Translate

lunedì 3 febbraio 2025

PER LA PATRIA

1617_PER LA PATRIA (J'accuse). Francia1919. Regia di Abel Gange

Opera monumentale in tre parti, per un totale di 266 minuti, Per la Patria di Abel Gange è un caposaldo del cinema antimilitarista ma, allo stesso tempo, di quello bellico. Perché è certamente esplicita la visione di forte critica alla guerra e a tutti i suoi fautori (emblematico il titolo originale, J’accuse, io accuso) ma l’utilizzo di vere scene del conflitto, tutto sommato ben amalgamate con il racconto filmico, in un’opera del 1919, contribuì in modo importante all’idea visiva che abbiamo ancora oggi della Grande Guerra. La guerra di trincea e la desolata terra di nessuno, sono ancora oggi i concetti che affiorano per primi quando si parla della Prima Guerra Mondiale. Sono certamente elementi scenici molto peculiari e di grande impatto e Per la Patria fu appunto tra i primi film a mostrare queste immagini al grande pubblico. Perché la robusta storia d’amore che si intreccia sullo sfondo storico del conflitto mondiale rese il film di Gange appetibile ad una vasta platea. L’importanza della protagonista femminile, Edith (Maryse Dauvray), vero perno su cui ruota l’opera, era un’intuizione notevole e originale visto che, in buona sostanza, quello bellico sarebbe in seguito divenuto in modo più naturale (o culturale?) un genere maschile. La ragazza è l’epicentro del lungometraggio: è moglie, amante, madre, figlia, e in tutti questi ruoli la guerra ha su di lei un peso decisivo, quasi a rivendicare l’importanza delle sofferenze patite anche dalle donne durante i conflitti. Narrativamente Edith è al centro di un triangolo sentimentale tra l’uomo che ama, il poeta e letterato Jean Diaz (Romuald Joubé) e il marito François (Séverin-Mars), un individuo un po’ troppo incline alla violenza. E già qui si può notare una nota lievemente stonata, perlomeno perché l’anomalia, chiamiamola così, viene fornita sin dall’inizio e non capita cammin facendo nel racconto, com’è usuale. Cioè, in sostanza, sin dalla prima apparizione di Edith si capisce che ama un altro uomo e non il marito: il perché non abbia sposato Jean, visto che l’amore è ricambiato, non è dato a sapere. Tuttavia per un po’ i due riescono a farla in barba a François, ma mica per tanto e visto il focoso carattere del bruto la situazione si fa sempre più tesa. Allo scoppio della guerra François viene chiamato subito al fronte mentre Jean ha tempo poco più un mese prima di partire. Per evitare il continuo flirtare di sua moglie con l’amante, François la spedisce dai suoi genitori; la poveretta viene però fatta prigioniera dai tedeschi. Intanto in prima linea l’uomo è un soldato che si distingue compiendo atti eroici; per suo massimo scorno, Jean si aggrega giusto nel suo reparto col grado di tenente. Nonostante la causa dei loro dissidi non sia presente con loro in trincea, i due continuano a guardarsi in cagnesco. Poi Jean riceve l’ordine di mandare il valoroso François in una missione praticamente suicida: essendosi reso conto che l’uomo ama la moglie, il nobile tenente non se la sente di spedire il marito di Edith incontro alla morte. Così l’ufficiale si lancia allo sbaraglio personalmente, conduce in porto l’impresa e riporta a casa la pelle. Da lì in poi le cose tra i due rivali in amore migliorano, seppur lentamente, nonostante il buon François, che la guerra paradossalmente sta leggermente civilizzando, abbia sempre qualche sospetto sui due amanti, non del tutto infondato. Mentre sul versante bellico si alternano scene realistiche a sequenze degne perfino di una comica (ad esempio quella in cui François cattura da solo un reparto tedesco) la questione sentimentale ha pronto un vero e proprio colpo basso. Edith è stata liberata ma l’esperienza della prigionia le ha lasciato una eredità: Angele (Angèle Guys), una bambina. La scena dello stupro di gruppo, suggerita dall’uso espressionista delle ombre dei soldati tedeschi che incombono sulla poveretta, è particolarmente evocativa e, in ogni caso, il messaggio veicolato è tremendo. Se Jean, uomo d’arte e ricco di sensibilità, è in grado di accettare la situazione, il vecchio Marie Lazare (Maxime Desjardins) riserva allo spettatore una cocente delusione. L’anziano genitore di Edith era sembrato fin lì una figura simpatica, pronto a srotolare la sua cartina “la mia Alsazia e la mia Lorena”, auspicandosi venissero riconquistate con la Grande Guerra. Nonostante incarni la tipica stoltezza degli uomini di una certa età che furono tra i più soddisfatti dello scoppio del conflitto, Marie Lazare è tratteggiato bonariamente nella storia. Ma è un trucco narrativo d’alta scuola di Gange per spiazzare lo spettatore e sottolineare il carattere infimo del personaggio: l’anziano è sì un vecchio rincitrullito ma questo non lo rende un individuo degno di rispetto. La sua bieca morale è manifesta nel suo darsi alla fuga non essendogli sostenibile la vista di una povera bambinetta, unicamente per il sangue tedesco di questa. Per altro il regista non fa sconti nemmeno ai bambini del villaggio, che ghettizzano crudelmente la piccola Angele, infilandole in testa un elmo chiodato (il pickelhaube) in versione giocattolo per sottolineare il suo essere nemica dei francesi. Da un certo punto di vista, a fronte di questi atteggiamenti, dei vecchi come Marie Lazare e dei marmocchi del paese, risulta quasi più comprensibile il comportamento di uno zoticone come François. Intendiamoci, l’uomo lì per lì strozzerebbe la bambina seduta stante ma, al fronte, in mezzo all’orrore che ha vissuto, qualcosa deve aver scalfitto la sua barbarie. In un modo o nell’altro evita di far del male alla piccola, nonostante la cultura millenaria di odio di cui è intriso non gli sia in questo di grande aiuto. Tuttavia c’è una guerra da finire e François deve tornare in prima linea; Jean è stato congedato per motivi di salute ma accetta di ritornare al fronte con quello che ormai è divenuto un amico. Il conflitto è al suo apice, i due uomini rimangono gravemente feriti: la guerra è vinta ma François muore e Jean sembra aver perso il senno. Al suo ritorno al villaggio la pazzia darà voce ad un allucinato grido d’accusa verso la sua gente, rea di aver provocato il conflitto, di averlo alimentato con l’odio, di essersi approfittata impunemente delle circostanze, di aver mandato altri a fare il lavoro sporco mentre essi si curavano i propri interessi. Quello di Jean sarà anche un delirio ma è quanto mai lucido. Anche sotto il profilo visivo: le scene delle croci che lasciano il posto ai caduti che poi si rialzano per tornare a chiedere conto a chi li ha mandati al macello, sono particolarmente allucinanti e il lungometraggio finisce per sconfinare in una sorta di storia dell’orrore. Del resto, cos’è la guerra, se non l’orrore più grande?  

Nessun commento:

Posta un commento