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lunedì 17 giugno 2024

L'UOMO CHE HO UCCISO

1499_L'UOMO CHE HO UCCISO (Broken Lullaby). Stati Uniti,  1932; Regia di Ernst Lubitsch.

In genere poco considerato nella filmografia del grande Ernst Lubitsch, L’uomo che ho ucciso è, al contrario, un piccolo gioiello. Certo, non è una di quelle commedie sofisticate che hanno reso celebre il maestro nato a Berlino ma, se per avere conferma dell’artistica paternità dell’opera, si cercasse il famoso Lubitsch’s touch (il tocco di Lubitsch, la sua firma caratteristica) lo si troverà immancabilmente anche ne L’uomo che ho ucciso. Ma andiamo con ordine perché al regista bastano dieci minuti per ribaltare completamente la tipica prospettiva non solo del cinema di guerra ma del concetto stesso di guerra. Il film comincia significativamente all’anniversario della fine della guerra, il giorno della pace, celebrata con manifestazioni di stampo bellico: truppe inquadrate in marcia sotto l’Arco di Trionfo, a Parigi, salve di cannone sparate a go go, il tutto in pompa magna e senza alcun rispetto per i mutilati di un ospedale scossi dai rumori che ricordano il conflitto finito da poco. Poi ci si trasferisce in chiesa, per una celebrazione degli eventi più sobria e religiosa. La regia di Lubitsch indugia sui particolari che denunciano apertamente la marzialità dei presenti anche in questa intima occasione: le spade allineate, gli stivali lucidi, la presenza delle pistole al fianco degli ufficiali. E poi, quando la funzione è finita, l’ordine e la disciplina dei presenti ricorda un rompete le righe di un plotone d’eccellenza. I militari, anche in tempo di pace e perfino in chiesa, sono e rimangono militari. Ora la chiesa è vuota; anzi no. C’è un disperato che si inginocchia tra le panche a tal punto che si scorgono solo le mani giunte. E’ Paul Renard (Phillips Holmes), l’unico che sembra essere davvero turbato nel profondo, nella coscienza. Certo, anche gli altri potranno essere rimasti scossi, dalla violenza della guerra, da quanto vissuto e provato. Ma Lubitsch, tramite Paul, ci mostra come sarebbe logico si comportasse un uomo davvero colpito nella propria anima. 

Il giovane, infatti, vuole confessare il suo crimine, l’aver ucciso un uomo. Il prete accetta ben volentieri di confessare il giovanotto e, quando scopre che si tratta di un’uccisione sul campo di battaglia, cerca di tranquillizzarlo. “Hai fatto solo il tuo dovere”: ascoltando queste parole, per altro abbastanza scontate, questa volta proviamo anche noi un brivido. Perfino il prete, il ministro di Dio, si è lasciato convincere dalla propaganda bellica che il fatto di uccidere sia una cosa legittima. Ma non lo è, non lo è mai e se ci si macchia di un crimine come la deliberata uccisione di un altro essere umano dovremmo patire i tormenti di Paul. Il quale nella vita borghese è però un musicista, un artista, e forse per questo riesce ad inquadrare la cosa nella giusta prospettiva. Cosa che sembra non così agevole per il sacerdote, che cerca ancora di sminuire il fatto: e infatti non sarà lui a dare la risposta che Paul cerca coi suoi interrogativi. Il giovane la troverà piuttosto in un affresco sul muro della chiesa. E’ l’arte, il verbo; alla religione, rappresentata dal prete, non rimane che accodarsi una volta che l’uomo si è placato avendo trovato la via che cercava. Lubitsch, e qui possiamo notare uno dei suoi tocchi, non infierisce sul sacerdote e, svelatone l’inadeguatezza, lo congeda in modo indulgente. 

Ispirato dalla compassione del volto della Madonna ritratto sull’affresco, una compassione che le permise di perdonare gli assassini del figlio, Paul decide così di andare dalla madre del soldato tedesco che ha ucciso al fronte, per chiederle perdono. Naturalmente la trama, che ha una solidissima base essendo un dramma teatrale poi adattato al cinema da Ernest Vajda e Samson Raphaelson, ha tutti gli snodi e gli intrecci per portare Paul direttamente alla casa di Valter, il giovane che aveva ammazzato in guerra. Il punto è: Paul vuole confessare alla donna (e ai suoi famigliari) di essere l’assassino del figlio e chiederle perdono. In coscienza, quello che dovrebbero fare tutte le persone che hanno ucciso qualcuno; anche i soldati, anche durante le guerre. Non ci sono attenuanti sufficienti per scontarsi questa penitenza: andare a chiedere perdono alla madre di colui che hai ucciso. Lubitsch, quindi, riesce a mostrare l’enormità della tragedia della guerra non andando a indagare sui grandi numeri, ma concentrandosi sul particolare, sul caso singolo, perché già il caso singolo è un’enormità. Il rapporto con quello che è successo nel complesso, il caso singolo moltiplicato per tutti i casi di una guerra come la Grande Guerra, il maestro lascia che siano gli spettatori a farlo. Ma, e qui sta il Lubitsch’s touch, Paul non riuscirà nella sua confessione. 

Dopo la brusca accoglienza avuta dal padre di Valter, il dottor Holderlin (Lionell Barrymore), Paul è ben accettato dalla madre (Luise Carter) e dalla fidanzata ‘vedova’ del giovane, Elsa (Nancy Carroll). La ragazza ha infatti visto Paul portare fiori sulla tomba di Valter e si genera un equivoco in quanto le donne pensano che il francese sia un amico parigino del loro caduto. Lì per lì Paul non trova il coraggio di smentirle anche perché, a quel punto, il dottor Holderlin cambia atteggiamento prendendolo in simpatia. Addirittura, il dottore, inizialmente mostrato come colmo d’odio per quei francesi che gli avevano ucciso il figlio, sarà protagonista di un’arringa in cui accuserà i vecchi compagni della birreria, rei di essere corresponsabili, come lui, della guerra, con il loro ottuso odio verso lo straniero. Intanto Paul soffre perché vorrebbe confessare ma ogni minuto che passa l’equivoco si ingigantisce e la cosa diventa sempre più difficile. Ormai è di casa, presso gli Holderlin: i vecchi hanno trovato un nuovo figlio, Elsa quasi un nuovo fidanzato. Qui, narrativamente, per consuetudine, è previsto che il bubbone esploda, che Paul riveli il vero stato delle cose e poi si cerchi di far accettare ai personaggi la situazione. Con un’enorme amarezza per il dottore e la moglie, che si troverebbero in casa colui che ne ha ucciso il figlio; una situazione non semplice nemmeno per Elsa. Ma Lubitsch, autore abituato a frizzanti commedie piene di belle donnine, sa che è proprio ad una ragazza delle sue, la esile e bella Elsa, a cui si può chiedere un enorme sacrificio con la certezza che l’operazione abbia successo. Così il Lubitsch’s touch si concretizza nello sfasamento tra la verità assoluta (Paul ha ucciso Valter) e la verità d’intenti (Paul che si reca fino in Germania per confessare il delitto). E proprio in quella sospensione tra le due verità, una sospensione resa possibile e alimentata da una parte dalla coscienza del giovane francese (il viaggio fino in Germania) e dall’altra dalla determinazione di Elsa (ad impedirgli di confessare il fatto agli Hordelin per non ferirli, sopportando lei sola la conoscenza del tragico segreto di Paul), c’è tutta la magia del cinema del grande maestro. Oltre che una lezione da mandare a memoria.   


Nancy Carroll 




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2 commenti:

  1. chissà perchè, così, a naso, mi sembra proprio un bel film ;)

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  2. E beh, Alessandro, non serve nemmeno il naso. Lubitsch ha fatto solo bei film. Un vero maestro.

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