Quasi
sempre, il primo interrogativo che pone il lungometraggio di esordio di Philip
Sotnychencko riguarda il titolo: La palisiada si riferisce alla verità
lapalissiana, ovvero una cosa di una tale ovvietà che il ribadirla risulta
praticamente umoristico. Va detto che La palisiada come opera non è
precisamente ironica; perlomeno, non lo dà scopertamente a vedere. L’umorismo
nero di Sotnychencko rimane sottotraccia ma, forse proprio per questo, la sua
azione finisce per essere ancora più corrosiva. Non è un film semplice, La
palisiada: in qualche momento può sorgere il dubbio che ci sia stata qualche
magagna nel montaggio e si stia guardando qualcos’altro; poi lentamente, le
tessere non tornano al loro posto, questo no, ma si comincia ad avere la
percezione che ci sia un disegno nascosto nel racconto filmico di Sotnychencko,
una sorta di mosaico da ricostruire. Con un’unica visione del film, è difficile
chiedere di più allo spettatore, che finisce nel migliore dei casi affascinato
dai dialoghi, dalla rada ironia, dalla costruzione delle scene, dai pochi ma
fulminanti passaggi tragicamente bruschi del racconto. Ma per cogliere meglio
il film di Sotnychencko occorre un minimo sforzo in più, una seconda visione è
infatti non solo consigliabile ma diviene addirittura avvincente: ora i pezzi
del puzzle sembrano combaciare, seppure il giovane regista ucraino lavori a
molti livelli contemporaneamente mantenendo sempre al suo racconto qualcosa di
sfuggente. Il titolo, secondo l’autore, dovrebbe fare riferimento alla «verità» che emerge dall’indagine
che sorregge la trama del film, e che, una volta chiusa con l’arreso e la
condanna dell’imputato, viene definita appunto lapalissiana. Il che dovrebbe
significare che il risultato fosse a tal punto ovvio e scontato, che le
indagini finiscano per essere ridondanti: niente affatto, sulla colpevolezza del
condannato rimane più di qualche dubbio. Al di là di questo, va detto che il
termine La palisiada interpreta a pennello lo spirito di un film
singolare come quello di Sotnychencko: da un certo punto di vista ne è la
completa negazione, visto che di palese, ovvio, non c’è nulla, da un altro tutto
quanto è, tuttavia, ridondante. Una situazione, quindi, paradossale: è come
ribadire qualcosa che non è chiaro, finendo per confondere ancora di più le
cose, lasciando comunque senza parole l’interlocutore. Questa strategia di
lavoro sembra una delle tante eredità del passato sovietico, di cui il racconto
principale, ambientato nel 1996, è ancora grondante: ripetere con forza, con
autorità, aiuta a convincere anche gli scettici; aggiungendoci il carico di una
parola altisonante come La palisiada, nessuno avrà più da obiettare
alcunché.
Che è un po’ il primo stato d’animo di chi assiste al film: cosa si
può dire di un’opera se il senso sfugge e nemmeno si riescono a cogliere i
riferimenti? In questa fase,
La palisiada rischia di essere rigettato
completamente dal pubblico e sarebbe un vero peccato perché il film di
Sotnychencko è davvero notevole. L’autore, per quanto ermetico, è tuttavia
abilissimo nel seminare dettagli che, lentamente, carburano nella testa dello
spettatore cominciando ad incasellarsi al posto giusto. Il tema della
ridondanza, un argomento strettamente legato alla retorica imperialista
sovietica, non è poi difficile da cogliere, ad uno sguardo più attento: nel
film, moltissimi eventi avvengono due volte, a conferma che la ripetitività è il
leitmotiv del racconto. Due sono i morti ammazzati da un colpo di pistola, due
i tempi del racconto –l’incipit e il corpo narrativo vero e proprio– due le
volte che si ascolta la canzone popolare rutena
O sheep, my sheep, due
le volte che il treno passa costringendo il mercatino a sloggiare dai binari,
due le «ricostruzioni del crimine
», due le volte
che la ragazza «stende» il coetaneo, e via di questo passo. Per accentuare
l’idea di ripetitività, nei raddoppi meno espliciti, il regista lavora
ulteriormente con la trama: ad esempio, sia l’incipit che il racconto vero e
proprio cominciano con una perlustrazione delle pareti dell’appartamento di Alexander
(Andrii Zhurba) che termina, in entrambi i casi, con uno sguardo dal balcone
verso la strada. Questo parallelismo chiarisce il collegamento tra i due
tronconi del film, il primo più breve e domestico, ambientato nel presente, e
la storia criminale degli anni Novanta. Proprio essere posta in principio,
prima dell’inizio del film, ci dice che questa è la parte più urgente, quella
più significativa. La relazione tra il presente –il cui intermezzo dal sapore
televisivo, con la scena della mostra artistica che si inserisce come fosse un
servizio realizzato per il piccolo schermo, rafforza il concetto di quotidiano–
e il passato, suggerisce che quanto vediamo di aberrante nel finale del
prologo, l’esplosione inaudita e immotivata di violenza, è il riflesso di ciò
che avviene nel finale della seconda e più corposa parte del film.
La
palisiada si chiude in effetti con l’improvvisa ed imprevedibile brutale uccisione
dell’accusato dell’indagine: seppure questi fosse stato condannato a morte,
l’esecuzione lascia del tutto senza parole.
Da notare che la pena capitale
sarebbe stata abolita di lì a pochi mesi, quando l’Ucraina avrebbe finalmente
aderito al protocollo n.6 alla Convenzione Europea sui diritti fondamentali
dell’uomo. Non si tratta di dettagli secondari ma, al contrario, stanno
all’origine del soggetto. Dice, in proposito dell’idea alla base del suo film,
il regista Sotnychencko: “Sono partito dal fatto che, fino al 1996, in Ucraina
esisteva la pena di morte. Poi, allontanandomi da questo, ho cominciato a
ricordare la mia infanzia. Il tema della pena di morte è in qualche modo
passato in secondo piano. Stava già diventando una storia non sull’ultima
esecuzione, ma sulle persone che vivevano a quel tempo e sui loro figli che
sono vivi adesso”. [
Natalia Serebriakova, Philip Sotnychencko
regista di La palisiada, dal sito Cineuropa, pagina web https://cineuropa.org/it/interview/437853/
visitato l’ultima volta il 27 agosto 2024]. Lo spunto della pena
di morte passerà anche in secondo piano, ma è innegabile che sia un
collegamento con l’Unione Sovietica, mentre proprio l’adesione a normative più
conformi alla mentalità europea ne determineranno, per fortuna,
l’accantonamento. Nonostante Sotnychencko cerchi di minimizzare le connessioni
in proposito, ecco che il conflitto con la Russia, sempre in antitesi
all’Europa, emerge in modo abbastanza lampante. In ogni caso, sull’argomento,
queste le considerazioni del regista in un’intervista rilasciata a Il Manifesto:
“Me ne sono accorto sin dalla prima proiezione, al
festival di Rotterdam, lo scorso gennaio. Il pubblico vede nel film il riflesso
dell’invasione russa, e invece quando è iniziata la guerra eravamo già in
post-produzione. Però è molto interessante questo processo, mostra come
ciascuno tende a interpretare le cose connettendole alla propria esperienza che
oggi a livello mondiale per l’Ucraina è quella del conflitto”. Osservazione
pertinente, ma la giornalista lo incalza: “Dicevi che il pubblico tende a vedere nel film un
legame con la guerra. Forse al di là delle connessioni più immediate c’è
qualcosa che suggerisce una origine lontana di quanto accade ora”. Replica Sotnychencko: “La guerra non ci ha sorpresi, molti di noi lo
sapevano già prima di Biden o del Pentagono che la Russia ci stava invadendo. È
almeno dal 2014 che si combatte, per chi vive nella capitale la percezione è
forse diversa ma chi abita nelle regioni coinvolte lo sa bene. Poi la Russia
nega come ha sempre fatto su tutto. Anche per questo ho voluto lavorare sulle
relazioni tra le persone, credo che è dove si concentrano maggiormente i
rimossi di questi anni. Risolvere il mistero dell’indagine non è così
importante, conta l’investigazione delle anime e le domande che ogni fatto
accaduto pone.” Infine, alla precisa domanda “Stai filmando la guerra?
Raccogliendo materiali di documentazione?” il regista conclude: “In realtà no,
ci sono già altri registi ucraini a filmare e senz’altro lo fanno molto meglio
di me”. [Cristina Piccino, La
Palisiada, l’Ucraina nei ricordi d’infanzia della mia generazione, dal sito
de Il Manifesto, pagina web https://ilmanifesto.it/la-palisiada-lucraina-nei-ricordi-dinfanzia-della-mia-generazione,
visitata l’ultima volta il 27 agosto 2024]. Eppure l’impressione è
che la Piccino abbia ragione: la guerra tra ucraini –che siano «filo ucraini» o
filo russi, agli occhi degli occidentali è difficile scorgere la differenza– ha
spiazzato tutti allo stesso modo in cui, nel finale dell’incipit del film,
vediamo la ragazza risolvere in modo definitivo la discussione con il coetaneo.
Insomma, per la violenza dilagante che c’è in Ucraina oggi, certamente andrebbe
chiesto il conto prevalentemente a Mosca, d’accordo; però guardando la
materializzazione dei ricordi di infanzia di Sotnychencko qualche dubbio sugli eventuali
residui nella coscienza del paese può venire. Come detto, il tono del racconto
è sottilmente umoristico, ma non per questo meno caustico. Come accennato, siamo
alle prese con una crime story e il caso riguarda l’omicidio di un colonnello
della polizia. A condurre l’inchiesta è l’investigatore Ildar (Novruz Hikmet),
che è il coprotagonista insieme al citato Alexander, lo psichiatra forense che
lo affianca nelle indagini. Ildar ha una figlia piccola, Alexander un figlio; i
due bambini, una volta cresciuti, sono tra i personaggi dell’incipit e gli
assoluti protagonisti della spiazzante scena citata, quella chiusa con un colpo
di pistola. È forse l’origine di questa immotivata follia, che stiamo cercando
nel passato; una mancanza di senso che è un altro dei percorsi sottotraccia che
propone il film. Ovviamente il rimando scontato è all’attuale guerra
–nonostante le parole del regista nell’intervista citata– il cui senso in
occidente continua sostanzialmente sfuggire nonostante si combatta da anni. Ma
nel film ci sono dei rimandi precisi che indicano il concetto di vuoto,
mancanza, perdita: per esempio, il ragazzo, nell’incipit, è in un appartamento
spogliato della mobilia e ha precedentemente perso il treno.
Quando poi si
unisce agli altri giovani amici, la serata è piena zeppa di chiacchere, dalle
quali si ricava poco; si discute di cinema, criticando le americanate coi
super-eroi ma non si riesce, probabilmente, nemmeno a essere veramente toccati
dall’arte con l’«A» maiuscola, quella degli Uffizi di Firenze. Questi ragazzi
sono persone che possono al massimo discutere di tatuaggi –simbolo assoluto
della superficialità del momento globale e non solo ucraino, per la verità– di
cui nemmeno chi se li è fatti fare si ricorda più quale significato possano
avere. In ogni caso, tutto ciò riguarda il corposo incipit e, a questo punto, stiamo
già occupandoci dell’indagine, nella quale si fanno rapidamente passi da
gigante. Grazie ad una testimonianza si cerca un uomo rasato: basta una
violenta incursione in un covo di tagliagole ed ecco che, magicamente, vengono
prelevati una decina di possibili indiziati. L’uomo che finirà per essere
individuato come assassino non sembra molto presente, lucido, sebbene tra il
momento dell’arresto e il confronto con la testimone, si scambi la giacca forse
al fine di confondere le acque. Al riconoscimento, infatti, l’uomo si presenta
con una giacca sportiva diversa rispetto a quella indossata durante il fermo,
ma è evidente che non sia della sua taglia. In qualche modo gli inquirenti se
ne accorgono e, una volta che l’indiziato ha indossato il suo indumento, viene
riconosciuto come l’omicida. Forse. Perché tutta la questione della
testimonianza –elemento chiave dell’indagine, per altro– è uno dei passaggi più
ironici e sarcastici del film. Innanzitutto, la testimone è una donna muta: il
che è ovviamente un dettaglio simbolicamente umoristico ma velenoso, di Sotnychencko.
Fosse stata cieca, sarebbe stato paradossale; una testimone muta lascia invece intendere
che possa anche aver visto, ma non possa parlare. Niente paura, c’è
l’interprete: e qui, nei loro dialoghi, ci sono i passaggi più divertenti in
assoluto del film. La testimone è costretta dagli inquirenti a ripetere per
l’ennesima volta ciò che ha visto: mentre faceva il bagno in uno specchio
d’acqua, sulla riva due uomini avevano una colluttazione, alla fine della quale
il colonnello della polizia sarebbe rimasto sul terreno senza vita. La donna è
stufa di ribadire le stesse cose con il linguaggio dei segni; l’interprete la
sollecita e lei la minaccia di rivelare il perché fosse da sola, quel giorno, a
fare il bagno. Il poliziotto vedendole discutere animatamente, chiede cosa
abbiano da dirsi, ma l’interprete glissa, lasciandolo quanto mai perplesso. Come
gli spettatori: a parte che la curiosa minaccia della sordomuta rimane
inspiegata, in ogni caso, quello a cui assistiamo non sembra propriamente un
interrogatorio. Poi la testimone ha un impulso di «loquacità» e si dilunga a
raccontare come, sul momento, avesse pensato che i due fossero amanti, che si
stessero baciando. Va detto che al pubblico, queste informazioni, arrivano dai
sottotitoli che traducono il linguaggio dei segni durante i dialoghi. Il
poliziotto che, al contrario, deve attendere la versione dell’interprete, si
incuriosisce, scorgendo forse delle novità nel gesticolare della donna e ne
chiede conto alla traduttrice. Questa taglia corto, evitando di riportare la
faccenda degli amanti e riferendo che la testimone abbia visto i due uomini
discutere; così, di sua iniziativa. Tuttavia, questa testimonianza sarà la
chiave dell’indagine. Da notare che, durante una delle ripetizioni delle
ricostruzioni della scena del crimine – di cui la seconda fatta sotto un
diluvio torrenziale– nello specchio d’acqua c’è un tizio a mollo e non sembra
affatto nella posizione ideale per vedere alcunché. Ciononostante l’indagato è
processato e condannato e, infine, ucciso senza troppe cerimonie, in una cella
che, per macabra ironia, si trova, nella realtà, nella prigione di Bucha,
località, in seguito, divenuta tristemente nota per il massacro perpetrato dai soldati
russi a danno della popolazione civile. E, anche se questa è, evidentemente,
soltanto una coincidenza, forse possiamo anche prenderla come un segno. La
violenza, anche quella fatta ai poveri disgraziati come il personaggio del
condannato di
La palisiada, porta frutti che non sono mai buoni. E anche
se ci può volere un po’ di tempo, poi maturano sempre.