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sabato 8 novembre 2025

LA PIU' GRANDE AVVENTURA

1757_LA PIU' GRANDE AVVENTURA (Drums along the Mohawk)Stati Uniti 1939. Regia di John Ford

Per una volta, il titolo originale, Drums along the Mohawk [traduzione letterale, Tamburi lungo il Mohawk] non è poi molto più inerente della versione italiana La più grande avventura. Certo, quello utilizzato nel Belpaese è un titolo molto generico, mentre quello scelto ad Hollywood è assai più specifico. Ma l’essere così calzante alla storia raccontata nel film potrebbe finire, per assurdo, per essere fuorviante; si potrebbe pensare, infatti, che Drums along the Mohawk abbia come obiettivo proprio gli scontri nella vallata del Mohawk River, ai tempi della Guerra d’Indipendenza Americana. Che è quello che poi si vede nel film, intendiamoci, ma La più grande avventura è, in concreto, il manifesto del Sogno Americano al punto che un titolo come The American Dream sarebbe stato probabilmente più azzeccato. Si tratta di una provocazione, naturalmente, perché è del tutto superfluo fare ipotesi su scelte diverse da quelle fatte dagli autori che, di fatto, non sussistono. Tuttavia stupisce la centralità del Sogno Americano nel film e il totale convincimento di Ford in questo ideale quando, in seguito, il regista statunitense si dimostrerà assai più critico con quella che fu, in buona sostanza, una sorta di propaganda ideologica. Ma, evidentemente, nel 1939, durante la realizzazione de La più grande avventura, Ford aveva ancora cieca fiducia che quello che si andava costituendo fosse davvero un grande Paese, che fosse davvero la terra delle libere opportunità come si autoproclamava: l’ideale stava prendendo forma concreta.
Ma torniamo al film e andiamo con ordine. I titoli di testa ci presentano il lungometraggio su tovagliette ricamate a punto a croce, con i caratteri delle parole molto curati nei dettagli e le immagini delle casette coloniche in mezzo ai pini tutt’intorno al fiume. Il che è curioso, essendo La più grande avventura comunque un western, per quanto atipico essendo ambientato in un periodo storico e in un’ambientazione leggermente diversi rispetto ai canoni del genere. Ma si trattava comunque di una storia della Frontiera, con i bianchi a conquistare terre alla natura, per renderle coltivabili e produttive, e gli Indiani a difendere il proprio habitat selvaggio: le basilari coordinate del genere western. 

Ne La più grande avventura la guerra, immancabile risultato di ogni confronto in caso di interessi divergenti tra collettività umane, era tra i coloni americani e la corona britannica, ma il contributo degli indiani, che fu certamente rilevante in ambito storico, è enfatizzato e utilizzato in modo strumentale da Ford. Ne La più grande avventura, il ruolo degli Irochesi leali alla corona, abilmente manovrati da Caldwell (John Carradine), rappresenta ben più che gli interessi dell’Inghilterra. Gli Indiani ostili all’avanzata dei coloni americani incarnano l’asprezza e la durezza di una Terra tanto promessa quando difficile da raggiungere, ma anche l’estrema difesa della Natura all’incombere della Civiltà. Lo scontro tra questi due modi antitetici di concepire il mondo, inteso come luogo in cui si vivesse, era inevitabilmente cruento; e la guerra, il risultato altrettanto inevitabile, era un tema che affascinava maggiormente il pubblico maschile che con ricami all’uncinetto avevano poco a che fare. Questa influenza femminile, se si può definire così, permane anche nell’incipit del film che comincia con il matrimonio tra Lana e Gil Martin: oltretutto nei manifesti dell’epoca il nome di Claudette Colbert, l’attrice che interpreta Lana, è riportato prima di quello di Henry Fonda, il protagonista maschile. Questa impostazione di partenza, porta con sé due significati distinti. Il primo è che la donna è, secondo Ford, la figura centrale della famiglia che è la prima cellula della collettività; pertanto, una società nascente non può che mettere al centro del progetto una figura femminile. A cui fanno riferimento tutti i dettagli «domestici», le tovagliette ricamate, i mobili, le porcellane, i vestiti con pizzi e merletti, che ritornano a più riprese soprattutto nella prima parte del film. Perché nella seconda è progressivamente, o meglio a strappi devastanti, intervenuto l’altro significato che tutta questa chincaglieria ha nell’economia del discorso di Ford sulla nascita della nazione. Sotto i pesanti attacchi dei lealisti e dei loro ferocissimi alleati indiani Irochesi, i coniugi Martin, Lana e Gil, perdono tutto, e come loro anche gli altri coloni del film. Qui veniamo quindi al secondo significato: gli Stati Uniti, per poter nascere, per poter dar corpo al Sogno Americano, si devono spogliare dell’eredità di stampo europeo e non ci si riferisce solo ai beni materiali. Lana, una fanciulla di famiglia facoltosa dell’est, deve essere disposta a fare la donna di servizio presso la fattoria della signora McKlennar (Edna May Oliver), vecchia e arzilla vedova di rango sociale decisamente più modesto ma, in quel frangente, in condizioni economiche certamente migliori. La fattoria dei Martin, infatti, costruita con indicibili fatiche, soprattutto per una giovane ragazza abituata alla vita confortevole nella residenza paterna dell’Est, è finita in fumo grazie ad uno dei raid degli Irochesi. Il fuoco, alimentato a più riprese dagli indiani, rappresenta simbolicamente la prova da superare per i coloni, per i nuovi americani. Gli Irochesi, che lo usano in modo distruttivo, sono anch’essi da annoverare tra le difficoltà che i coloni devono superare e Ford utilizza il contesto storico, in cui alcune di queste tribù rimasero fedeli all’alleanza con gli Inglesi, contro cui gli indipendentisti americani insorsero, per dare forza al suo racconto. 

Ma non c’è, ne La più grande avventura, una deriva razzista o discriminatoria nei confronti dei nativi americani. Innanzitutto va detto che effettivamente gli Irochesi, e in particolare i Mohawk che prevedibilmente vediamo all’opera –essendo il film ambientato nella valle del fiume che deve a loro il nome– erano effettivamente particolarmente bellicosi e feroci sul campo di battaglia. Chiedere agli Uroni o agli Algonchini per conferma. Inoltre, uno dei personaggi più interessanti della pellicola è Falco Blu (o Blue Back, interpretato da Chief John Big Tree) che è un indiano ma, al contempo, un buon cristiano, per usare le sue parole. Il finale celebra la nascita degli Stati Uniti sotto la bandiera a stelle e strisce e, significativamente, prima della coppia di protagonisti Lana e Gil, Ford inquadra l’indiano Falco Blu e la domestica di colore Daisy (Beulah Hall Jones), come a sottolineare la multietnicità del Paese. Considerato l’importanza della posta in palio, il regista sfodera la sua proverbiale capacità di dosare gli ingredienti: ci sono i passaggi drammatici e quelli sentimentali, gli intermezzi umoristici e non mancano, ovviamente in Ford, i momenti musicali della tradizione folcloristica. Tra le scene di maggior rigore simbolico c’è quella della morte del generale Herkimer (Roger Imhof), a cui succede, per contrapposizione, la nascita del figlio di Lana e Gil. Un’altra sequenza emblematicamente fordiana è quella in cui la signora McKlennar resiste sul suo letto all’incursione di due feroci indiani. La donna, addirittura, ordina ai due belluini guerrieri di portala fuori, mentre se ne sta imperterrita seduta sul letto, perché non vuole che questo bruci nel rogo appena appiccato dagli indiani. È, evidentemente, una scena ironica, che alleggerisce la drammaticità della situazione oltre a rimarcare la superiorità morale della vecchia colona rispetto ai selvaggi; ma è anche una situazione al limite del grottesco e solo la sublime capacità narrativa di Ford riesce a mantenerla nei canoni di un plausibile passaggio tragico virato da un’assurda comicità. Un’alchimia mirabile e il regista americano amava utilizzare «ingredienti» che conosceva bene. Non a caso il cast pullula di attori che erano o diverranno negli anni habitué del cinema di Ford: da Fonda a Carradine, a Ward Bond (è Adam Hartman), a Francis Ford, fratello del regista (è Joe Bolero), fino a Russell Simpson (è il dottor Petry). A molti di loro sono deputati questi momenti ibridi, tra dramma e commedia, ad esempio l’Adam di Ward Bond audace e coraggioso tanto nel flirtare con la signora McKlennar quanto in battaglia, oppure il reverendo Rosenkrantz (Arthur Shields), che interrompe la predica durante la funzione per fare la pubblicità all’emporio della zona. Sembra un uomo venale, il prete, ma dimostrerà la sua tempra morale quando si troverà costretto a sparare a sangue freddo a Joe Bolero, prima che gli indiani mandino lo scout arrosto ancora vivo e vegeto. 

In una gestione universale, come quella del cineasta americano, non tutti gli interpreti avevano compiti sfaccettati, ad esempio, ad occuparsi delle gag comiche troviamo Eddie Collins (Christian Reall) che, pur non avendo forse lo status di attore tipico di Ford, aveva comunque già recitato in precedenza in un paio dei suoi film, tra cui Alba di Gloria [Young Mr. Lincoln, 1939]. E, eventualmente per dare equilibrio al bilancio complessivo, anche il Caldwell da John Carradine è un personaggio a tutto tondo, nel suo caso un vero e proprio villain. Il cattivo della storia è ispirato alla figura storica di William Caldwell, un lealista alla corona britannica che combatté nelle file dei Rangers di Butler, di cui anche il personaggio del film indossa la divisa verde. Interessante il modo ironico e intelligente con cui Ford ci informa di come sia passato a miglior vita durante la battaglia, ovvero con l’ennesimo innesto tra il registro drammatico e quello comico. Il passaggio è una vera e propria gag comica, infatti è presentata da Reall, ed è risolta con un’entrata in scena beffarda di Falco Blu, che sfoggia la benda sull’occhio appartenuta a Caldwell. Questi, storicamente, aveva sì combattuto nelle guerre di Frontiera nella valle del Mohawk River, ma non in quella di Oriskany che è uno dei momenti migliori dell’intero film. Ford decise per la verità di non girare le scene di questo scontro e si affida alla sua capacità registica e all’intensità recitativa di Fonda, che interpreta Gil reduce dalla battaglia gravemente ferito. In un primo momento l’uomo sembra quasi dato per morto ma Lana non si arrende e non smette di cercarlo, trovandolo poi accasciato lungo la via del ritorno, sotto un nubifragio notturno. Una volta al riparo, Gil è in grado di raccontare le sorti della battaglia, mentre, poco più in là, al generale Herkimer devono tagliare la gamba ferita e ormai irrecuperabile. Come accennato, il generale non sopravviverà, causa un’emorragia non arrestata; nella realtà storica la morte all’ufficiale fu cagionata da un’infezione e avverrà solo una decina di giorni dopo. Del resto Gil racconta anche di aver vinto la battaglia di Oriskany, per quanto le condizioni delle truppe indipendentiste tornate al forte lascino qualche dubbio, quando storicamente lo scontro è registrato come successo britannico. Ma queste imprecisioni storiche di Ford, ivi compreso la descrizione dei nativi americani, non sono frutto di sciatteria o trascuratezza quanto la necessità di piegare la Storia alle necessità dell’Epica. In seguito, questo sarà comunque vero, perché Ford sentiva il dovere di raccontare la nascita del proprio Paese, tuttavia si farà progressivamente strada un certo rammarico per ciò che, nella conquista del west, era andato perduto. Al contrario, come accennato, ne La più grande avventura c’è ancora completa fiducia nel futuro dell’America. Il film uscì nel novembre del 1939, la Seconda Guerra Mondiale era appena iniziata, gli Stati Uniti non si erano ancora iscritti al conflitto e, di conseguenza, non lo avevano ancora vinto. La vittoria e la conclamazione di leader assoluto del mondo occidentale, era quindi ancora di là da venire: sarebbe stata la consacrazione, a livello geopolitico, del Sogno Americano sbandierato ne La più grande avventura. Ma era solo questione di tempo. Se, dopo oltre un secolo e mezzo, era possibile stilizzare per motivi epici la Questione Indiana, con i morti di Hiroshima, Nagasaki e tutti gli altri tragici teatri di guerra negli occhi, sarebbe stata un’impresa che, con l’andar del tempo, si sarebbe rivelata insostenibile anche per il più patriota dei registi.    

    

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