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giovedì 27 marzo 2025

JOURNEY'S END

1643_JOURNEY'S END . Regno Unito, Stati Uniti 1930. Regia di James Whale 

Oggi, se dici James Whale pensi subito al meraviglioso Frankestein del 1931 di cui l’autore britannico era stato eccezionale regista. Grande artista, Whale: la sublime capacità di messa in scena rivelava la solida base teatrale che l’autore si era costruito ad inizio carriera, dirigendo sui palcoscenici di Londra lo spettacolo Journey’s End, un dramma scritto da Robert Cedric Sheriff. Il successo fu enorme, gran parte del quale riconosciuto al merito di Whale: la sua carriera ebbe quindi un’impennata e fu coinvolto nel mondo del cinema. Tralasciando gli impieghi non riconosciuti (tra cui Gli Angeli dell’Inferno, 1930, del vulcanico Howard Hughes), il suo debutto in cabina di regia fu proprio Journey’s End, il racconto degli ufficiali inglesi in prima linea a S. Quentin, nei giorni che precedettero l’Offensiva di Primavera tedesca del 1918 durante la Prima Guerra Mondiale. La storia è sostanzialmente tutta ambientata nel ricovero ufficiali salvo qualche sporadica scena nelle trincee o nella terra di nessuno, in occasione dell’incursione per catturare il soldato tedesco. Ma, pur essendo un film di guerra, ed uno dei migliori, per inciso, Journey’s End non dedica troppo tempo all’aspetto bellico, concentrandosi maggiormente sulla tensione che si viveva in trincea e sugli effetti della stessa sui combattenti. A posteriori, è facile cogliere la sensibilità a questi argomenti che l’autore potrà sviluppare in modo più approfondito quando si cimenterà col cinema horror e fantastico. Il tema della paura è infatti analizzato in modo compiuto, mostrando, attraverso le diversità d’approccio dei personaggi, i vari modi con cui si può provare a coesistere con questo sentimento così a lungo come avvenne durante gli estenuanti mesi di vita in trincea. Nella quale l’impatto in termini di logoramento dei nervi non era tanto legato alle pur traumatizzanti e terrorizzanti furibonde incursioni ma alle interminabili attese, in cui i colpi di artiglieria contribuivano ad alimentare incessantemente la diffusa tensione. L’arrivo del giovane tenente Raleigh (David Manners), ingenuamente contento di aggregarsi alla compagnia del fidanzato della sorella, il capitano Stanhope (Colin Clive), è l’elemento che serve a fare da contrasto, a mettere maggiormente in risalto le differenti strategie psicologiche e comportamentali degli ufficiali già di stanza in prima linea. 

Tra questi, il primo che incontriamo è il capitano Hardy (Robert Adair), il classico menefreghista che non interessa però a Whale e, infatti, è al comando del reparto che sta per essere sostituito al fronte dagli uomini di Stanhope. A dargli cambio ci pensa il tenente Osborne (Ian Maclaren), ufficiale responsabile e di buon senso, che si fa chiamare affettuosamente zio dai sottoposti. Lo zio sarà anche colui che accoglierà Raleigh e, in effetti, il suo atteggiamento è quello più maturo tra quelli mostrati. Però, e il soprannome è già un indizio in tal senso, probabilmente riesce ad avere un comportamento così equilibrato, a fronte di una situazione tanto esasperata, perché non ha la responsabilità diretta sui suoi uomini; è, infatti, solamente il secondo in comando (uno zio, insomma, semplicemente il fratello del padre). Padre che, come ruolo simbolico, è ovviamente il capitano Stanhope che, per sopravvivere al peso della responsabilità di mandare i suoi uomini al macello, è divenuto alcolista. Gli altri due tenenti che vediamo sulla scena confermano questo schema: c’è chi è schiacciato dalla tensione come il tenente Hibbert (Anthony Bushell) e cerca costantemente di marcar visita e chi riesce invece in qualche modo a gestire la situazione, come il tenente Trotter (Billy Bevan) che battibeccando scherzosamente con Mason (Charles K. Gerrad), il soldato addetto in cucina, riesce a stemperare l’enorme carico di stress. Anche narrativamente, l’ironia di queste situazioni funge mirabilmente da lieve valvola di sfogo della tensione che può rimanere, proprio grazie a questi veloci intermezzi, sempre costante. L’utilizzo dei personaggi è quindi notevole, come si conviene ad un testo di origine teatrale, e tutti quanti hanno il loro scopo narrativo nel disegno generale. Ma il rapporto su cui si fonda principalmente Journey’s End è naturalmente tra Raleigh e Stanhope, con il primo che stenta a riconoscere il suo vecchio amico e che vede, in breve tempo, sgretolarsi sotto i suoi occhi l’immagine idealizzata di eroe che si era fatta del superiore. Il tema di come la guerra trasformi e renda irriconoscibili gli uomini è subito introdotto nel film dall’incipit, con i soldati in movimento nelle trincee ma indistinguibili nell’oscurità dell’ombroso bianco e nero della pellicola. La questione è resa poi esplicita in un dialogo tra due soldati che, sul momento, non si riconoscono. Il problema, sembra dirci Whale che, in guerra, nella Grande Guerra, c’era andato, non è solo per chi muore sul campo di battaglia. E’, come in ogni altro ambito della vita ma al fronte aumentato in modo esponenziale, sempre una questione di sensibilità umana, di come ci si rapporta con le responsabilità delle proprie azioni. Si può fare come il capitano Hardy e, in prima linea durante il periodo cruciale della Prima Guerra Mondiale, invece di preoccuparsi dei caduti negli scontri pensare ai propri calzettoni; oppure, peggio, come gli alti ufficiali del comando che non si fanno scrupolo ad approfittare per i loro piani dell’ingenua baldanza del giovane Raleigh per mandarlo in una missione praticamente suicida. E’ chiaro che l’alcol, la soluzione scelta da Stanhope, non è certo il rimedio adatto. Ma Whale, per far fronte all’orrore della guerra, non ne trova altri. Anche perché non ce ne sono.  

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martedì 25 marzo 2025

IL PELO NEL MONDO

1642_IL PELO NEL MONDO . Italia, 1964. Regia di Antonio Margheriti e Marco Vicario

Sulla scia del filone sexy scaturito da Europa di notte di Alessandro Blasetti, Il pelo nel mondo merita la segnalazione non fosse altro perché uno dei registi accreditati è Antonio Margheriti. Margheriti, che si presenta anche in quest’occasione sotto lo pseudonimo di Anthony Dawson, vantava già una discreta carriera, tra cui si possono ricordare i quattro film del ciclo Gamma Uno e gli ottimi La Vergine di Norimberga e Danza Macabra. Al suo fianco, per questa sua incursione nei Mondo movie, troviamo Marco Vicario, al tempo ancora alle prime armi dietro alla macchina da presa. Lo schema de Il pelo nel mondo ricalca il prototipo di Blasetti, anche se presenta delle analogie ancora più evidenti con il successivo Il mondo di notte, di Luigi Varzi. Il titolo del film lascia abbastanza perplessi ma è già una chiave di lettura per comprendere come, in fin dei conti, si tratti di un’operazione semiseria. La donna è al centro dell’obiettivo e, è innegabile, il riferimento nel titolo è effettivamente maschilista in modo piuttosto becero. I titoli di testa che scorrono su buffi disegni animati stilizzati, opera dell’Incom, cercano quindi di alleviare il tono sin da subito, buttandola sullo scherzo e niente più. A quel punto, anche il primo assaggio di film, che presenta una rappresentazione del famoso detto “donna al volante, pericolo costante”, può passare indolore. Il film si snoda tra un’interpretazione di un luogo comune e l’altro, e a finire sulla graticola dello schermo sono ora i cinesi, ora i tedeschi, ora nella Papua Nuova Guinea, ora nel Laos, sempre in bilico tra l’ironico e il cialtronesco. In perfetto stile Mondo movie, non mancano però i passaggi toccanti, quello delle povere donne di Hong Kong, ma anche quello della pesca del “pesce vela”. Nella battuta di pesca filmata, la dura lotta che questi marlin oppongono è alfine vinta dal pescatore, che issa a bordo il malcapitato pesce. Si tratta di una femmina e il maschio, a quel punto, seguirà l’imbarcazione, finendo anche lui per essere catturato, stavolta quasi senza sforzo. La musica di Bruno Nicolai e Nino Oliviero, si fa struggente sottolineando il passaggio in tono differente rispetto al più leggero resto della pellicola. L’ingaggio di Nino Oliviero, era un tipico esempio di come il nostro cinema di cassetta consolidasse i generi: il musicista aveva infatti lavorato ai primi tre film di Jacopetti e Prosperi, in supporto a Riz Ortolani e, evidentemente, si pensava potesse essere una sorta di garanzia. Ancora più forte fu il legame che introdusse Mario Morra, chiamato al montaggio, che aveva appena finito di lavorare in sala taglio per Mondo Cane n.2. Fu proprio il Morra, consapevole della quantità di materiale inutilizzato per il secondo Mondo cane, a mettere in contatto Jacopetti con Marco Vicario per l’acquisto di spezzoni di pellicola non utilizzati. In effetti, alcuni passaggi tra i due film, Mondo cane n.2 e Il pelo nel mondo, sono effettivamente simili se non proprio identici. Nel complesso, nonostante questo affannarsi il risultato fu però deludente. Paolo Mereghetti, nel suo dizionario, lo liquida così: “squallido, insopportabile e con battute misogine. Tra le poche curiosità di costume, l'insistenza sui trans”. In effetti, quello dei transgender è un cliché dei Mondo movie che viene rispettato anche stavolta, con ben due passaggi. Nel secondo dei quali, viene rispettata anche un’altra consuetudine dei Mondo movie, ovvero di rifilare panzane davvero poco credibili, miste ad altre più plausibili e chissà, anche a qualche mezza verità. Quando viene presentata la bellissima Coccinelle, il commento di Nino Rienzi cerca di convincerci che la soave, platinata e celebre transessuale fosse, in precedenza, un improbabile sergente d’artiglieria: e va beh, da un film che si intitola Il pelo del mondo, cosa ci si poteva aspettare? 




Al fenomeno dei Mondo Movie, Quando la Città Dorme ha dedicato il secondo volume di studi attraverso il cinema: MONDO MOVIE, AUTOPSIA DI UN GENERE, AUTOPSIA DI PAESE


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domenica 23 marzo 2025

LA DISCORDE

1641_LA DISCORDE . Francia, 1976. Regia di Georges Franju

Nel 1978, tre anni dopo il non certo lusinghiero risultato del telefilm L’Homme sans Visage, Georges Franju ottiene l’incarico di dirigere un film televisivo della collezione Cinéma 16. Il regista era un autore capace e al tempo soltanto sessantaseienne; le speranze per un buon risultato erano legittime. Certo, ad essere onesti, guardando la filmografia di Franju appariva chiaro che il suo momento d’oro era sempre più lontano, legato ai cortometraggi e ai primi film su pellicola, in un arco temporale che andava dal 1949 de Le Sang des Bêtes al 1962 de Il delitto di Thérèse Desqueyroux. Poi c’erano stati altri lavori interessanti, spesso con spunti notevoli, ma la parabola della creatività dell’autore sembrava nella sua fase discendente. Una traiettoria inasprita e ripresa poi dal progetto L’Homme sans Visage nel suo complesso: accettabile il film Nuits Rouges che lo anticipava nel 1974 nelle sale– anche se decisamente inferiore al precedente simile L’Uomo in Nero del 1962 – assai meno riuscita la serie televisiva del ’75, conclusa in modo troppo raffazzonato anche per una sorta di feuilleton quale era. Questo suo nuovo lavoro si apre con un pizzico di ironia che lascia ben sperare: un film intitolato La Discorde [la discordia] si apre con l’atterraggio di un Concorde, il cui nome ha un significato letteralmente opposto. Ma è una falsa pista: Bernard (Daniel Gelin), l’uomo in arrivo, non troverà alcuna concordia nel suo ritorno a casa e di umorismo nel film ce ne sarà ben poco. Facoltoso uomo d’affari, Bernard si era progressivamente stancato della propria famiglia: la moglie Cécile (Francine Bergé) borghese perbenista, la figlia Francine (Geneviève Bender) “divorata dalla vanità” e il figlio Arnaud (François Nocher) un piccolo nazista. Quello che rendeva insopportabile la vita famigliare a Bernard era la convinzione che la moglie stesse recitando una commedia a bella posta, senza alcuna sincerità; quanto ai figli, due estranei di cui aveva quasi disprezzo. Come detto, La discorde viene trasmesso nel 1978; nel racconto Bernard fa ritorno dopo essere stato in Argentina dieci anni: se ne può dedurre che la situazione che aveva indotto l’uomo a lasciare il suo paese fosse quella precedente alla rivoluzione sessantottina. E’ altresì abbastanza evidente una certa somiglianza fisica tra Gelin e Franju, quasi che l’uomo d’affari del film fornisca una sorta di interpretazione autobiografica del regista. In effetti Franju è sempre stato critico con la società borghese e gli spunti di natura sociale sono presenti in molti dei suoi film, soprattutto quelli del periodo migliore. E’ però curioso che la figura maggiormente criticata dal regista, quella del patriarca borghese – La fossa dei disperati (1958) e Occhi senza volto (1960) per citare giusto due titoli – sia qui invece quella che funge da riferimento. Peraltro, per quanto la prospettiva sia quella di Bernard – attraverso la quale arriva la critica di Franju – anche il comportamento dell’uomo non è certo edificante. Lascia i suoi doveri, famigliari e anche professionali, per dieci anni e poi torna come se nulla fosse; mah. Tuttavia questi elementi sono ignorati dal racconto che si focalizza invece sulla trasformazione che Bernard trova al suo ritorno: la moglie è divenuta di sinistra, la figlia un’esperta d’arte rivoluzionaria e conduce una trasmissione radiofonica mentre il figlio una sorta di hippy. In realtà, almeno stando a Bernard/Franju è cambiato il copione ma le persone continuano a recitare: prima andava il credo borghese, ora quello rivoluzionario ma la mancanza di sincerità e autenticità è la medesima. Se Franju avesse continuato a lavorare, avrebbe potuto mettere a referto un ulteriore cambiamento, quando con gli anni 80 la borghesia rampante tornò prepotentemente di moda – trovando proseliti spesso proprio tra coloro la contestavano più ferocemente nel decennio precedente. Restando a La Discorde, si deve riconoscere che l’acume del regista è quindi rimasto intatto; oggettivamente assai meno la sua capacità di tradurlo in una prosa cinematografica davvero efficace.  




Al cinema di Georges Franju Quandolacittàdorme ha dedicato ENIGMA FRANJU - IL CINEMA DI GEORGES FRANJU 




venerdì 21 marzo 2025

IL RICHIAMO DEL LUPO

1640_IL RICHIAMO DEL LUPO . Italia, Spagna, 1975. Regia di Gianfranco Baldanello

Lo specialista in spaghetti-western di serie B, Gianfranco Baldanello si inserisce nella scia aperta da Lucio Fulci con Zanna Bianca [Zanna Bianca, Lucio Fulci, 1973], per tentare di dare la versione cinematografica italiana de Il richiamo della foresta, altro grande romanzo di Jack London. Azzardarsi infatti a dire che Il richiamo del lupo sia la versione su grande schermo del libro del mitico scrittore americano vorrebbe dire affossare sin da subito le ambizioni del film di Baldanello. Che, se preso come film nel suo complesso, è probabilmente da bocciare, per tutta una serie di grossolanità imperdonabili che bastano, e avanzano, come base critica senza scomodare i paragoni con il capolavoro di London. Anche perché la trama de Il richiamo del lupo pesca un po’ a casaccio tra l’intera opera letteraria dello scrittore, perlomeno quella ambientata nel grande nord americano, senza attenersi ad un testo preciso. Certo, il cane si chiama Buck, proprio come il personaggio principale de Il richiamo della foresta, e anche il finale del film di Baldanello si rifà al libro, con il pastore tedesco protagonista che decide di tornare insieme ai lupi e alla vita selvaggia. Ma questi aspetti rientrano pienamente nella libertà di un adattamento che non ha necessariamente l’obbligo di rispettare alla lettera la fonte di ispirazione. I limiti de Il richiamo del lupo sono quelli classici dei western all’italiana di basso livello –superficialità e pressapochismo diffusi in ogni ambito–amplificati dal fatto che il film è dichiaratamente rivolto ad un pubblico di giovanissimi. In questo senso possono essere un elemento chiave i pellerossa che si vedono in scena, soprattutto nella prima parte del film: hanno un ruolo cruciale e tragico, aggrediscono e uccidono, ma, nonostante questo, non incutono particolare timore. 

In sostanza, più che pericolosi guerrieri, sembrano invitati ad una festa di carnevale in maschera, il che lascia intendere che sia stata una scelta stilistica in linea con il target della pellicola. E, se questo in parte può rendere comprensibile una simile sciatteria, il fatto che si possa pensare ai ragazzi come spettatori tanto ingenui, quando si era ormai a metà degli anni 70, rappresenta bene la miopia degli autori del film. In ogni caso, gli spettacolari scenari (Messico e Spagna le location) e la musica classicheggiante in ambito western (Stelvio Cipriani), sorreggono la prima parte del racconto: insieme al loro cane Buck, Jim (Fernando E. Romero), un ragazzino di una decina d’anni, e sua sorella Mary (Elisabetta Virgili), rimasti orfani in mezzo alle montagne innevate dello Yukon ai tempi della corsa all’oro, stanno cercando di andare a Dawson. L’incontro con i fratelli John (Manuel de Blas) e Hank Mckenzie (Remo De Angelis), permette loro di arrivare sani e salvi nella cittadina di frontiera. Qui entrano in gioco gli assi del cast: Jack Palance è William Bates, padre e padrone del paese, e Joan Collins è Sofia Kendall, una cantante da saloon. Da questo punto in poi Il richiamo del lupo è un tipico spaghetti-western dove i buoni –i ragazzini, il cane e il sopravvissuto dei McKenzie, John– si oppongono alla prepotenza di Bates. Sofia, che lavora in un locale di proprietà di Bates, si schiera con i nuovi venuti, intessendo una relazione con l’aitante John. Palanche recita con sufficienza che, tuttavia, non guasta nemmeno troppo, visto che per una canaglia del calibro del suo personaggio, i rivali d’occasione dovevano sembrare poca cosa. Benissimo la Collins che, visto il ruolo, può cambiare abito ad ogni passaggio narrativo sfoderando la proverbiale eleganza scenica. Se tra i pizzi dei vestiti da ballerina è perfettamente calata nel contesto, appare fuori luogo la raffinata pelliccia che indossa quando si avventura alla ricerca di John tra le nevi delle montagne. In ogni caso, le immagini che la vedono sullo schermo, a partire dalla sua entrata in scena con la camicia in pizzo bianco, sono ciò che rende almeno un minimo degno di nota Il richiamo del lupo.  



Joan Collins 


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mercoledì 19 marzo 2025

ALBA DI SANGUE

1639_ALBA DI SANGUE (Crimson Romance). Stati Uniti, 1934. Regia di David Howard

Interessante melodramma che mischia numerosi temi, Alba di sangue di David Howard, conferma la tradizione che vuole i film sull’aviazione della Prima Guerra Mondiale come lavori di solida affidabilità. Il primo argomento che incontriamo, e che attraversa tutto il lungometraggio, è quello dell’amicizia, nello specifico tra due piloti americani, Bob Wilson (Ben Lyon) e Fred von Bergen (James Bush). Siamo nel 1916 e gli Stati Uniti non sono ancora entrati in guerra, cionondimeno gli americani stanno già dando un concreto appoggio all’Intesa e Bob e Fred sono infatti collaudatori in una fabbrica di aeroplani destinati agli alleati. In realtà l’esuberanza di Bob, che è uno scapigliato in ogni sua attività, finisce per mettere ad una prova troppo dura i velivoli e infatti assistiamo ad un tremendo incidente che peraltro vede uscire i nostri eroi incolumi. Ma questo mette sotto osservazione la coppia e a farne le spese è, ironia della sorte, proprio il più morigerato e prudente: Fred, che di cognome come detto fa von Bergen, è di evidenti origini tedesche e nel paese americano si sta rapidamente diffondendo un crescente sentimento antigermanico. Il giovane viene così sollevato dall’incarico e Bob, sdegnato da questa decisione dei suoi dirigenti, si licenzia a sua volta. Inseparabili i due amici cercano un altro impiego ma l’intolleranza verso le persone di origine tedesca è ormai diffusa in tutto il paese e quindi trovano tutte le porte chiuse. La tendenza americana all’intolleranza è quindi messa a referto dal lungometraggio: non è un elemento da sottovalutare perché se è vero che non viene approfondita più di tanto (è più che altro un pretesto narrativo), è però resa in modo esplicito e inequivocabile. Certo nel 1934, né Howard né gli autori del soggetto potevano sapere che la stessa situazione si sarebbe ripetuta, forse in modo anche più drammatico, anni dopo, stavolta nei confronti dei cittadini statunitensi di origine giapponese, dopo l’attacco di Pearl Harbor nel 1941. Tuttavia, pur in quei pochi passaggi, in Alba di sangue questa peculiare intolleranza a comando, tipicamente statunitense, è mostrata nella sua essenziale mancanza di fondamento logico. 

Ha ragione Bob, il cittadino von Bergen è americano tanto e quanto lui; ma, disgustato da come è stato trattato dal suo paese, l’amico deciderà di andare in Germania, anche se questo vorrà dire unirsi al conflitto. Bob, che è un incallito dongiovanni a cui piace fare la bella vita, è il tipico americano (perlomeno nella concezione cinematografica che ne abbiamo) pronto a gettarsi nella mischia per amicizia e decide così di unirsi al socio nel viaggio in Europa. Qui gli aspiranti piloti dell’aviazione tedesca trovano due personaggi di particolare rilievo: il capitano Wolters (il mitico Erich von Stroheim) e, soprattutto, la bella infermiera Alida (Sari Maritza). Von Stroheim si atteggia nel ruolo del tipico ufficiale tedesco intransigente e sospettoso di questo americano che si è arruolato come pilota in un paese che, rispetto al proprio, se non ancora nemico è certamente ostile; dal punto di vista scenico la prestazione dell’attore è un’interpretazione sul velluto. Alida gioca invece, ovviamente, un ruolo più centrale, ponendosi al vertice del triangolo sentimentale tra Bob e Fred. L’americano parte ovviamente a testa bassa, forte della sua esperienza come casanova; Alida, para i colpi con nonchalance e, in un primo momento, gli preferisce l’amico. Ma poi il lavoro continuo e scorretto di Bob sgretola le difese della ragazza e mette in scacco Fred, oltretutto ingessato in una idealizzata venerazione della bella Alida, una strategia ben poco redditizia dal punto di vista sentimentale. L’amicizia tra i baldi giovani, a questo punto, si incrina e, a complicare ulteriormente la cosa, gli Stati Uniti dichiarano guerra alla Germania. Considerando già lo scetticismo del capitano Wolters, è chiaro che la posizione di Bob si fa ora più critica e, proprio una sua assenza mentre era in compagnia di Alida, lo mette in una condizione di essere accusato di viltà se non di tradimento. Nel concitato finale, l’americano è lasciato fuggire dall’amico e i due si ritrovano faccia a faccia nell’ultimo scontro aereo, nel quale Fred si sacrifica contro Wolters per salvare la vita al rivale in amore. Il lieto fine sentimentale, con Alida e Bob, rende onore all’eroismo di Fred ma la regia opportunamente ne sfuma la retorica nel commento pacifista di mamma von Bergen (Bodil Rosing).
Nel complesso, Alba di sangue è un po’ un pastiche di ingredienti, è vero, ma ben dosato. 



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lunedì 17 marzo 2025

PRIVATE PEACEFUL

1638_PRIVATE PEACEFUL . Regno Unito, 2012. Regia di Pat O'Connor

La contraddizione di termini presente nel titolo di Private Peaceful è la più comoda chiave di lettura che possiamo trovare nel film di Pat O’Connor. Private come sostantivo nella lingua inglese indica il soldato semplice; Peaceful, in questo caso nome del militare in questione, significa tranquillo che non sembra esattamente l’appellativo adatto per chi viene mandato a combattere. Ma l’operato così apparentemente scoperto di O’Connor non ci risparmia dalle sorprese, in particolare dallo spiazzante colpo di scena finale che testimonia la bontà del lavoro in fase di sceneggiatura. In effetti Private Peaceful, pur se non è certo un capolavoro, è un film molto ben congegnato e curato nei dettagli in modo tanto raffinato che, nonostante metta in guardia sulla propria contradditoria natura sin dal titolo, riesce nell’impresa di sorprendere lo spettatore ma soprattutto si rivela un testo coerente. Il tema dominante è, come detto, quello della contraddizione, esemplificato, in questo caso, in un soldato che per nome fa pacifico: c’è, quindi, qualcosa di fuori luogo, di sbagliato. E questa distorta prospettiva pervade tutta l’opera di O’Connor: intanto il film si presenta come un racconto sulla Prima Guerra Mondiale ma per una buona metà è una storia di formazione, la vicenda di due fratelli nell’Inghilterra dei primi anni del XX secolo. I fratelli in questione sono Charlie Peaceful (interpretato da Hero Fiennes-Tiffin per il personaggio da ragazzino e Jack O’Connell quando è adulto) e il più giovane Tommo (Samuel Bottomley e George MacKay). Il maggiore dei due Peaceful è il più carismatico e, forse messi sul chi va là vista la contradditoria natura del titolo oltre che da qualche ben dosato indizio nella storia, si può pensare che il protagonista sia invece Tommo. Tommo, insolito diminutivo per Thomas, conferma questa sfocatura generale della storia: Tommy (altre volte Tommy Atkins) era infatti l’appellativo generico che veniva dato al soldato inglese. Il protagonista, oltre ad essere sin dalla prima parte della storia il fratello sbagliato, una volta in guerra, in qualità di soldato inglese, ha anche il soprannome sbagliato. Ma, prima di finire in prima linea, i nostri due ragazzi hanno il tempo di innamorarsi della medesima fanciulla, Molly (interpretata da Izzy Meikle-Small prima e Alexandra Roach poi), che sembra avere una speciale intesa col piccolo Tommo ma finirà, ovviamente, per sposare Charlie. 

C’è spazio anche per le difficoltà nella crescita di Tommo, protetto ma al tempo stesso messo in ombra dal fratello maggiore che, in modo indiretto, causeranno addirittura la morte del padre. Mr Peaceful (Sthepen Kennedy) faceva il guardiacaccia nella tenuta del Colonnello (Richards Griffiths) e la sua morte non giova certo al benessere della famiglia. Questi aspetti sociali della storia sono importanti perché aiutano a comprendere quale fosse l’ambientazione nel paese britannico allo scoppio della guerra. Il generale favore con cui venne accolta la chiamata alle armi fu legato alla propaganda che incitava i giovani all’arruolamento; ma tra i ragazzi erano pochi ad avere una vaga idea di cosa bollisse in pentola. Le sparate bellico/patriottiche del Colonnello si rifacevano a guerre coloniali che nulla avrebbero avuto in comune con un conflitto con un nemico attrezzato tecnicamente come la Germania; ma il Colonnello era un altro personaggio falso, sbagliato, della nostra storia, in quanto si presentava come portavoce della tradizione e dell’ordine costituito ma era solamente un arricchito, un parvenu, avendo raggiunto una posizione agiata grazie ai possedimenti della moglie. In ogni caso, se Tommo decide di arruolarsi quasi subito, quando scorge la possibilità di farsi bello agli occhi dell’amata Molly, Charlie è restio e non tanto per il figlio che la moglie aspetta. 

Le sue perplessità sull’adesione alla Grande Guerra sono di natura politica tanto che il nostro sembra uno dei protagonisti di 1916 Joining Up, il primo film televisivo della serie Days of Hope, trasmesso nel 1975 e di cui la paternità di Ken Loach lascia facilmente intendere orientamento e verve laburista. Probabilmente, visto il tema che si svilupperà poi al fronte e che per altro introduce subito la pellicola, il debito cinematografico maggiore è però nei confronti di Per il Re e per la Patria (1964, di Joseph Losey), altro film piuttosto critico sia con il primo conflitto mondiale che con il modo in cui venne inteso in Inghilterra. In questo senso il film di O’Connor fa una decisa autocritica che non sembra tanto un elogio ai tedeschi in quanto tali ma piuttosto il tentativo di smentire la bieca propaganda vigente all’epoca (in Inghilterra ma anche in Germania e sostanzialmente ovunque) che dipingeva il nemico come essere spregevole. Infatti, l’unico tedesco che si sente parlare in Private Peaceful dice esplicitamente che non sparerà ad un ragazzo, riuscendo cioè a comprendere l’eccesiva giovane età di Tommo seppur questi indossava una maschera antigas. Ci sarebbe da fare il paragone con l’addetto al reclutamento inglese che sospetta la stessa cosa ma glissa ma è più immediato quello con il soldato di sua maestà che sopraggiungendo alle spalle del tedesco, mentre questi sta risparmiando la vita a Tommo, lo uccide senza troppi fronzoli. Insomma, come visto, tutto il racconto filmico di O’Connor arriva allo spiazzante finale procedendo tra contraddizioni, bugie e falsi miti: e naturalmente, la Grande Guerra è il principale. Una macelleria serializzata che di grande aveva solo la mancanza di senso.      


 

sabato 15 marzo 2025

DAYS OF HOPE

1637_DAYS OF HOPE . Regno Unito, 1975. Regia di Ken Loach

Primo episodio di una serie di quattro, Days of hope: 1916 Joining Up, già a partire dalla sua considerevole durata, può essere considerato un vero e proprio film, con una sua propria autonomia. Nei 95 minuti a disposizione il regista Ken Loach si prende il tempo necessario per approfondire le tematiche che va ad affrontare in questa sorta di primo episodio di una panoramica che si estende, per utilizzare le parole della didascalia introduttiva al lungometraggio, dalla Grande Guerra allo Sciopero Generale. Si tratta di eventi che coprono la durata di dieci anni, dal 1916 al 1926: fu una fase della storia britannica molto importante che finì, nel 1927, con il divieto di scioperare per solidarietà verso altri lavoratori. In questo senso vanno intese le parole del titolo della miniserie Giorni di Speranza, in quanto per quel decennio di battaglie sindacali ovviamente gli attivisti si auguravano una conclusione ben diversa per la loro lotta. Gli anni settanta, in cui la serie televisiva Days of hope venne prodotta, erano anni difficili dal punto di vista economico e riprendere moti o ideali di battaglie sociali del passato può essere inteso come un tentativo di ridare slancio alla lotta sindacale, riprendendone le radici. La matrice ideologica di Loach è presto identificabile e, in onestà, permea tutto il racconto filmico: ma questo non impedisce certo una visione che provi ad essere obiettiva e personale del testo dal punto di vista dello spettatore. Lo stile visivo del film è televisivo ma Loach, pur non disponendo dei mezzi propri del cinema autentico, riesce a fare di necessità virtù confezionando un prodotto notevole anche dal punto di vista formale. La messa in scena sembra quindi volutamente dimessa, i dialoghi sono spesso gergali, le inquadrature sobrie e il tutto concorda per un’impressione informale, in sostanza uno stralcio di vita quotidiana della classe media inglese in quei tribolati giorni. E’ un primo capitolo, si è detto, tuttavia Days of hope: 1916 Joining Up si presenta come un lavoro organico e che trova pieno sviluppo anche nel racconto che ci propone. Siamo in un’area rurale dell’Inghilterra, nel 1916 e l’esercito ha bisogno di rincalzi per le truppe al fronte: Philip Hargraves (Nikolas Simmond) è stato chiamato alle armi ma rifiuta di arruolarsi, in quanto socialista e cristiano. La polizia fa irruzione nella fattoria dove vive ma Philip si dilegua: quando rientra ha un bel daffare a spiegare a Tom, suo suocero (Clifford Kershaw ), i motivi che sono alla base dei problemi che sta creando. L’anziano è un uomo risoluto ma, pur non comprendendo le ragioni del genero, gli da 10 sterline con l’unica raccomandazione che si prenda cura di sua figlia Sarah (Pamela Brighton), moglie del giovane. C’è quindi una forma di comprensione, da parte di Tom, verso l’atteggiamento di Philip; suo figlio Ben (Paul Copley) sospetta più semplicemente che il cognato sia un codardo. Le cose precipitano di li a poco: durante una parata militare nel paese, Philip e Sarah, invece di partire per Londra, si sono fermati ad un convegno di pacifisti dove la polizia fa irruzione catturando il giovane che viene sottoposto a processo. Beffardamente la pena comminata a Philip è l’arruolamento e l’invio al fronte. Fuori dall’aula si è nel frattempo assiepata una folla che accusa tutta la famiglia di Philip di essere sostenitori della Germania: Ben finisce coinvolto in una rissa e, per una sorta di ripicca, corre ad arruolarsi nonostante i suoi soli 17 anni. Loach orchestra con calma e precisione lo sviluppo dei fatti, dando modo ai vari elementi di emergere dai dialoghi tra i protagonisti. Philip è un socialista, crede nell’internazionalità della classe operaia e non vede quale vantaggio ci sia ad andare ad uccidere altri lavoratori come lui. Inoltre ha un approccio genuino e privato alla religione cristiana e non può, naturalmente, trovare nelle sacre scritture qualcosa che contraddica i suoi convincimenti. C’è, in quest’ottica, un divertente sberleffo di Loach alla religione come istituzione: alla parata, un sacerdote ribadisce come nella Bibbia ci siano parole che possono essere intese come sprone alla battaglia. Un gregge di pecore è inquadrato dal regista mentre la platea risponde con un amen alla predica del prete. Tornando alla polemica tra Tom e Philip, il suocero aveva argomentato su come l’intervento dell’Inghilterra sia stato reso necessario dall’invasione del Belgio da parte tedesca. Qui Loach esagera, nella sua tesi che è in modo esplicito allineata su quella di Philip, perché, come obiezione, il giovane ricorre al fatto che quella riportata dal suocero sia tutta propaganda bellica. A parte che non è vero che fu solo propaganda in quanto l’Impero Tedesco invase davvero con metodi violenti il povero Belgio, successivamente Loach dà una ben più motivata risposta a questo passaggio. E’ altresì vero che quello citato è un dialogo tra due personaggi e non del punto di vista controfirmato dall’autore ma la prospettiva dell’opera induce a pensarlo: il che finisce per indebolire il discorso di Loach, anziché rafforzarlo. Per contrastare la presunzione che porrebbe l’Inghilterra ad un livello morale superiore alla Germania, nello specifico della Prima Guerra Mondiale, Loach si affida con profitto più redditizio alle vicende che occorrono a Ben dopo l’arruolamento. Il suo reparto, infatti, anziché in Francia, come era logico pensare visto il momento storico, viene spedito in Irlanda, a sedare gli animi dei locali ribelli che si stavano organizzando nell’IRA. 

E’ la sorella Sarah a far notare a Ben come l’Irlanda avesse gli stessi diritti del Belgio nei confronti di una nazione occupante. Philip, intanto, dopo un durissimo trattamento subito durante l’addestramento, che il suo atteggiamento ostile non fa che aggravare, viene spedito al fronte. Ora se continuerà a disobbedire agli ordini, potrà venire fucilato. Il passaggio in cui viene legato ad un palo, fuori dalla trincea, alla mercé del fuoco nemico è stato criticato in quanto non verosimile. Loach ha in seguito ribadito che ebbe conferme anche successive alla realizzazione del film che eventi del genere accaddero e le inesattezze dell’opera gli erano state segnalate per elementi assai marginali come le formazioni durante la marcia o amenità simili. Tuttavia lo stesso regista, nella storia raccontata dal film, non fa finire Philip davanti al plotone, nonostante l’indisciplinato soldato alla fine venga condannato effettivamente alla pena capitale. In questo passaggio il film ricorda un caposaldo del cinema inglese inerente alla Grande Guerra, ovvero Per il Re e per la Patria (1964, di Joseph Losey) con la differenza che, in questo caso, al soldato sotto processo la sentenza di morte venga commutata in dieci anni di carcere. Evidentemente una certa sensazione di estraneità alla Prima Guerra Mondiale da parte del popolo inglese è confermata dall’insistenza su questi temi, meno frequenti in cinematografie di altri paesi coinvolti dall’argomento. Il passaggio migliore dell’opera è però un’altra citazione di un grande classico del cinema dedicato alla Prima Guerra Mondiale. In una fattoria irlandese si è insediato il reparto di Ben; i soldati sono stanchi e hanno voglia di scherzare. La figlia del contadino è una bella ragazza e i giovani la prendono subito di mira, con scherzi anche pesante a cui la poveretta non può sottrarsi. Niente di eccessivamente volgare, sia chiaro, Days of hope: 1916 Joining Up è un prodotto della BBC, la TV di stato inglese. Ma la situazione è chiara: una bella ragazza di un paese occupato viene a trovarsi in mezzo ad un nugolo di militari dell’esercito invasore, non occorre scendere troppo nei dettagli. In ogni caso prima che la situazione degeneri qualcuno la invita a cantare per la truppa. La situazione che va in scena ricalca l’emozionante finale di Orizzonti di Gloria, capolavoro di Stanley Kubrick del 1957. Là la ragazza era tedesca in mezzo a militari francesi, qua è un’irlandese tra gli inglesi; l’emozione è identica. La canzone, una canzone irlandese, oltre che una dolce melodia, è un atto d’accusa che inchioda il Regno Unito alle medesime critiche mosse dagli stessi inglesi ai tedeschi.