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giovedì 19 settembre 2024

NUDO E SELVAGGIO

1548_NUDO E SELVAGGIO . Italia, Brasile 1985; Regia di Michele Massimo Tarantini 

Gli anni Settanta avevano visto due correnti del cinema di genere italiano avere grosso modo la stessa evoluzione: tanto i western che i polizieschi, avevano via via perso le caratteristiche serie intrinseche alla loro natura, per divenire una sorta di parodie. Tant’è che questi generi divennero poi famosi con definizioni che indicavano in modo sfacciato questa loro matrice ironica: spaghetti-western e poliziottesco, lasciavano, in effetti, pochi dubbi in tal senso. Certo, probabilmente non fu una scelta programmatica, l’utilizzo di queste definizioni –che presero, tra l’altro, piede col passar del tempo– ma si tratta comunque di indizi che danno almeno un’idea degli intenti dei film in questione. Per i produttori, si trattava di una soluzione comoda: a suo tempo, il cinema italiano aveva dovuto sforzarsi, in un certo senso, per interpretare alcuni di questi generi a lui poco congeniali, almeno a livello tradizionale. Tant’è che, per vincere un certo scetticismo del pubblico, ci si era inventati la faccenda degli pseudonimi anglofoni. Quando si era esaurito il filone, quando le idee cominciarono a scarseggiare, ci si era così rifugiati in quello che veniva considerato il genere per elezione della penisola italica: la commedia. In realtà, la commedia fatta scrupolosamente e seriamente, era altrettanto difficile, se non di più, degli altri generi ma, in Italia, c’era – e forse c’è ancora – la convinzione che per far ridere e soddisfare il pubblico, bastino gag di quart’ordine condite da manciate di richiami sessuali. In sostanza, la ricetta della commedia sexy all’italiana. Grosso modo dalla saga di Trinità (Lo chiamavano Trinità…, 1970, di E. B. Clucher e seguenti) i western all’italiana presero sempre una vena umoristica, mentre da quella del poliziotto Nico Giraldi (inaurata da Squadra antiscippo, 1976, Bruno Corbucci) la stessa cosa successe a molti polizieschi di casa nostra. Dopo il boom dei primissimi anni Ottanta, con l’avanzare del decennio il genere cannibal ebbe un periodo di pausa: nel 1985, dopo un paio di anni di assenza dalle sale, qualcosa si era però mosso e ben tre film arrivarono sullo schermo quell’agosto; mese peraltro, ai tempi, assolutamente morto per il cinema. Mentre sia Schiave bianche – Violenza in Amazzonia (1985, di Mario Gariazzo), che Inferno in diretta (1985, di Ruggero Deodato) provavano, in modo decisamente diverso, a riprendere il filo del discorso dal passaggio più importante del genere, ovvero Cannibal Holocaust (1980, dello stesso Deodato), i produttori di Nudo e selvaggio scelsero una strada completamente diversa. 

Forti della consapevolezza della pocanzi accennata evoluzione “leggera” avuta anni prima da due tra i generi più violenti del cinema italiano, i western e i polizieschi, affidano il loro film sui cannibali a Michael E. Lemick, al secolo Michele Massimo Tarantini, un maestro della commedia scollacciata del Belpaese. Tarantini, all’inizio carriera, prima di dedicarsi ai film incentrati sulle varie poliziotte, insegnanti, dottoresse, professioni naturalmente tutte riviste rigorosamente in chiave erotica, aveva anche esplorato il poliziesco all’italiana, senza per altro lasciare il segno. Insomma, per quanto le sue commedie piccanti non fossero opere degne di Ernst Lubitsch o Billy Wilder, si può comunque asserire che Tarantini si muovesse in modo assai più agevole da quelle parti piuttosto che con i toni cupi dei polizieschi. Un autore non particolarmente versatile, in definitiva, e ora alle prese con l’ambizioso intento, in Nudo e selvaggio, di coniugare un genere ultra-violento con i toni leggeri. In pratica, con Nudo e selvaggio, il regista romano si prende una bella gatta da pelare: forse rendendosene conto, decide di giocare a carte decisamente scoperte. Il protagonista, Michale Sopkiw (nel ruolo del paleontologo Kevin Hall) è il sosia di Terence Hill, mentre la storia ha un incipit, musica compresa, che sembra il remake di Banana Joe (1982, regia di Steno, con Bud Spencer), due elementi che fissano il principale riferimento nella coppia comica più importante del cinema italiano del tempo, Terence Hill & Bud Spencer, appunto. Più simpatica e meno prevedibile, la citazione a Django (1966, regia di Sergio Corbucci) che serve ad introdurre la professione del protagonista: nella bara che si trascina appresso il nostro bellimbusto, ci sono infatti ossa, ma di dinosauro. Rispetto agli spaghetti-western, i riferimenti sessuali, per quanto unicamente pruriginosi, sono più sfacciati, mentre l’ironia è assai più ovvia e scontata. Ma, in questo ambito, ben peggio sono soggetto e sceneggiatura, opera dello stesso Tarantini, banali e superficiali in modo quasi sconcertante. Alla fine di una serie di passaggi scontati e assurdi allo stesso tempo –il che è, a suo modo, una sorta di impresa– i personaggi del film precipitano con il loro aereo nel bel mezzo della giungla amazzonica, restando senza più contatti con il mondo civilizzato. Oltre al citato Sopkiw, nel ruolo dell’improbabile paleontologo avventuroso, di un cast poverissimo vale la pena citare almeno Suzane Carvalho, è Eva, e Milton Rodriguez, è il capitano Heinz, un veterano della guerra nel Vietnam. 

Il tema bellico, e quello della “sporca guerra” nello specifico, ritorna ancora una volta in un cannibal, quasi fosse una sorta di tardo-cliché del genere. Tra gli altri momenti tipici, le immagini efferate ci sono e i cannibali sono in effetti abbastanza feroci e, almeno in una scena, tengono fede al loro ruolo; tuttavia il passaggio più memorabile è legato ai piranha, che spolpano la gamba di uno dei sopravvissuti. Purtroppo, a questo momento è legato anche una della gaffe più clamorose della storia: Kevin, il bel paleontologo, ed Heinz, il capitano problematico, si disputano il ruolo di leader del manipolo di scampati e, in questo frangente, arrivano alle mani. Niente di particolare, si tratterebbe di un passaggio quasi inevitabile: quello che desta perplessità, a dir poco, è che i due, dopo aver tratto in salvo il loro compare dalle acque infestate dai piranha, decidono di darsele di santa ragione proprio in quello stesso punto del torrente. Al di là dell’errore in sé, è proprio la dinamica del racconto e dei dialoghi a rendere questo passaggio davvero deprimente, tuttavia un altro svarione pone almeno un dubbio sulla consapevolezza nel merito degli autori. Nella seconda parte del racconto, i nostri sopravvissuti vengono catturati dagli uomini di Cina (Andy Silas), un avventuriero che, sfruttando alcuni indigeni come schiavi, cerca e commercia diamanti illegalmente. Da notare che, parlando di errori, pare grossolano il fatto che due personaggi nella storia si chiamino con lo stesso nome –Cina, appunto, era anche il nome di uno dei componenti della spedizione– rischiando di fare più confusione di quella che c’è. Tuttavia l’errore che lascia più perplesso è legato ad un classico stratagemma narrativo usato nei film western: il numero di colpi nell’arma da fuoco a disposizione durante un duello. È però quantomeno bizzarro che il film si decida praticamente con questo elemento –sul più bello Cina finisce i colpi del suo revolver– quando, poco prima, Kevin aveva sparato senza sosta e senza ricaricare con il suo fucile a pompa, almeno il doppio dei colpi che avrebbe potuto avere nel caricatore. Sembrerebbe, ma è allo stesso tempo improbabile, che gli autori, in questo passaggio, cerchino di darsi un tono, mostrando di conoscere questi aspetti narrativi nonostante la storia raccontata pare invece smentirli. 

Difficile da credersi, eppure, anche con l’utilizzo dell’espediente del serpente a sonagli, nel finale, Tarantini sembra scherzare sulla plausibilità della sua storia. D’acchito, la scena sembra l’ennesimo svarione della sceneggiatura: in Amazzonia ci sono le anaconda, i crotali stanno nel south-west nordamericano. In realtà, seppure assai meno noto dei suoi giganteschi parenti stritolatori, i serpenti a sonagli sono presenti anche in Sud America: difficile stabilire se quello mostrato nel film sia effettivamente un Cascavel, o Cascabel –questo il nome con cui è conosciuto il Crotalus Durissus– tuttavia non si pretende il rigore scientifico da un film d’avventure. Se esiste un serpente a sonagli che scorrazza per l’Amazzonia, allora la scena finale è migliore e più credibile di quanto sembri. Questo dubbio si somma al precedente, quello legato al conto dei colpi delle armi da fuoco che in un caso non tornano, mentre nell’altro sono addirittura il fattore decisivo. Forse, regista e collaboratori non sono poi così scarsi, come sembrerebbe lasciar intendere il modesto risultato di Nudo e selvaggio. Ma il dubbio ha sempre due facce: se Tarantini conosce il mestiere, e sa dell’importanza di quei dettagli narrativi, perché diamine non ci ha prestato attenzione e fatto un bel film?  





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