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giovedì 25 gennaio 2024

PRIMA LINEA

1427_PRIMA LINEA (Attack!). Stati Uniti 1956; Regia di Robert Aldrich.

In un film bellico ci si aspetterebbe una battaglia tra i nostri e i nemici; in fondo è quella la guerra in oggetto al lungometraggio, uno scontro armato tra due eserciti avversari. Con Prima Linea il regista Robert Aldrich scombina un po’ le carte, e presenta una storia ambientata si in Europa nel 1944, (per la precisione nella zona delle Ardenne), e quindi nel bel mezzo del fronte europeo occidentale della Seconda Guerra Mondiale, ma il conflitto tra gli americani protagonisti del film e i tedeschi, rimane un po’ sullo sfondo. La vera guerra, il vero scontro, è tutto interno alle truppe americane, ed è originato dalle logiche opportunistiche che determinano le gerarchie di comando. Il punto cruciale è che il capitano Cooney (Eddie Albert) è un codardo incompetente e raccomandato, e con la sua viltà causa la morte di una quindicina di uomini, abbandonati al fuoco nemico. Il tenente Costa (un allucinato ma eroico Jack Palance), il valoroso ufficiale che ha visto decimato i suoi uomini, se lo vorrebbe mangiare vivo, ma si limita a minacciarlo apertamente di morte. Il che è un fatto inaudito in un film di guerra degli anni 50. Il tenente Woodruff (William Smithers) è anch’esso convinto che Cooney sia inadeguato, cosa del resto palese e condivisa da tutta la truppa, ma è assai più moderato e ligio al regolamento, e si limita a cercare di fare destituire il suo superiore. Così ne parla al tenente colonnello Bartley (il sempre valido e ambiguo Lee Marvin), che però è amico dell’influente padre di Cooney, e per la sua carriera necessita che il capitano non venga screditato. Così per l’arrivismo di Bartlett e la vigliaccheria di Cooney ci vanno di mezzo i poveri militari, che vengono spediti al macello senza troppi patemi d’animo. Il film è girato con uno stile minimalista da Aldrich, che si limita ad un’opera secca e senza fronzoli, con scene di battaglia crude e realistiche, magari non eccessivamente spettacolari ma di sicura efficacia. Il regista statunitense costruisce tutta la storia per arrivare alla scena madre finale, una resa dei conti che vede Cooney affrontato da un delirante Costa in un primo momento, a cui subentra anche Woodruff, costretto, dalle circostanze, a prendere una drastica decisione. Cooney vuole vigliaccamente arrendersi, nonostante sappia che le SS non facciano prigionieri, e inoltre uno degli americani sopravvissuti è di origine ebrea, e quindi passerebbe guai poco raccomandabili in mano agli aguzzini tedeschi. Alla fine sarà proprio il moderato Woodruff a portare a termine la minaccia paventata da Costa; ma uccidere un superiore non è un fatto che può lasciar in pace la coscienza di un uomo corretto come il tenente. Gli uomini della truppa, per cercare di smorzare i sensi di colpa dell’ufficiale, arrivano a sparare al cadavere del capitano Cooney, cercando di convincere Woodruff che non può sentirsi l’unico colpevole, in quanto il superiore avrebbe anche potuto essere ancora vivo, seppure moribondo. E’ un passaggio un po’ forte, perché l’accanimento di sparare ripetutamente su un cadavere ha un che di blasfemo, di oltraggioso, anche in guerra. Poi arriva il tenente colonnello Bartley, che prova a sistemare opportunisticamente tutto, decorando con una medaglia al valore i caduti Cooney e Costa, e promuovendo sul campo Woodruff. Soluzione di cui trarrebbe i maggiori benefici: per la sua compagnia un’operazione militare conclusa con successo, due ufficiali decorati e uno promosso sul campo. Sembra un bel colpo, per la carriera militare del tenente colonnello.
Coscienza di Woodruff permettendo.
E la telefonata del tenente al generale che chiude la pellicola, ci dice che non sembra dell’idea.   
 








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