1617_PER LA PATRIA (J'accuse). Francia1919. Regia di Abel Gange
Opera monumentale in tre parti, per un totale di 266
minuti, Per la Patria di Abel Gange è un caposaldo del cinema
antimilitarista ma, allo stesso tempo, di quello bellico. Perché è certamente
esplicita la visione di forte critica alla guerra e a tutti i suoi fautori
(emblematico il titolo originale, J’accuse, io accuso) ma l’utilizzo di
vere scene del conflitto, tutto sommato ben amalgamate con il racconto filmico,
in un’opera del 1919, contribuì in modo importante all’idea visiva che abbiamo
ancora oggi della Grande Guerra. La guerra di trincea e la desolata
terra di nessuno, sono ancora oggi i concetti che affiorano per primi quando si
parla della Prima Guerra Mondiale. Sono certamente elementi scenici
molto peculiari e di grande impatto e Per la Patria fu appunto tra i
primi film a mostrare queste immagini al grande pubblico. Perché la robusta
storia d’amore che si intreccia sullo sfondo storico del conflitto mondiale
rese il film di Gange appetibile ad una vasta platea. L’importanza della
protagonista femminile, Edith (Maryse Dauvray), vero perno su cui ruota
l’opera, era un’intuizione notevole e originale visto che, in buona sostanza,
quello bellico sarebbe in seguito divenuto in modo più naturale (o culturale?)
un genere maschile. La ragazza è l’epicentro del lungometraggio: è moglie,
amante, madre, figlia, e in tutti questi ruoli la guerra ha su di lei un peso
decisivo, quasi a rivendicare l’importanza delle sofferenze patite anche dalle
donne durante i conflitti. Narrativamente Edith è al centro di un triangolo
sentimentale tra l’uomo che ama, il poeta e letterato Jean Diaz (Romuald Joubé)
e il marito François (Séverin-Mars), un individuo un po’ troppo incline alla
violenza. E già qui si può notare una nota lievemente stonata, perlomeno perché
l’anomalia, chiamiamola così, viene fornita sin dall’inizio e non capita cammin
facendo nel racconto, com’è usuale. Cioè, in sostanza, sin dalla prima
apparizione di Edith si capisce che ama un altro uomo e non il marito: il
perché non abbia sposato Jean, visto che l’amore è ricambiato, non è dato a
sapere. Tuttavia per un po’ i due riescono a farla in barba a François, ma mica
per tanto e visto il focoso carattere del bruto la situazione si fa sempre più
tesa. Allo scoppio della guerra François viene chiamato subito al fronte mentre
Jean ha tempo poco più un mese prima di partire. Per evitare il continuo
flirtare di sua moglie con l’amante, François la
spedisce dai suoi genitori; la poveretta viene però fatta prigioniera dai
tedeschi. Intanto in prima linea l’uomo è un soldato che si distingue compiendo
atti eroici; per suo massimo scorno, Jean si aggrega giusto nel suo reparto col
grado di tenente. Nonostante la causa dei loro dissidi non sia presente con
loro in trincea, i due continuano a guardarsi in cagnesco. Poi Jean riceve
l’ordine di mandare il valoroso François in una missione praticamente suicida:
essendosi reso conto che l’uomo ama la moglie, il nobile tenente non se la
sente di spedire il marito di Edith incontro alla morte. Così l’ufficiale si
lancia allo sbaraglio personalmente, conduce in porto l’impresa e riporta a
casa la pelle. Da lì in poi le cose tra i due rivali in amore migliorano,
seppur lentamente, nonostante il buon François, che la guerra paradossalmente
sta leggermente civilizzando, abbia sempre qualche sospetto sui due amanti, non
del tutto infondato. Mentre sul versante bellico si alternano scene realistiche
a sequenze degne perfino di una comica (ad esempio quella in cui François
cattura da solo un reparto tedesco) la questione sentimentale ha pronto un vero
e proprio colpo basso. Edith è stata liberata ma l’esperienza della prigionia
le ha lasciato una eredità: Angele (Angèle Guys), una bambina. La scena dello
stupro di gruppo, suggerita dall’uso espressionista delle ombre dei
soldati tedeschi che incombono sulla poveretta, è particolarmente evocativa e,
in ogni caso, il messaggio veicolato è tremendo. Se Jean, uomo d’arte e ricco
di sensibilità, è in grado di accettare la situazione, il vecchio Marie Lazare
(Maxime Desjardins) riserva allo spettatore una cocente delusione. L’anziano
genitore di Edith era sembrato fin lì una figura simpatica, pronto a srotolare
la sua cartina “la mia Alsazia e la mia Lorena”, auspicandosi venissero
riconquistate con la Grande Guerra. Nonostante incarni la tipica stoltezza
degli uomini di una certa età che furono tra i più soddisfatti dello scoppio
del conflitto, Marie Lazare è tratteggiato bonariamente nella storia. Ma è un
trucco narrativo d’alta scuola di Gange per spiazzare lo spettatore e
sottolineare il carattere infimo del personaggio: l’anziano è sì un vecchio
rincitrullito ma questo non lo rende un individuo degno di rispetto. La sua
bieca morale è manifesta nel suo darsi alla fuga non essendogli sostenibile la
vista di una povera bambinetta, unicamente per il sangue tedesco di questa. Per
altro il regista non fa sconti nemmeno ai bambini del villaggio, che
ghettizzano crudelmente la piccola Angele, infilandole in testa un elmo
chiodato (il pickelhaube) in versione giocattolo per sottolineare il suo
essere nemica dei francesi. Da un certo punto di vista, a fronte di questi atteggiamenti,
dei vecchi come Marie Lazare e dei marmocchi del paese, risulta quasi più
comprensibile il comportamento di uno zoticone come François. Intendiamoci,
l’uomo lì per lì strozzerebbe la bambina seduta stante ma, al fronte, in mezzo
all’orrore che ha vissuto, qualcosa deve aver scalfitto la sua barbarie. In un
modo o nell’altro evita di far del male alla piccola, nonostante la cultura millenaria
di odio di cui è intriso non gli sia in questo di grande aiuto. Tuttavia c’è
una guerra da finire e François deve tornare in
prima linea; Jean è stato congedato per motivi di salute ma accetta di
ritornare al fronte con quello che ormai è divenuto un amico. Il conflitto è al
suo apice, i due uomini rimangono gravemente feriti: la guerra è vinta ma
François muore e Jean sembra aver perso il senno. Al suo ritorno al villaggio
la pazzia darà voce ad un allucinato grido d’accusa verso la sua gente, rea di
aver provocato il conflitto, di averlo alimentato con l’odio, di essersi
approfittata impunemente delle circostanze, di aver mandato altri a fare il
lavoro sporco mentre essi si curavano i propri interessi. Quello di Jean sarà
anche un delirio ma è quanto mai lucido. Anche sotto il profilo visivo: le
scene delle croci che lasciano il posto ai caduti che poi si rialzano per
tornare a chiedere conto a chi li ha mandati al macello, sono particolarmente
allucinanti e il lungometraggio finisce per sconfinare in una sorta di storia
dell’orrore. Del resto, cos’è la guerra, se non l’orrore più grande?
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