1758_IL PONTE DEI SENZA PAURA (The Cariboo Trail), Stati Uniti 1950. Regia di Edwin L. Marin
Per una volta, la stranezza del titolo italiano, Il ponte dei senza
paura in luogo dell’originale The Cariboo Trail (traduzione
letterale: la pista del Caribù), non è la cosa più stravagante del film di
Edwin L. Marin o comunque non l’unica. Perché ambientare una storia sulle
montagne della Columbia Britannica e scegliere svariate location di bellezza
mozzafiato per girare utilizzando il processo Cinecolor per la pellicola, è
forse meno comprensibile del bizzarro titolo proposto dai distributori
italiani. Oggi può capitare di vedere un’edizione in bianco e nero del film, forse
anche perché i colori sono effettivamente poco convincenti: il Cinecolor era un
processo cinematografico a due colori sottrattivo ma, al di là degli aspetti
tecnici, si può riassumere dicendo che era una scelta economica. Tuttavia la
scelta di risparmiare sulla qualità delle immagini, in un Northern –un western
ambientato nel nord degli Stati Uniti o nel Canada– è quantomeno discutibile:
gli scenari spettacolari sono uno degli ingredienti principali di questo genere
e in questo modo si sceglie a priori di trovarsi smorzata ogni concreta
velleità di riuscita. Ed è un peccato, perché la storia, sebbene un po’
raffazzonata, è buona, il regista Edwin L. Marin conosce il mestiere e Randolph
Scott, il protagonista, è in grado di portare a casa sempre e comunque il
risultato. Che, infatti, non delude poi troppo: Il ponte dei senza paura
è un onesto western che si guarda con piacere, gestito da Marin in modo
diligente, con il passaggio più forte, tanto per fare un esempio, che arriva
proprio sul finale, come da manuale. Ed è un aspetto importante che la scena
culminante abbia come oggetto il pentimento e la redenzione di Mike (Bill
Williams), amico fraterno del protagonista della storia, Jim Redfern (Randolph
Scott); una redenzione autentica, pagata con il sacrificio massimo, la vita. Il
film è un B-Movie del 1950: la corrente romantica western è ormai alle spalle,
infatti i due personaggi femminili, Francie (Karin Booth) e Jane (Mary Stuart),
non riescono ad incidere più di tanto. Gli anni Cinquanta vedranno il western
divenire l’epica degli Stati Uniti ma, come detto, Il ponte dei senza paura
è ambientato in Canada e, quindi, qualcosa quadra poco, rispetto alle
coordinate tipiche del genere.
Quando Francie vede Jim per la prima volta,
capisce subito che viene dagli States e l’uomo sembra quasi preoccuparsi che
questo non sia visto come un problema: oggi potrebbe sembrare una cosa nemmeno
troppo strana ma, negli anni Cinquanta, l’americano, di norma, era l’eroe ed
era visto come tale. Ma quello alla base del film è un racconto avvelenato. Il
tema centrale del film, infatti, è il rancore che Mike nutre nei confronti dell’amico
Jim, reo di avergli amputato il braccio in seguito ad un grave incidente avuto
con la mandria. È evidente anche a Mike che Jim sia stato costretto a farlo,
per evitargli la cancrena o comunque guai peggiori, ma certo, nel far west,
perdere un braccio non era un fatto semplice da accettare. A giustificare i
sentimenti negativi del malcapitato, c’era poi il fatto che era stato Jim ad
essersi intestardito con la faccenda dei bovini, quando, in origine, l’idea dei
due era di andare in Canada a cercar oro. Ma, a differenza di Mike, a Jim non
importava niente delle ricerche aurifere, che vedeva unicamente come strumento
per metter su un ranch. Beffa ulteriore, la mandria era stata sottratta ai
nostri amici, proprio nell’occasione in cui Mike era finito travolto sotto le
zampe dei bovini lanciati in una folle corsa. Capire chi ci fosse dietro alla
razzia non era poi difficile: gli uomini di Frank Walsh (Victor Jory) non
avevano certo apprezzato lo scherzetto che Jim e Mike avevano tirato loro sul
ponte che dava il titolo alla versione italiana del film. Walsh, che come la
maggior parte dei personaggi interpretati da Victor Jory è un bell’esemplare di
cattivo, è il classico boss del paesino del Far West, padrone di quasi tutte le
attività del centro urbano. E, per dare adeguato benvenuto ai viandanti, chiede
un salato pedaggio per attraversare uno sgangherato ponticello: che Jim e Mike
si guardano bene dal pagare cominciando col piede giusto i rapporti con lo
stesso Walsh. Uno canovaccio abbastanza consolidato, nel cinema western, anche
se poi la perdita del braccio da parte di Mike getta una luce piuttosto cupa su
tutto quanto il racconto. Ad alleggerirla ci pensano le due spalle comiche,
Ling (Lee Tung Foo) e «Orso» (George «Gabby» Hayes), al punto che la traccia umoristica
supera di gran lunga quella romantica come supporto alla vicenda avventurosa.
Ling è il cuoco tuttofare della carovana, quella coi buoi guidata da Jim e Mike,
ma si adegua alla bisogna e si contraddistingue per correggere costantemente
gli altri nei dialoghi del film, con effetto umoristico funzionale al contesto.
Orso, che nell’originale è chiamato Grizzly e si accompagna ad un asino di nome
Annibale, è interpretato da George «Gabby» Hayes, una vera leggenda che, nell’universo
western, rivaleggia, nel ruolo del vecchietto un po’ rincoglionito ma ancora
valido, nientemeno che con Walter Brennan. Il ponte dei senza paura è
l’ultimo film per Hayes, a volte conosciuto come Gabby Whitaker, un
caratterista famosissimo ai tempi, come testimonia, per esempio, il personaggio
di Doppio Rhum nella serie del nostrano fumetto Capitan Miki. Il film non
brilla per originalità, tuttavia, sorprende un po’ vedere come, quando si era
già negli anni Cinquanta, venissero trattati gli Indiani. I Piedi Neri di White
Buffalo (Fred Libby) sono tratteggiati sbrigativamente come gente violenta, dal
momento che cercano subito di uccidere Jim, Ling e Orso. Il fatto che questi
non solo si addentrino deliberatamente in Territorio Indiano ma che mettano gli
occhi su quel paradiso nascosto è considerato, dalla prospettiva del film, come
legittimo. In questo senso gli Indiani sono unicamente un ostacolo da eliminare
per arrivare alla Terra Promessa, riferimento che si intuisce dal lirismo dalle
panoramiche sulle vallate, nonostante le immagini in Cinecolor non rendano
giustizia a Madre Natura. E questa può essere l’efficace metafora che si può
trarre da Il ponte dei senza paura in ottica della Questione Indiana: ai
Piedi Neri va infatti anche peggio dei panorami dai colori sbiaditi che tanto
incantano Randolph Scott.





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