli interpreti, oltre al solito Ubaldo Lay, si può ricordare l’elegante Luisa Rivelli (è Pola).   


giovedì 11 settembre 2025

IL TENENTE SHERIDAN - DELITTO A TEMPO DI ROCK

1728_IL TENENTE SHERIDAN - DELITTO A TEMPO DI ROCK, Italia 1959. Regia di Stefano De Stefani

Il rock and roll sembra essere un argomento particolarmente caldo per gli autori del tenente Sheridan: nello scorso episodio il colpevole si chiamava Rock sebbene non sopportasse la musica che riecheggiava il suo nome, mentre, in questo nuovo appuntamento con il tenente di San Francisco, già il titolo ci riporta sul medesimo tema musicale e la sigla è accompagnata dal trascinante Rock-a-Bye Boogie dei The Modernaires. Delitto a tempo di rock fa, in effetti, riferimento alla musica che l’imprenditore Kent (Aldo Giuffrè) usa per dettare i tempi di lavoro ai suoi operai. Che sono quasi tutti in sciopero: di 35 solo sei sono al carico delle mele e, nello specifico, per quel che possiamo testimoniare sullo schermo ne compaiono solo tre. In effetti questo episodio della serie sembra realizzato particolarmente al risparmio, con un’ambientazione rurale, nei dintorni di San Francisco dove abitualmente si svolgono le indagini di Sheridan, degna di una recita parrocchiale. A questa sciatta scenografia si aggiunga l’intrigo non particolarmente coinvolgente e il livello degli interpreti non precisamente indimenticabile. Ubaldo Lai prova a fare il piacione, nei panni del tenente protagonista, corteggiando Barbara (Franca Ferrari), al quale rivela, vergognandosene un poco, il suo vero nome, Ezechiele, di cui Ezzy è solo un diminutivo. Sheridan, in questo episodio, abbandonando la metropoli californiana in cui sono ambientate le sue avventure, confessa in qualche modo le sue origini italiane: non solo il nome Ezechiele, che in americano avrebbe dovuto essere Ezekiel, ma il bere un prosaico bicchiere di latte anziché il tipico whisky consumato dai personaggi dei noir americani. Si diceva delle scarse qualità delle interpretazioni: su tutte spicca quella di Mario Scaccia nei panni dell’inguardabile sceriffo Taylor. Da arresto immediato lui, altro che i colpevoli. 


martedì 9 settembre 2025

IL TENENTE SHERIDAN - BUIO ALLE OTTO

1727_IL TENENTE SHERIDAN - BUIO ALLE OTTO, Italia 1959. Regia di Stefano De Stefani

In questo episodio, il tenente Sheridan (Ubaldo Lai), entra in scena dopo una ventina di minuti ben abbondanti, praticamente a metà telefilm. Del resto l’enigma giallo da sciogliere è più particolare che complicato. Il vecchio industriale Slelman (Franco Scandurra) è stato trovato morto nel suo studio; tutti gli indizi puntano sul nipote Rock (Nino Dal Fabbro), uno sfaccendato che è l’erede diretto. Ma Rock ha un alibi: si è, infatti, premunito di istruire a dovere Norah (Maria Pia Nardon) –in cambio di una promessa di lauta ricompensa– di confermare di come abbiano passato insieme, a casa della ragazza, la serata in cui lo zio è morto. A Sheridan, giacca e cravatta d’ordinanza, non serve molto per scoprire la loro bugia e, con essa, come si sono realmente svolti i fatti. Non si tratta di omicidio, ma suicidio, con il vecchio Slelman che aveva deciso di togliersi la vita a fronte di una situazione finanziaria catastrofica della propria azienda. Questa la motivazione apparente, ma, in tutta evidenza, c’era anche un altro piccolo grande dettaglio ad indurre il magnate a togliersi la vita. Un dettaglio determinato dal lungo incipit iniziale, quello senza la presenza del tenente titolare della serie Tv: Slelman aveva infatti assistito ad una discussione tra la sua giovanissima compagna Jane (Lyla Rocco) e il nipote Rock, nella quale i due rivelavano di essere interessati unicamente ad ereditare il suo patrimonio attraverso l’assicurazione sulla vita, incautamente stipulata dal vecchio industriale. Nessun affetto li legava all’anziano, anzi, non vedevano l’ora che tirasse le cuoia. L’assicurazione in questione aveva però una clausola, fatale ai piani di Rock e Jane: la compagnia non avrebbe pagato un cent in caso di suicidio. Se le belle ragazze della storia, Jane e Norah, rimangono a bocca asciutta, peggio va al nipotastro Rock, che finisce portato al gabbio da Sheridan, senza che ci venga specificato il capo di accusa –non potendo essere omicidio da momento che lo zio è morto suicida. Poco male, a parte l’antipatia del personaggio, è la giusta sorte per un tizio che dice di chiamarsi Rock e non sopporta Little Richard.  


domenica 7 settembre 2025

IL TENENTE SHERIDAN - SEDICI ORE PER NON MORIRE

1726_IL TENENTE SHERIDAN - SEDICI ORE PER NON MORIRE, Italia 1959. Regia di Stefano De Stefani

Il terzo episodio della serie Giallo Club – Invito al poliziesco con protagonista il tenente Sheridan rivela fin dal titolo Sedici ore per non morire la natura del racconto filmico impostato sulla suspense. La signora Sarah Morgan (Lia Zopelli) è stata condannata alla camera a gas per aver avvelenato il marito (Silvano Tranquilli) e ormai la sua ora è quasi giunta. La sua ultima speranza è il tenente Sheridan che prende a cuore le istanze della donna e rivede completamente il processo, per verificare se ci possa essere un errore. La Morgan è, infatti, particolarmente convincente e da questo passaggio narrativo, possiamo desumere che Sheridan non sia poi quel duro che gli autori cercano di far apparire. Sedici ore per non morire è un buon esempio di giallo, che si lascia seguire con piacere, sorretto dalla curiosità di scoprire se la condannata a morte sia effettivamente colpevole o meno. Nel complesso, l’ottimo Ubaldo Lai è ben coadiuvato da Lia Zopelli, e il cast in generale si allinea alle pretese di un telefilm che per l’epoca si può definire pionieristico, almeno in ambito nazionale. Il colpo di scena con la soluzione finale non è scontato ma, forse, un filo contorto, sebbene questo sia un peccato veniale che si può perdonare considerato che, nell’insieme, Sedici ore per non morire è un piacevole passatempo. 


venerdì 5 settembre 2025

IL TENENTE SHERIDAN - MORTE DI UNA SPIA

1725_IL TENENTE SHERIDAN - MORTE DI UNA SPIA, Italia 1959. Regia di Stefano De Stefani

Dopo l’esordio in Qualcuno al telefono, il tenente Sheridan (Ubaldo Lai) ritorna all’opera in Morte per una spia, episodio che, pur se godibile, non manca di lasciare ben più di qualche perplessità. Che si possono intuire già nella scelta del titolo: sul momento verrebbe infatti da chiedersi come un tenente della Squadra Omicidi di San Francisco, possa essere coinvolto in un caso di spionaggio, ma è appunto un errore in cui si può essere indotti dal nome equivoco dell’episodio. La “spia”, citata nel titolo, non è, infatti, un “agente segreto” ma un “informatore” della polizia: che gli autori, esattamente come il loro protagonista, lasciano intendere di disprezzare definendolo con il termine poco lusinghiero di chi, nei vari ambiti della vita quotidiana, rivela la verità a chi è incaricato di accertarla, sia esso un genitore, un insegnante, il datore di lavoro, un poliziotto –appunto–  e via di questo passo. Il voto di omertà, a cui ogni buon cittadino italiano sembra dover sottostare, tanto per capirci, è lo stesso che le organizzazioni mafiose poi sfruttano a dovere ma, anche senza scomodare Cosa Nostra, è curioso che in un poliziesco la figura del “soffia” sia trattata in modo simile. Sheridan, non solo disprezza apertamente Tom Bates (Tonino Pierfederici), ma sottovaluta i rischi che l’informatore corre, tanto che, sostanzialmente, la missione del tenente fallirà, visto che l’uomo finirà poi ucciso dai sicari incaricati di fargli la pelle. Di fronte alla sconsolata vedova di Bates, Brenda (Liliana Tellini), il tenente non ha il minimo moto di umanità ma si compiace con sé stesso nel dimostrare la propria abilità, scoprendo facilmente l’identità del colpevole, inevitabilmente da cercare nel pugno di personaggi presenti nel motel in cui è avvenuto l’omicidio. La scena è godevole, con tutti i sospettati presenti e con Sheridan che elenca i passaggi della sua indagine, tendendo poi una trappola in cui il sicario finisce per cascare. Nel far questo, si ricordi che lo sceneggiato è del 1959, gli autori inseriscono un paio di curiosità tecnico-investigative, come le impronte digitali e il guanto di paraffina, quest’ultimo spiegato con dovizia di particolari. Trovato il colpevole ed erroneamente convinto di aver fatto “il suo” –in realtà il compito del tenente era quello di proteggere Bates– Sheridan se ne va, mentre Brenda continua a piangere sconsolata. Tipo ambiguo, questo Sheridan, e basterebbe il ghigno di Lai per capirlo, ma c’è qualcosa anche di più del sorriso inquietante che non va, nel tenente. Qualcosa le cui tracce si possono trovare anche in passaggi di minore importanza, ma rivelatori del pensiero, probabilmente, non tanto del personaggio, ma, piuttosto, degli autori alle sue spalle. Quando vede per la prima volta la più giovane delle sorelle della temperanza, Jeanne (Rosa Maria Rocchi), Sheridan si volta sornione a darle uno sguardo alla figura, sorridendo compiaciuto. Quando poi nota il sergente Howard (Carlo Alighiero), fare lo stesso, lo redarguisce subito: coerenza questa sconosciuta, d’accordo, ma per un tipo che si spaccia per essere tutto d’un pezzo suona un po’ più che ipocrita. Tuttavia questa caratterizzazione del protagonista tutt’altro che edulcorata, promette di essere il vero piatto forte della serie.