1738_BALLA COI LUPI (Dances of the Wolves), Stati Uniti 1990. Regia di Kevin Costner
La musica meravigliosa di John Barry ci ha già fatto venire la pelle d’oca alta due centimetri, quando Balla coi Lupi, quello che un tempo era il tenente Dunbar (Kevin Costner, regista e protagonista del film) ha già avuto un commovente commiato con Uccello Scalciante (Grahame Greene) e, a cavallo, si avvia a lasciare il campo invernale dei Sioux Lakota. Al suo fianco, c’è Alzata con Pugno (Mary McDonnell): la coppia procede lentamente sotto lo sguardo muto della tribù e, forse solo ora, ci si rende conto di quanto possa essere profondamente malinconica la citata musica di Barry, ma per le emozioni siamo solo al preludio di un finale che difficilmente trova paragoni nella Storia del Cinema. All’improvviso risuona una voce, lontana ma potente: Sunkmànitu Thànka okcela!: ormai, dopo quasi quattro ore di film, abbiamo imparato che è la traduzione lakota di Balla coi Lupi, il nome del protagonista del film. La coppia a cavallo si ferma e un po’ tutti quanti, nel villaggio, si guardano intorno, per localizzare da dove provenga la voce. In cima ad una rupe c’è un cavaliere ormai ben noto agli spettatori del film: “Io sono Vento nei Capelli. Riesci a vedere che io sono tuo amico? Riesci a vedere che sarai sempre mio amico?”. A meno di essere delle mummie imbalsamate, la commozione al massimo grado è garantita e Costner è poi bravo, costantemente sorretto dall’eccezionale musica, a trovare la chiusa per il suo capolavoro lasciando defluire lentamente i sentimenti. Alla fine dei titoli di coda, una fredda didascalia ci informa sul tragico destino dei fieri Sioux e ci riporta quindi alla grigia realtà, in modo tanto brusco quanto necessario. Perché il rischio, guardando Balla coi Lupi, è che lo si intenda come una sorta di sterile agiografica epica degli indiani –i Sioux Lakota, nello specifico– buona per emozionarsi un po’ e sentirsi migliori, moderni, rispettosi delle altre culture, per poter poi tornare ai propri affari esattamente come prima. Del resto l’anno di uscita del film, il 1990, è appena dopo al culmine dell’opportunismo borghese che, nel decennio precedente, aveva trovato l’apogeo e si stava quindi aggiornando con i canoni di un più moderno Politicamente Corretto che desse meno fastidio alle coscienze.
Questo aspetto è cruciale perché sarebbe beffardo per i nativi americani divenire lo strumento del momento di quell’ideologia borghese in nome della quale furono cancellati dalla faccia della Terra. Ma, al di là di ciò, va considerato come la scelta tempistica di Costner, nel voler produrre il suo film in quel frangente storico, sia stata sorprendente. Gli anni Ottanta avevano sancito la morte del genere western, esempi pur notevoli come Il Cavaliere Pallido [Pale Rider, Clint Eastwood, 1985] e Silverado [Lawrence Kasdan, 1985], non sono che mere eccezioni alla regola. Oltretutto, nei rari casi in cui qualche autore si avvicinava ai temi del vecchio west, non lo faceva prendendo in considerazione gli Indiani, soggetto narrativo che non aveva superato la fine del decennio precedente. D’accordo, nel 1981 era uscito l’atipico e interessante Correva nel vento [Windwalker, Kieth Merrill, 1981], una vicenda fantastica ambientata tra i nativi americani prima dell’arrivo dell’uomo bianco, ma successivamente l’interesse del cinema, già sotto il livello di guardia per il western, risultava praticamente assente per la Questione Indiana. Tutto questo non c’entra, naturalmente, con Balla coi Lupi, ma è indispensabile per comprendere la spiazzante e imprevedibile idea di girare un film quasi interamente tra i Sioux nel 1990. La genialità della scelta di Costner fu legata al suo senso di giustizia, alla volontà di rendere omaggio alla cultura dei nativi americani ma, probabilmente, l’elemento che decretò l’enorme successo del suo film fu legato ad elementi contingenti. Movimenti come la New Age erano in quegli anni in pieno fermento ed erano anche strettamente connessi con culture spirituali come quelle dei primitivi abitanti del Nuovo Mondo.
Nel 1987, ad esempio, ci fu chi colse una correlazione tra la firma tra USA e URSS dei primi accordi di pace che portarono alla fine della Guerra Fredda e una profezia degli indiani Hopi che aveva previsto per quell’anno la nascita del Bisonte Bianco e una nuova consapevolezza da parte dell’Umanità. Insomma, tutta la cultura hippy degli anni Sessanta e Settanta aveva covato sotto le ceneri nel successivo decennio pneumatico –nel senso di vuoto– ed era ormai pronta ad esplodere nuovamente. Cinematograficamente, Costner arrivò coi tempi non solo giusti, ma giustissimi, e con Balla coi Lupi sbancò qualsiasi tipo di botteghino: incassi alle stelle, pieni consensi della critica, premi e riconoscimenti a pioggia, valgano per tutti i sette Oscar. Vale la pena di vedere nel dettaglio questi Academy Awards, perché in pratica vennero premiati tutti gli aspetti cruciali di una pellicola: Miglior film, Miglior Regia, Miglior Sceneggiatura non originale, Miglior Montaggio, Miglior Fotografia, Miglior Sonoro e Miglior Colonna Sonora Drammatica. Un vero trionfo, insomma. Meritato: le scene sono grandiose, le immagini meravigliose, da un punto di vista visivo Balla coi Lupi è un vero spettacolo. Ma c’è molto altro di meritevole nell’opera prima del regista Kevin Costner.
E vediamo quindi cosa. L’incipit del film è dedicato alla Guerra Civile Americana, quella che da noi è nota come Guerra di Secessione: al tenente Dunbar, ferito gravemente ad un piede, prospettano di volerglielo amputare. Il giovane, che appare disperato e spaesato quanto il suo Paese lacerato da anni di guerra fratricida, rifiuta di sopravvivere come uno storpio e, preso uno splendido cavallo sauro, si getta oltre la barricata dei suoi commilitoni, con evidenti intenti suicidi. Dopo un paio di scorribande al galoppo in quella che nella Prima Guerra Mondiale verrà battezzata «terra di nessuno», ovvero il fatale spazio tra i due schieramenti contrapposti, Dunbar si ferma per un attimo e, prima di provare l’ultima carica, apre le braccia al nemico assumendo una posizione cristologica. La sua audace manovra ha però un effetto imprevisto: i nordisti partono alla carica e rifilano al nemico la spallata decisiva, la battaglia è vinta. Alla fine, Dunbar diviene l’eroe del giorno: il piede viene curato dal medico personale del generale, gli viene lasciato Cisco, lo splendido sauro e potrà infine scegliersi la destinazione dove prestare servizio. È così che il buon tenente decide di andare a vedere la Frontiera prima che scompaia e finisce all’avamposto Fort Sedgwick, il più remoto e sperduto presidio militare a ridosso delle terre dei Sioux. Il protagonista è quindi una figura salvifica, una sorta di Cristo disposto a sacrificarsi per gli altri: nella battaglia coi sudisti, in una questione tra bianchi, la cosa ha anche funzionato.
Il confronto con gli Indiani, per quanto si rivelerà prezioso e fondamentale per la sua crescita, non avrà identici risultati per i nativi, dal momento che nemmeno Balla coi Lupi può cambiare il loro tragico Destino. In qualche caso, nel tempo, c’è stato chi ha criticato il film di Costner, ad esempio il regista blackfeet George Budreau <Aleiss Angela, (2005) Making the white man’s Indian, Westport, Connecticut/Londra, Praeger pag. 165, da Wikipedia in lingua inglese, alla voce Dances with Wolfes, pagina web https://en.wikipedia.org/wiki/Dances_With_Wolves > perché, in definitiva, il film mantiene il punto di vista degli invasori bianchi. In effetti è una critica un po’ fuori luogo perché pare evidente che i protagonisti siano i due bianchi del villaggio indiano, e viene anche detto esplicitamente in uno dei dialoghi del film, dal personaggio di Scialle Nero (Tantoo Cardinal), la saggia squaw di Uccello Scalciante. Il tenente Dunbar, che nel film si spoglia progressivamente delle sue vesti militari, e quindi di uomo bianco, per divenire il Sioux Balla coi Lupi, guadagna, grazie all’apprendimento della cultura dei nativi, una chiave salvifica meno autodistruttiva. Non cerca il suicidio, come nella battaglia coi sudisti, ma piuttosto prova a fondare una sua famiglia, anche se per farlo deve spingersi ancora più a ovest. Non è un caso che la donna che si scelga sia Alzata con Pugno, che è bianca quanto lui e che, prima di lui, sia divenuta un’indiana: solo recuperando i valori dell’armonia con la Natura, peculiari della cultura dei nativi, è possibile considerare di avere una flebile speranza. Flebile perché si è detto che il finale è tra le cose più struggenti mai viste al cinema e, quindi, non è che si possa parlare di chiusura ottimistica. Nonostante il film sia ambientato nel XIX secolo, come tutti i lavori artistici, ci parla anche del presente e per i nativi, in buona sostanza, il presente non esiste ormai da un pezzo. Tuttavia, agli arbori degli anni 90 la globalizzazione non aveva ancora rivelato la sua vera natura, e la speranza che fosse possibile una pacifica convivenza tra le varie culture che abitano il mondo era anzi ad uno dei suoi punti migliori.
Costner sembra dirci che, se recuperiamo i citati valori di vita in armonia con il creato, un futuro di pace è ancora possibile; dovunque sia questo luogo, non è l’America nata con la conquista del west, visto che Balla coi Lupi e Alzata con Pugno sono costretti a fuggire da essa e a vivere in latitanza. Per gli Indiani è invece lampante, anche in Balla coi Lupi, che non ci sia speranza, del resto la Questione Indiana da un punto di vista pratico era stata chiusa a suo tempo e quello che rimaneva aperto era solo l’aspetto morale. Saldare questo debito, rendere il giusto tributo agli Indiani d’America, è lo scopo dichiarato di Balla coi Lupi, un compito che, anche e soprattutto per l’onestà intellettuale di mantenere una prospettiva bianca sulle vicende, è pienamente riuscito. L’approccio morale di Costner è eccezionale e, probabilmente, proprio il suo fare appello a questi aspetti etici della Questione Indiana rendono possibile il suo capolavoro: non sembra, onestamente, l’esordiente Costner un regista in grado di compiere una simile impresa da un punto di vista cinematografico. La sua statura di uomo di coscienza, di uomo giusto, gliela rende possibile e questo è un merito certamente superiore ad eventuali doti artistiche che Costner, eventualmente, saprà confermare, o meglio rivelare, nel proseguo della carriera di regista. Tecnicamente, Balla coi Lupi non ha una struttura narrativa forte; anzi non ce l’ha. Il film è basato sullo sviluppo dei rapporti tra il tenente Dunbar e i Sioux, in primo luogo Uccello Scalciante, lo sciamano, Vento nei Capelli, un capo dei guerrieri, e Alzata con Pugno, la squaw bianca.
Ma i personaggi interessanti sono tanti, basti dire che tra questi, hanno un ruolo decisivo anche gli animali: il cavallo Cisco, che i nativi provano a rubare ma rispettano mentre i bianchi, al contrario, non si fanno pregare a prenderlo a fucilate, così come faranno con il povero Due Calzini, il lupo con cui Dunbar aveva stretto amicizia e al cui rapporto deve appunto il suo nome indiano. Naturalmente la maggior parte dei personaggi interessanti è tra i Sioux e, tra questi, si possono ricordare almeno la già citata Scialle Nero, la moglie di Uccello Scalciante, Dieci Orsi (Floyd «Red Crow» Westermann), il saggio e ironico capotribù e il simpatico Ride coi Denti (Nathan Lee Chasing), il più sveglio dei ragazzi del campo. Se Uccello Scalciante si dimostra subito interessato ad una conoscenza approfondita con il giovane tenente, anche per ghermire qualche informazione sull’arrivo di nuovi bianchi nella zona, Vento nei Capelli è decisamente scontroso e ostile nei confronti dell’intruso. A proposito dei primi tumultuosi approcci, come accennato i Sioux, provano anche in un paio di riprese a rubare il sauro di Dunbar, un cavallo effettivamente bellissimo, ma la personalità dell’animale e il suo carattere indomito manda a monte i piani degli Indiani. In uno di questi tentativi di furto c’è una sequenza ironica con Dunbar che, nella fretta di uscire dalla capanna, colpisce con la testa lo stipite della porta, rimanendo stordito a terra mentre Cisco si cava da solo dai guai. La vena umoristica percorre tutto il lungometraggio, emergendo di tanto in tanto per alleggerire la tensione o per smuovere un po’ una trama che, di fatto, non ha connessioni che si inneschino con il racconto. Per alimentare la narrazione ci sono anche gli omaggi al cinema western, dalla rasatura del tenente che richiama uno dei passaggi più teneri in Corvo Rosso non avrai il mio scalpo [Jeremiah Johnson, Sydney Pollack, 1972] alle siluette dei cavalieri sul crinale di Soldati a cavallo [The Horse Soldiers, John Ford, 1959], ai peti di Timmons (Robert Pastorelli) a rappresentare le volgarità tipiche delle derive tarde come gli Spaghetti-Western. L’idea di rinnegare una narrazione forte è resa esplicita da alcuni passaggi che, guarda caso, coinvolgono i bianchi; questo permetterà a Costner e Michael Blake, autore del romanzo preso a soggetto e della sceneggiatura, di utilizzare sottilmente questo elemento con significato secondario nient’affatto banale. Quando Dunbar arriva nell’Ovest, a Fort Hays, prima di venire spedito all’avamposto Fort Sedgwick, assiste ai folli atteggiamenti del comandante del presidio, il maggiore Fambrough (Maury Chaykin). Appena il tenente lascia il Forte, accompagnato da Timmons, il maggiore si suicida con un colpo di pistola alla tempia. Al netto di tutte le considerazioni, Balla coi Lupi è un Western prodotto negli Stati Uniti e, di conseguenza, un tipico prodotto Hollywoodiano: al cinema americano, una scena del genere deve avere una conseguenza, spesso direttamente nella trama. Non sarà però questo il caso. Quando Dumbar arriva finalmente all’avamposto, trova una situazione altrettanto misteriosa: il forte è deserto, in condizioni disastrate e pare che i soldati abbiano vissuto dentro alcune caverne scavate lungo le rive fangose del fiume. Nel quale sono state lasciate a marciare alcune carcasse di cervi precedentemente abbattuti a colpi di arma da fuoco.
Un enigma che è tale anche per lo spettatore, che ha assistito ad alcuni incomprensibili passaggi narrativi con la vecchia guarnigione del forte ammutinata al suo comandante. Se l’ostilità dell’ambiente può giustificare la perdita della ragione di questi individui, non si spiega la questione delle bestie morte lasciate nell’acqua, un dettaglio che tornerà sibillino in seguito, durante un’esplorazione di Balla coi Lupi insieme a Uccello Scalciante. Il tenente, in principio, è preoccupato da questi fatti inspiegabili, poi semplicemente se ne scorda: qualunque siano i misteri di Fort Sedgwick e delle altre stranezze, non hanno alcun valore rispetto alla Questione Indiana. Una curiosa scelta narrativa, presentare bizzarre tracce di intreccio poi volutamente ignorate, che lascia indirettamente una precisa impressione. A fronte dell’armonia dei Sioux, i «washicu», nome in lingua lakota degli invasori bianchi, con i loro incomprensibili comportamenti, appaiono completamente pazzi. In effetti è questa l’impressione che spesso i nativi avevano degli invasori di origine europea, che faticavano quasi sempre a comprendere. La riscoperta di valori più vicini alla Natura, alla vita in armonia con essa, avrebbe dovuto sortire forse lo stesso effetto, secondo Costner e, in effetti, dopo la sbornia degli anni 80, nel mondo occidentale si provò ad avere un approccio più serio all’esistenza. Ma fu vera gloria? Oppure, come le correnti New Age, anche questi fragili propositi sono naufragati alla prova del tempo, rivelandosi unicamente una nuova veste per l’ipocrisia borghese? Queste sono, naturalmente, domande retoriche. Finché c’è stata una Frontiera, qualunque forma gli si voglia dare, questa ci ha permesso di cullare la speranza di sfuggire alla civilizzazione, al capitalismo, alla globalizzazione, al politicamente corretto, a tutte le forme di folle omologazione che la nostra società produce a getto continuo. Balla coi Lupi e Alzata con Pugno avevano ancora un posto dove cercare di fuggire e, nel 1990, Costner poteva fingere ci fosse qualche ambito dell’esistenza in cui rifugiarsi. Oggi sappiamo che quel posto non esiste più e non ci rimane che gridare al cielo, anche se non necessariamente un urlo di rabbia. Un grido di dolore e rimpianto. Questo è il senso oggi di Balla coi Lupi e questo è il perché il suo vero protagonista è Vento nei Capelli.
Mary McDonnell
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