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domenica 15 settembre 2024

AMICHE ALL'IMPROVVISO

1546_AMICHE ALL'IMPROVVISO (The time of their lives)Regno Unito 2017; Regia di Roger Goldby

Dopo l’intrigante ma prevedibile ruolo nel fantasy Molly Moon e l’incredibile libro dell’ipnotismo e un cameo in Absolutely fabulous – il film, nel 2017, a quasi ottantaquattro anni, Joan Collins ritorna al cinema da protagonista. Nel film Amiche all’improvviso di Roger Goldby è Helen, una diva di Hollywood di cui ormai non si ricorda più nessuno, o quasi. Priscilla (Pauline Collins, stesso cognome di Joan, nessuna parentela), una comune casalinga con una tragedia nel suo passato, ad esempio, se la ricorda eccome. In effetti, la vita di Priscilla è ferma da una quarantina d’anni, da quanto il suo figlioletto sfuggì al suo controllo finendo annegato nel fiume. Suo marito Frank (Ronald Pickup) non l’ha ancora perdonata e non perde occasione di maltrattarla. Queste sono le due attempate donne che diverranno «amiche all’improvviso», come recita il titolo italiano del film di Goldby. Quello originale, The times of their lives, cerca invece di focalizzare l’attenzione sul fatto che queste due donne, che può sembrare non abbiano più molto da chiedere alla vita, siano giunte ai loro migliori momenti. Lo dice anche esplicitamente Helen: “voglio un’altra opportunità, e la voglio in questa vita”. Entrambe hanno rimpianti pesanti, Priscilla il figlioletto morto, Helen una figlia che ha abbandonato, ma, se il film è anche un percorso di espiazione, in realtà è perlopiù un viaggio verso il futuro. Del resto Amiche all’improvviso è prevalentemente un road movie che parte dall’Inghilterra e finisce nel sud della Francia, su un’assolata spiaggia del Mediterraneo: un sostanziale ritorno alla vita, giacché il Mare è il simbolo più potente in tal senso e non solo al cinema. Il tono del film è quello della commedia divertente e divertita, soprattutto per i sorprendenti rimandi metalinguistici che Goldby scandisce nel suo racconto. Del fatto che Helen fosse una grande attrice si è detto, ma non è l’unico: il viaggio verso il sud della Francia, ha come meta «ufficiale» il funerale di un regista cinematografico, il che non è troppo ottimista, per la verità, almeno da punto di vista metalinguistico. Helen verrà comunque soddisfatta, nel suo pretendere una nuova opportunità: quello che non aveva previsto è che l’avrà fuori dal mondo del cinema. 

Ma quello di Goldby non è certo un testo contro la Settima Arte, anche perché da un film metalinguistico sarebbe paradossale, è questo è reso evidente dallo specchiarsi delle vite delle due protagoniste. Che sono certamente diverse e opposte, come i loro caratteri, al punto da essere una il riflesso dell’altra. Non a caso, probabilmente, sono state affiancate due attrici con lo stesso cognome –ricordate? Siamo in campo metalinguistico, quindi si può utilizza il cinema in modo esplicitamente strumentale– seppure abbiano curriculum diversissimi. Ma tutte e due sono «utilizzate» dal regista non solo in fase recitativa ma anche per i significati che il loro pedigree porta in dote. Joan è l’ultima diva di Hollywood e richiama inevitabilmente il passato, la Golden Age del cinema. Pauline, assai più prosaicamente –all’opposto, insomma – ricorda qualcosa di più circoscritto, nello specifico il suo più grande successo, Shirley Valentine – La mia seconda vita, di cui Amiche all’improvviso può anche essere inteso come una sorta di remake. Lo specchiarsi delle due protagoniste del film di Goldby –due donne anziane deluse dalla vita, con un grande rimpianto nel passato e zero prospettive di felicità– ci dice di non arrenderci al pessimismo e di provare sempre a reinventarsi. Se lo fa il cinema, e l’opera ci offre alcune testimonianze –dal film stesso che è un rifacimento riuscito e diverso di un lungometraggio vecchio di quasi trent’anni, alla ottima interpretazione di due attrici non più giovanissime– a maggior ragione questo deve essere il nostro obiettivo nella vita quotidiana. E la parrucca di Helen che finisce nel mare –le parrucche sono uno dei simboli della «diva» Joan Collins– è un chiaro invito a liberarsi dei propri cliché. Nel film c’è anche Franco Nero, nei panni di Alberto, facoltoso vecchio artista italiano: oltre ad aggiungere un po’ di pepe alla vicenda, la sua presenza, e la morte del suo personaggio che sopraggiunge giusto dopo una notte romantica con Priscilla, ribadisce come anche la terza età sia un tempo per godersi la vita. E poter morire felici, come Helen cerca di convincere la compagna di viaggio che si sente di nuovo in colpa –ricordando la vicenda del figlioletto. Priscilla è una donna morigerata e coscienziosa; perfino troppo, viene da pensare. Con gli anni, questo atteggiamento diligente nei confronti della vita finisce per divenire remissivo, ingrigendo la propria esistenza. Helen ha il problema opposto: egocentrica, opportunista e scaltra al punto di divenire quasi cleptomane, la vecchia star del cinema deve cercare di tornare un po’ umana. 

Una volta espiato il suo grande rammarico –trovando per altro il rifiuto da parte di quella figlia a lungo trascurata– Helen riuscirà a cambiare vita; a suo fianco, Priscilla, che si è scrollata di dosso la sua opprimente famiglia. Questa istituzione finisce maltrattata dal racconto di Goldby, ma forse, come per il cinema, il regista suggerisce solo di non farsi schiacciare degli schemi precostituiti e di essere in grado di rinnovarla: in fondo Helen e Priscilla possono anche rappresentare un nuovo tipo di nucleo famigliare. In tutto questo, Joan Collins è ancora una volta strepitosa. Ironica, ma soprattutto autoironica, si prende in giro e prende in giro il suo cliché di mangiauomini –il personaggio di Franco Nero le preferisce l’amica, in realtà assai meno appetibile– giocando sempre «sporco» approfittando senza ritegno della propria condizione di anziana. Non è semplice valutare gli attori: ci sono interpreti capaci di trasformarsi completamente da un ruolo all’altro, e in genere questi sono molto apprezzati dalla critica. Altri, godono di una reputazione meno lusinghiera, perché il loro registro è molto simile in ogni loro interpretazione: in realtà ci sono tantissimi casi di attori bravi anche in questa categoria, ad esempio John Wayne –che nei suoi film era John Wayne e non il suo personaggio– e non venne mai molto considerato per le sue qualità di recitazione. Perfino di Clint Eastwood, ai tempi dei suoi primi western, ci fu chi disse che aveva due espressioni: col cappello e senza cappello. Per Joan Collins è stato spesso così, quando non veniva denigrata per i suoi ruoli spregiudicati, le si imputava di non fare mai niente di diverso dal suo standard. In realtà, è vero che Joan sullo schermo è sempre Joan Collins, ma è in grado di declinare il suo personaggio in modo adeguato al ruolo che deve interpretare, uscendone come sempre alla grande. In Amiche all’improvviso ne dà l’ennesima prova, riuscendo, ancora una volta, nonostante debba interpretare il non semplice ruolo dell’inacidita e egoista diva in declino, a rendere adorabile e simpatica –in una parola, attraente– una donna di ottantaquattro anni. La classe non ha età.    



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venerdì 13 settembre 2024

LO SCHIACCIANOCI

1545_LO SCHIACCIANOCI (Nutcracker)Regno Unito 1982; Regia di Anwar Kawadri

Se non fosse per la presenza nel cast di Joan Collins –nei lussuosi panni di madame Laura Carrere– Lo schiaccianoci di Anwar Kawadri sarebbe finito nel dimenticatoio. Intendiamoci: non è che Joan combini granché, in quest’occasione; si limita a interpretare la parte della donna ricca, intraprendente, non più giovanissima –al tempo aveva quasi cinquant’anni– ma ancora splendida e, soprattutto, perfettamente consapevole della sua capacità persuasiva sugli uomini. Caratteristiche che aveva ormai consolidato nel suo bagaglio di interprete e che, virate in chiave negativa, erano la chiave del suo successo per il personaggio di Alexis Colby in Dinasty. La stessa Collins ammise che si trattò di un “film mediocre”, a cui accettò di partecipare, probabilmente, per poter tornare a Londra, dopo che si era trasferita in California per il serial sulla famiglia Carrington. [Joan Collins, Passato imperfetto, pagina 319, Gruppo Editoriale Fabbri, Bompiani, Sonzogno, Milano, 1984]. A voler essere fiscali, nel cast spicca anche il nome di Finola Hughes, che sarebbe in seguito divenuta celebre interpretando la ballerina Laura in Staying alive [regia di Sylvester Stallone, 1983], secondo capitolo delle gesta di John Travolta nel ruolo Tony Manero. Come si può intuire dal titolo, Anche in questo caso siamo nell’ambito della danza, una ballerina russa, Nadia Gargarin, la Hughes, è in tournée fuori dall’Unione Sovietica quando decide di «disertare». Negli anni Ottanta si era all’apice della Guerra Fredda e per i cittadini d’oltrecortina le opportunità di sfuggire al ferreo controllo del regime sovietico non erano molte. Nadia, che era la prima ballerina del suo corpo di ballo, e proveniva da un Paese, la Russia, di grandissima tradizione nel campo specifico, trova facilmente impiego presso la scuola di madame Carrere. Le serve, però, rimanere anonima per qualche tempo, per poter mettersi definitivamente al sicuro dai tentativi di madame Olga (Jo Warne) di riacciuffarla per riportarla a Mosca. Intendiamoci: non siamo in clima di freddo spionaggio, quello di Kawadri è un film di «genere» indefinibile, che sfrutta qualche passaggio soffusamente erotico per portare stancamente avanti la vicenda. Il protagonista maschile è un reporter, Mike (Paul Nicholas), che, pur di fare uno scoop, non si farebbe troppi problemi a ficcare nei guai la povera Nadia. Si tratta del classico bellimbusto, in questo caso nemmeno troppo aitante, tipico del decennio, che pur di fare carriera sfrutta la sua influenza sulla povera Margaux (Carol White) salvo poi flirtare con Nadia. Gli va dato atto che qualche scrupolo, alla fine, gli viene, almeno per quel che riguarda la pubblicazione delle foto di Nadia vanificandone il tentativo di fuga. Ma, coerentemente con lo spirito del tempo, si tratta di fisime inutili: la ballerina viene comunque localizzata dai suoi compatrioti e carica su un aereo diretto in Russia. Tra le scene da ricordare ci sono quelle in cui è protagonista la Collins: il copione non le offre molte chances ma a Joan basta sempre poco per incendiare lo schermo.    


  



Joan Collins 


mercoledì 11 settembre 2024

LA PALISIADA

1544_LA PALISIADA . Ucraina 2023; Regia di Philip Sotnychenko

Quasi sempre, il primo interrogativo che pone il lungometraggio di esordio di Philip Sotnychencko riguarda il titolo: La palisiada si riferisce alla verità lapalissiana, ovvero una cosa di una tale ovvietà che il ribadirla risulta praticamente umoristico. Va detto che La palisiada come opera non è precisamente ironica; perlomeno, non lo dà scopertamente a vedere. L’umorismo nero di Sotnychencko rimane sottotraccia ma, forse proprio per questo, la sua azione finisce per essere ancora più corrosiva. Non è un film semplice, La palisiada: in qualche momento può sorgere il dubbio che ci sia stata qualche magagna nel montaggio e si stia guardando qualcos’altro; poi lentamente, le tessere non tornano al loro posto, questo no, ma si comincia ad avere la percezione che ci sia un disegno nascosto nel racconto filmico di Sotnychencko, una sorta di mosaico da ricostruire. Con un’unica visione del film, è difficile chiedere di più allo spettatore, che finisce nel migliore dei casi affascinato dai dialoghi, dalla rada ironia, dalla costruzione delle scene, dai pochi ma fulminanti passaggi tragicamente bruschi del racconto. Ma per cogliere meglio il film di Sotnychencko occorre un minimo sforzo in più, una seconda visione è infatti non solo consigliabile ma diviene addirittura avvincente: ora i pezzi del puzzle sembrano combaciare, seppure il giovane regista ucraino lavori a molti livelli contemporaneamente mantenendo sempre al suo racconto qualcosa di sfuggente. Il titolo, secondo l’autore, dovrebbe fare riferimento alla «verità» che emerge dall’indagine che sorregge la trama del film, e che, una volta chiusa con l’arreso e la condanna dell’imputato, viene definita appunto lapalissiana. Il che dovrebbe significare che il risultato fosse a tal punto ovvio e scontato, che le indagini finiscano per essere ridondanti: niente affatto, sulla colpevolezza del condannato rimane più di qualche dubbio. Al di là di questo, va detto che il termine La palisiada interpreta a pennello lo spirito di un film singolare come quello di Sotnychencko: da un certo punto di vista ne è la completa negazione, visto che di palese, ovvio, non c’è nulla, da un altro tutto quanto è, tuttavia, ridondante. Una situazione, quindi, paradossale: è come ribadire qualcosa che non è chiaro, finendo per confondere ancora di più le cose, lasciando comunque senza parole l’interlocutore. Questa strategia di lavoro sembra una delle tante eredità del passato sovietico, di cui il racconto principale, ambientato nel 1996, è ancora grondante: ripetere con forza, con autorità, aiuta a convincere anche gli scettici; aggiungendoci il carico di una parola altisonante come La palisiada, nessuno avrà più da obiettare alcunché. 

Che è un po’ il primo stato d’animo di chi assiste al film: cosa si può dire di un’opera se il senso sfugge e nemmeno si riescono a cogliere i riferimenti? In questa fase, La palisiada rischia di essere rigettato completamente dal pubblico e sarebbe un vero peccato perché il film di Sotnychencko è davvero notevole. L’autore, per quanto ermetico, è tuttavia abilissimo nel seminare dettagli che, lentamente, carburano nella testa dello spettatore cominciando ad incasellarsi al posto giusto. Il tema della ridondanza, un argomento strettamente legato alla retorica imperialista sovietica, non è poi difficile da cogliere, ad uno sguardo più attento: nel film, moltissimi eventi avvengono due volte, a conferma che la ripetitività è il leitmotiv del racconto. Due sono i morti ammazzati da un colpo di pistola, due i tempi del racconto –l’incipit e il corpo narrativo vero e proprio– due le volte che si ascolta la canzone popolare rutena O sheep, my sheep, due le volte che il treno passa costringendo il mercatino a sloggiare dai binari, due le «ricostruzioni del crimine», due le volte che la ragazza «stende» il coetaneo, e via di questo passo. Per accentuare l’idea di ripetitività, nei raddoppi meno espliciti, il regista lavora ulteriormente con la trama: ad esempio, sia l’incipit che il racconto vero e proprio cominciano con una perlustrazione delle pareti dell’appartamento di Alexander (Andrii Zhurba) che termina, in entrambi i casi, con uno sguardo dal balcone verso la strada. Questo parallelismo chiarisce il collegamento tra i due tronconi del film, il primo più breve e domestico, ambientato nel presente, e la storia criminale degli anni Novanta. Proprio essere posta in principio, prima dell’inizio del film, ci dice che questa è la parte più urgente, quella più significativa. La relazione tra il presente –il cui intermezzo dal sapore televisivo, con la scena della mostra artistica che si inserisce come fosse un servizio realizzato per il piccolo schermo, rafforza il concetto di quotidiano– e il passato, suggerisce che quanto vediamo di aberrante nel finale del prologo, l’esplosione inaudita e immotivata di violenza, è il riflesso di ciò che avviene nel finale della seconda e più corposa parte del film. La palisiada si chiude in effetti con l’improvvisa ed imprevedibile brutale uccisione dell’accusato dell’indagine: seppure questi fosse stato condannato a morte, l’esecuzione lascia del tutto senza parole. 

Da notare che la pena capitale sarebbe stata abolita di lì a pochi mesi, quando l’Ucraina avrebbe finalmente aderito al protocollo n.6 alla Convenzione Europea sui diritti fondamentali dell’uomo. Non si tratta di dettagli secondari ma, al contrario, stanno all’origine del soggetto. Dice, in proposito dell’idea alla base del suo film, il regista Sotnychencko: “Sono partito dal fatto che, fino al 1996, in Ucraina esisteva la pena di morte. Poi, allontanandomi da questo, ho cominciato a ricordare la mia infanzia. Il tema della pena di morte è in qualche modo passato in secondo piano. Stava già diventando una storia non sull’ultima esecuzione, ma sulle persone che vivevano a quel tempo e sui loro figli che sono vivi adesso”. [Natalia Serebriakova, Philip Sotnychencko regista di La palisiada, dal sito Cineuropa, pagina web https://cineuropa.org/it/interview/437853/ visitato l’ultima volta il 27 agosto 2024]. Lo spunto della pena di morte passerà anche in secondo piano, ma è innegabile che sia un collegamento con l’Unione Sovietica, mentre proprio l’adesione a normative più conformi alla mentalità europea ne determineranno, per fortuna, l’accantonamento. Nonostante Sotnychencko cerchi di minimizzare le connessioni in proposito, ecco che il conflitto con la Russia, sempre in antitesi all’Europa, emerge in modo abbastanza lampante. In ogni caso, sull’argomento, queste le considerazioni del regista in un’intervista rilasciata a Il Manifesto: “Me ne sono accorto sin dalla prima proiezione, al festival di Rotterdam, lo scorso gennaio. Il pubblico vede nel film il riflesso dell’invasione russa, e invece quando è iniziata la guerra eravamo già in post-produzione. Però è molto interessante questo processo, mostra come ciascuno tende a interpretare le cose connettendole alla propria esperienza che oggi a livello mondiale per l’Ucraina è quella del conflitto”. Osservazione pertinente, ma la giornalista lo incalza: “Dicevi che il pubblico tende a vedere nel film un legame con la guerra. Forse al di là delle connessioni più immediate c’è qualcosa che suggerisce una origine lontana di quanto accade ora”. Replica Sotnychencko: “La guerra non ci ha sorpresi, molti di noi lo sapevano già prima di Biden o del Pentagono che la Russia ci stava invadendo. È almeno dal 2014 che si combatte, per chi vive nella capitale la percezione è forse diversa ma chi abita nelle regioni coinvolte lo sa bene. Poi la Russia nega come ha sempre fatto su tutto. Anche per questo ho voluto lavorare sulle relazioni tra le persone, credo che è dove si concentrano maggiormente i rimossi di questi anni. Risolvere il mistero dell’indagine non è così importante, conta l’investigazione delle anime e le domande che ogni fatto accaduto pone.” Infine, alla precisa domanda “Stai filmando la guerra? Raccogliendo materiali di documentazione?” il regista conclude: “In realtà no, ci sono già altri registi ucraini a filmare e senz’altro lo fanno molto meglio di me”.  [Cristina Piccino, La Palisiada, l’Ucraina nei ricordi d’infanzia della mia generazione, dal sito de Il Manifesto, pagina web https://ilmanifesto.it/la-palisiada-lucraina-nei-ricordi-dinfanzia-della-mia-generazione, visitata l’ultima volta il 27 agosto 2024]. Eppure l’impressione è che la Piccino abbia ragione: la guerra tra ucraini –che siano «filo ucraini» o filo russi, agli occhi degli occidentali è difficile scorgere la differenza– ha spiazzato tutti allo stesso modo in cui, nel finale dell’incipit del film, vediamo la ragazza risolvere in modo definitivo la discussione con il coetaneo. Insomma, per la violenza dilagante che c’è in Ucraina oggi, certamente andrebbe chiesto il conto prevalentemente a Mosca, d’accordo; però guardando la materializzazione dei ricordi di infanzia di Sotnychencko qualche dubbio sugli eventuali residui nella coscienza del paese può venire. Come detto, il tono del racconto è sottilmente umoristico, ma non per questo meno caustico. Come accennato, siamo alle prese con una crime story e il caso riguarda l’omicidio di un colonnello della polizia. A condurre l’inchiesta è l’investigatore Ildar (Novruz Hikmet), che è il coprotagonista insieme al citato Alexander, lo psichiatra forense che lo affianca nelle indagini. Ildar ha una figlia piccola, Alexander un figlio; i due bambini, una volta cresciuti, sono tra i personaggi dell’incipit e gli assoluti protagonisti della spiazzante scena citata, quella chiusa con un colpo di pistola. È forse l’origine di questa immotivata follia, che stiamo cercando nel passato; una mancanza di senso che è un altro dei percorsi sottotraccia che propone il film. Ovviamente il rimando scontato è all’attuale guerra –nonostante le parole del regista nell’intervista citata– il cui senso in occidente continua sostanzialmente sfuggire nonostante si combatta da anni. Ma nel film ci sono dei rimandi precisi che indicano il concetto di vuoto, mancanza, perdita: per esempio, il ragazzo, nell’incipit, è in un appartamento spogliato della mobilia e ha precedentemente perso il treno. 

Quando poi si unisce agli altri giovani amici, la serata è piena zeppa di chiacchere, dalle quali si ricava poco; si discute di cinema, criticando le americanate coi super-eroi ma non si riesce, probabilmente, nemmeno a essere veramente toccati dall’arte con l’«A» maiuscola, quella degli Uffizi di Firenze. Questi ragazzi sono persone che possono al massimo discutere di tatuaggi –simbolo assoluto della superficialità del momento globale e non solo ucraino, per la verità– di cui nemmeno chi se li è fatti fare si ricorda più quale significato possano avere. In ogni caso, tutto ciò riguarda il corposo incipit e, a questo punto, stiamo già occupandoci dell’indagine, nella quale si fanno rapidamente passi da gigante. Grazie ad una testimonianza si cerca un uomo rasato: basta una violenta incursione in un covo di tagliagole ed ecco che, magicamente, vengono prelevati una decina di possibili indiziati. L’uomo che finirà per essere individuato come assassino non sembra molto presente, lucido, sebbene tra il momento dell’arresto e il confronto con la testimone, si scambi la giacca forse al fine di confondere le acque. Al riconoscimento, infatti, l’uomo si presenta con una giacca sportiva diversa rispetto a quella indossata durante il fermo, ma è evidente che non sia della sua taglia. In qualche modo gli inquirenti se ne accorgono e, una volta che l’indiziato ha indossato il suo indumento, viene riconosciuto come l’omicida. Forse. Perché tutta la questione della testimonianza –elemento chiave dell’indagine, per altro– è uno dei passaggi più ironici e sarcastici del film. Innanzitutto, la testimone è una donna muta: il che è ovviamente un dettaglio simbolicamente umoristico ma velenoso, di Sotnychencko. Fosse stata cieca, sarebbe stato paradossale; una testimone muta lascia invece intendere che possa anche aver visto, ma non possa parlare. Niente paura, c’è l’interprete: e qui, nei loro dialoghi, ci sono i passaggi più divertenti in assoluto del film. La testimone è costretta dagli inquirenti a ripetere per l’ennesima volta ciò che ha visto: mentre faceva il bagno in uno specchio d’acqua, sulla riva due uomini avevano una colluttazione, alla fine della quale il colonnello della polizia sarebbe rimasto sul terreno senza vita. La donna è stufa di ribadire le stesse cose con il linguaggio dei segni; l’interprete la sollecita e lei la minaccia di rivelare il perché fosse da sola, quel giorno, a fare il bagno. Il poliziotto vedendole discutere animatamente, chiede cosa abbiano da dirsi, ma l’interprete glissa, lasciandolo quanto mai perplesso. Come gli spettatori: a parte che la curiosa minaccia della sordomuta rimane inspiegata, in ogni caso, quello a cui assistiamo non sembra propriamente un interrogatorio. Poi la testimone ha un impulso di «loquacità» e si dilunga a raccontare come, sul momento, avesse pensato che i due fossero amanti, che si stessero baciando. Va detto che al pubblico, queste informazioni, arrivano dai sottotitoli che traducono il linguaggio dei segni durante i dialoghi. Il poliziotto che, al contrario, deve attendere la versione dell’interprete, si incuriosisce, scorgendo forse delle novità nel gesticolare della donna e ne chiede conto alla traduttrice. Questa taglia corto, evitando di riportare la faccenda degli amanti e riferendo che la testimone abbia visto i due uomini discutere; così, di sua iniziativa. Tuttavia, questa testimonianza sarà la chiave dell’indagine. Da notare che, durante una delle ripetizioni delle ricostruzioni della scena del crimine – di cui la seconda fatta sotto un diluvio torrenziale– nello specchio d’acqua c’è un tizio a mollo e non sembra affatto nella posizione ideale per vedere alcunché. Ciononostante l’indagato è processato e condannato e, infine, ucciso senza troppe cerimonie, in una cella che, per macabra ironia, si trova, nella realtà, nella prigione di Bucha, località, in seguito, divenuta tristemente nota per il massacro perpetrato dai soldati russi a danno della popolazione civile. E, anche se questa è, evidentemente, soltanto una coincidenza, forse possiamo anche prenderla come un segno. La violenza, anche quella fatta ai poveri disgraziati come il personaggio del condannato di La palisiada, porta frutti che non sono mai buoni. E anche se ci può volere un po’ di tempo, poi maturano sempre.

lunedì 9 settembre 2024

IL TESTIMONE

1543_IL TESTIMONE (Svidetel')Russia 2023; Regia di Sergej Volkov.

Sul momento, l’aspetto più interessante de Il testimone di David Dadunashvili è una sorta di effetto collaterale del film che, perlomeno in Italia, si è manifestato in modo eclatante. Innanzitutto si può dire che quello di Dadunashvili non è che sia un capolavoro della Settima Arte; tuttavia rappresenta la possibilità di sentire – o meglio vedere e sentire, dato che è un film – la «campana russa» nel merito dell’escalation nella crisi tra Mosca e Kyïv. Anche unicamente questa motivazione dovrebbe renderci Il testimone una fonte preziosa. Naturalmente esiste il rischio, ed è anche probabile, che, essendo Il testimone una produzione russa, sia intriso della propaganda del Cremlino, ma questa è un’eventualità con cui dobbiamo, grosso modo, convivere sempre. Chi garantisce che le opere prodotte nel mondo occidentale siano obiettive? O, per restare nella questione specifica, chi ci assicura sull’attendibilità dei testi provenienti dall’Ucraina? Non è un mondo facile, quello di oggi; l’unica consolazione è che non lo è mai stato. In ogni caso, grazie all’opera di alcuni attivisti [legati al canale Donbass Italia, almeno stando al sito La Riscossa, http://www.lariscossa.info/il-testimone/, visitato l’ultima volta il 18 agosto 2024] il film di Dadunashvili ha ottenuto una pur sparuta distribuzione nel Belpaese. Senonché, in alcune circostanze, tra cui quella di Bologna, siano incorse alcune difficoltà. Il comune felsineo, appreso che presso la «casa di quartiere» di Villa Paradiso, un luogo istituzionale, era in programma Il testimone, film definito “di propaganda anti-ucraina”, ha diramato, tramite comunicato stampa, la propria contrarietà alla proiezione dell’opera oltre ad una richiesta ufficiale di non procedere alla stessa. Veemente la replica del Coordinamento Paradiso, l’associazione che aveva organizzato l’evento: in ballo c’era –e c’è– la libertà di comunicazione. [Queste informazioni sono reperibili su http://www.inthenet.eu/2024/01/05/il-testimone/ visitato l’ultima volta il 18 agosto 2024].
In effetti, il problema sollevato dalla citata organizzazione, e fatto proprio da tutto l’ambiente della odierna «controcultura», non è affatto campato per aria. L’opera di Dadunashvili è, effettivamente, un’opera intrisa di propaganda filorussa, del resto il film è stato realizzato con i contributi del Ministero della cultura russa
[dalla pagina italiana del film di Wikipedia, http://it.wikipedia.org/wiki/Il_testimone_(film_2023)#cite_note-6, visitata il 18 agosto 2024, che rimanda ai siti http://tass.ru/kultura/15970485 e http://"Это фильмы не для заработка с проката". Кинокритик Иван Филиппов объясняет, кто и почем делает к нопропаганду РФ о войне в Украине (currenttime.tv)и] e il Cremlino è al momento impegnato in guerra contro l’Ucraina: normale –non giusto o condivisibile, ma normale inteso come «nella norma»– quindi, che utilizzi ogni mezzo per cercare di prevalere. 


La Storia del cinema è piena zeppa di esempi del genere; e si tratta di film realizzati ad ogni latitudine, sia chiaro. Tutto questo, di per sé, non è, quindi, così insolito; forse è grave, ma dovremmo almeno averci fatto il callo, se non proprio preso le contromisure. Se non dobbiamo credere in modo acritico a tutto ciò che vediamo e leggiamo in un documentario, sulle pagine dei giornali, nei servizi dei notiziari o su internet, men che meno lo si deve fare a fronte di un’opera di finzione come è Il testimone. Questa è, grosso modo, la tesi dei giornalisti che hanno tuonato contro la censura di regime di quei comuni, come Bologna, che hanno ostacolato la libera circolazione del film. Se ne può avere riscontro su alcuni siti, tra cui La Riscossa [http://www.lariscossa.info/il-testimone/ visitato il 18 agosto 2024], Marx21 [http://www.marx21.it/cultura/il-testimone-il-film-russo-che-in-italia-non-deve-essere-visto/ visitato il 18 agosto 2024] e In The Net [http://www.inthenet.eu/2024/01/05/il-testimone/ visitato il 18 agosto 2024]. Esplicito, della denuncia di questi siti, il titolo del citato articolo di Marx21: “Il testimone, il film russo che in Italia non deve essere visto” che, in modo sottointeso, reclama sin da subito il diritto dello spettatore di farsi liberamente una propria idea. E su questo non ci possono essere obiezioni.
Quello che la vicenda ha messo in clamorosa evidenza è la schizofrenica incapacità dell’élite culturale italiana, sia che si tratti di giornalisti, politici, intellettuali o uomini delle istituzioni, di accettare anche solo la presenza di una voce fuori registro. Il mondo occidentale si autodefinisce libero e, in nome di questa libertà, contempla la presenza di alcune dissonanze dal coro –le minoranze di etnia, di religione o nell’ambito di identità e preferenze sessuali– ma su certi argomenti è proibito dissentire dall’ideologia mainstream. Uno degli effetti indesiderati di questa censura preventiva, che vuole mettere a tacere chi prova a raccontare qualcosa di diverso dalla “versione di regime”, è che lascia la possibilità ai dissidenti di paventare chissà quali ragioni anche qualora esse siano infondate. Dal momento che è impossibile essere immuni dalla “propaganda di regime”, vera o presunta che sia, può essere interessante, prima di affrontare il film di Dadunashvili, introdurlo con qualche spunto preso da quella controcultura che ne reclama l’importanza. Così, giusto per non incorrere nel rischio di bollarlo come flop artistico oltre che al botteghino; posto che le notizie circolanti, a proposito del riscontro al box office dell’opera, siano attendibili.


E poi, in effetti, le domande della giornalista Agata Iacono di Marx21 sembrano legittime e spontanee: “Non sanno, forse, che si tratta a tutti gli effetti di un film, cioè di un soggetto scritto e sceneggiato, musicato e recitato da attori, mai spacciato per documentario? E, soprattutto, perché si affannano tanto a boicottare e dichiarare fallita un’opera cinematografica che è stata proiettata per la prima volta in Italia, a Roma, il 22 ottobre e, ad oggi, solo attraverso circuiti alternativi, in piccole salette noleggiate, su iniziativa del Comitato Italiano per il Donbass, con ostacoli di ogni tipo, pressioni politiche bipartisan, censura, divieto di distribuzione nelle sedi istituzionali? Fa così paura questo film?” [
http://www.marx21.it/cultura/il-testimone-il-film-russo-che-in-italia-non-deve-essere-visto/ visitato il 18 agosto 2024]. Forse, i motivi di questa paura, sono quelli addotti da Simona Maria Frigerio su In The Net: “Un’opera che non gronda della retorica statunitense di un Salvate il Soldato Ryan, ma che mira a regalarci –attraverso un uso della macchina da presa morbido e intimo– la narrazione di fatti recenti, ma da un altro punto di vista. E sebbene il film sia pura fiction, molti riferimenti non lo sono –come avviene spesso nelle pellicole di guerra”. [http://www.inthenet.eu/2024/01/05/il-testimone/]. Quindi, si tratterebbe di un film di finzione, ma qualcosa di vero c’è; il che sembra ragionevole. Alessandro Baroni su La Riscossa chiarisce ulteriormente: “Insomma, tutto sommato siamo di fronte a un film che lancia un messaggio di speranza. Agli occhi di Dadunashvili il grosso problema degli europei è l’ignoranza. Un problema reale che si fonda sul ferreo controllo del sistema socialmassmediatico da parte di un’oligarchia finanziaria che non permette alle voci critiche di arrivare al grande pubblico”. [http://www.lariscossa.info/il-testimone/].

Dunque, cosa c’è di tanto inopportuno ne Il testimone, questo film ritenuto scomodo dalla élite e osannato come opera di primissimo livello dai citati siti di controcultura? Perché, a proposito, stando a questi stessi recensori, siamo di fronte ad un lungometraggio da leccarsi i baffi. Scrive, Agata Iacono: “Ma il film non è un film violento, non concede spazi alla cruda realtà dell’orrore e della violenza inutile, inspiegabile, ingiustificabile, com’è la violenza della guerra. Di tutte le guerre. La sfiora, tra scenografie impressioniste e colonna sonora di elevatissima qualità, soffermandosi su un volto di un bambino, un dolore muto, un’assenza, una frase, una carezza dell’anima, un vuoto di tempo e di spazio. «Un capolavoro», hanno gridato in sala con un applauso lunghissimo. È arte: e l’arte è universale, trascende la propaganda. Daniel Cohen sarebbe potuto essere ovunque e in ogni tempo. Lui si salva, intuisce la trappola, il sacrificio, cui era destinata l’intera popolazione del paesino ostaggio dei neonazisti, perché fosse messo in scena un atroce attacco russo. L’epilogo, il finale, è, secondo me, la chicca che fa de Il testimone un film da non perdere. L’illustre e famosissimo violinista belga viene invitato, naturalmente, dalle televisioni europee a raccontare la sua drammatica esperienza. È il testimone. Ma quando prova a raccontare la verità alla TV belga… (per chiarezza di informazione, la recensione termina così, coi puntini di sospensione, NdA). [Agata Iacono, Il testimone, il film russo che in Italia non deve essere visto, da Marx21 letta su http://www.marx21.it/cultura/il-testimone-il-film-russo-che-in-italia-non-deve-essere-visto/ visitato il 18 agosto 2024]. Simona Maria Frigerio: “Nel confronto tra il protagonista, l’eccellente, spaesato, inconsapevole e umanissimo Karen Badalov –nel ruolo del violinista mr. Cohen– e il suo antagonista (come da tragedia greca) –l’altrettanto bravo Alexander Dyachenko– ciò che ci ha colpiti di più è l’accusa mossa contro un bambino del Donbass che afferma di chiamarsi Misha –e non usa Mykhailo (il corrispettivo in ucraino). Il nazionalismo spinto fino alla pulizia etnica contro i russofoni, del resto, non è diverso dalla «missione biblica» degli israeliani di creare la «grande Israele» attraverso il genocidio del popolo palestinese”. [Simona Maria Frigerio, Perché dà tanto fastidio un film russo? da In The Net, letta su http://www.inthenet.eu/2024/07/19/il-testimone-un-finale-che-e-un-inizio/ visitato l’ultima volta il 19 agosto 2024]. Alessandro Bartoloni non si spinge troppo in là in valutazioni artistiche, ma affronta il testo da un punto di vista tecnico: “Pertanto, non siamo di fronte a un documentario, bensì a un prodotto dell’industria cinematografica che sfida l’egemonia statunitense sul difficilissimo terreno dell’intrattenimento. Lo scopo è quello di agganciare il pubblico non politicizzato, che ascolta le notizie distrattamente e finisce per farsi trascinare dalla corrente. Insomma, il «target» è la grande massa che accoglie e riproduce il «sano e semplice buonsenso» su cui si fonda la narrazione dell’aggressione e dell’aggredito. Il protagonista, infatti, malgrado sia oggettivamente un intellettuale, non sa nulla di quanto accaduto tra Russia e Ucraina negli ultimi anni. Non conosce il colpo di stato orchestrato dagli Stati Uniti, il massacro della casa dei sindacati di Odessa, la guerra in Donbass. E così, quando si ritrova ad avere a che fare con i tagliagole nazisti del battaglione Azov, non ha la minima idea di chi ha di fronte”. [Alessandro Bartoloni, Il testimone, da http://www.lariscossa.info/il-testimone/ visitato il 19 agosto 2024]. Da questi stralci ci si può fare un’idea di come i nostrani attivisti della controcultura abbiano inteso Il testimone. Si potrebbe dare spazio finalmente al film in questione, eppure, proprio la verve dei nostri volenterosi militanti introduce alcuni problemi utili ad inquadrare ancor meglio la faccenda. Ad esempio: perché, stando all’articolo di Agata Iacono, l’arte, salva Il testimone dall’essere film di propaganda, mentre non sembra affatto fare lo stesso con Salvate il soldato Ryan? Perché, nella recensione di Alessandro Bartoloni, si sottolinea come il protagonista non conosca “nulla di quanto accaduto tra Russia e Ucraina negli ultimi anni” e poi si citano unicamente tre eventi che sono, diciamo così, favorevoli a Mosca? Sono gli unici fatti tragici che sono accaduti? La Russia, che ha inviato carri da guerra, aerei da combattimento e soldati armati fino ai denti –su un suolo, questione linguistiche e culturali delle minoranze a parte, che è formalmente un paese sovrano diverso– non ha davvero niente di cui essere rimproverata?
Lo sentite? Lo sentite questo rumore, questo stridere?
Sono le unghie dei nostri cari attivisti che cominciano a scivolare sui vetri.


E ora, passiamo finalmente a Il testimone di David Dadunashvili, film modesto e poco avvincente che dissemina di dettagli atti a propagandare, è davvero il caso di dirlo, una certa idea sulla spinosa questione ucraina. Cominciamo col protagonista, il violinista Daniel Cohen (Karen Badalov), il cui profilo ci rivela subito una serie di indizi. È belga, e questo rimanda direttamente a Bruxelles, sede di varie istituzioni dell’Unione Europea; è, al contempo, di evidente origine ebraica, fatto che aiuterà a rievocare l’Olocausto unitamente alla presenza dei neonazisti ucraini, al numero scritto sulla mano, ai campi di tortura e ai viaggi forzati in treno. Ma è anche un artista, un intellettuale e questo fa di lui il perfetto testimone, quello convocato a cominciare dal titolo e, come tale, ha il privilegio di conoscere la verità. Anche perché l’arte, quando raggiunge la purezza, è sempre vera. Ha quindi ragione Agata Iacono; il problema è che il paragone gode della proprietà commutativa e, se un’opera si tiene a debita distanza dall’arte, è probabile che finisca altrettanto lontano anche dalla verità. Ma procediamo con ordine. Tra i vari appunti che si possono cogliere, c’è lo sfogo dell’agente di Cohen, Bridget (Serafima Nizofima), che, quando il loro viaggio a Kyïv comincia a prendere una piega sinistra, usa parole di disprezzo per gli ucraini. Il passaggio è costruito come se le parole sputate con rabbia dalla donna corrispondano al vero sentimento comune europeo –Bridget si presuppone sia belga, come il suo assistito– nei confronti dei paesi dell’estremo est Europa. Un elemento tipico del cinema russo di propaganda recente: si cerca una giustificazione all’odio –odiamo gli europei perché loro ci odiano– piuttosto che provare reali segnali di distensione. Alcuni di questi dettagli –utili a creare una situazione generale che induca a farsi una certa idea– che corroborano il messaggio centrale più diretto, sono sfumati, o anche solo simbolici. Come l’orsacchiotto di peluche –l’orso è il simbolo per antonomasia della Russia– che accomuna i due ragazzini del film, e che è una delle poche figure di speranza dell’intera opera. Questo cesellato lavoro in sede di scrittura si può cogliere perfino nelle parole del «cattivo», l’ufficiale ucraino Panchak (Alexander Dyachenko). Quando Cohen, prigioniero dei neonazisti ucraini di cui Panchak è il comandante, vede tra gli ostaggi un ragazzino che gli ricorda il figlio, l’ufficiale coglie l’occasione per un paragone “Tutti ricordano qualcuno; qualcuno sembra un figlio; qualcuno somiglia al padre. L’Ucraina è come uno stato”. In pratica, lo stesso Panchak ammette che l’Ucraina non sia un vero stato, gli somigli solamente. Questi particolari che sembrano buttati là un po’ distrattamente, ma sono tutti concordanti con la tesi principale, non sono che dettagli, certo; il loro è un compito di sostegno. Ad alimentare con vigore la tesi su cui è impostata la narrazione di finzione, ci sono tutti gli espliciti rimandi ai nazisti, il Mein Kampf, il quadro con Hitler, la musica composta da Horst Wessel, militare tedesco che compose l’inno nazista, e i già citati rimandi all’Olocausto. Il tutto per ribadire come le formazioni militari e paramilitari della Azov, dell’Aidar, della Tornado, e via tutte le altri, siano nazisti per cui la guerra è l’unica soluzione. Le parole che il regista Dadunashvili mette in bocca a Panchak, legittimano poi l’azione bellica russa in quanto è lo stesso comandante dell’Azov ad ammettere che la guerra è l’unico modo di affermare il diritto di esistere.
Interessante, da un punto di vista della strategia della comunicazione di guerra –leggi, propaganda– sono poi le velate illazioni alle assonanze tra luoghi ucraini tristemente noti per eventi tragici legati alla guerra e alcune parole inglesi: Bucha e butcher’s (macelleria), Kramatorsk e crematory (crematorio), a cui si aggiunge il Semidveri –nome del villaggio del film– e cimitery (cimitero). Ma Cohen, nel finale, svela l’inganno: Semidveri significa «sette porte» e non cimitero.  Quindi, così come i media occidentali hanno utilizzato strumentalmente l’assonanza del termine «cimitero» per riferirsi alla strage di Semidvery, allo stesso modo –si intende con una sottile allusione– devono aver fatto per quelle del «macello» di Bucha e del «crematorio» di Kramatorsk.  
E fin qui non ci dovrebbe essere niente da dire; si è detto, è un film di finzione, con qualche spunto veritiero, e non è dato sapere quale sia.
Beh, si è usato il condizionale non per caso, perché qualcosa che stona c’è eccome.
Seppur vogliamo concedere le «attenuanti» da film di propaganda, cosa non necessaria secondo i recensori della controcultura, Il testimone si presenta in modo curioso: se prendiamo il citato Salvate il soldato Ryan, che, secondo Agata Iacono “gronda retorica statunitense”, c’è qualcosa che salta all’occhio subito. Nel film di Spielberg ci sono gli americani, quelli che stando alla giornalista di Marx21 si occupano di fare propaganda; poi ci sono anche i tedeschi, per la verità, ma al centro della scena ci sono Tom Hanks e Matt Damon nei panni di due yankee purosangue. Nel film di Dadunashvili, che vorrebbe riequilibrare la retorica anti-russa, di militari del Cremlino non ve n’è praticamente traccia. Per la verità, sono russi quegli sparuti e assai poco credibili samaritani in divisa sui cui mezzi militari campeggia una «V» bianca, non famosa nei nostri lidi come la famigerata «Z», ma si tratta comunque di un’insegna inequivocabile. Per il resto, c’è qualche vago accenno a missili russi e ad un attacco russo, ma appare chiaro che, nell’ottica del film, la responsabilità della guerra e del massacro nella stazione di Semidveri sia da attribuire unicamente a Panchak e ai suoi criminali nazisti. In sostanza, Il testimone è un film russo su una guerra tra Russia e Ucraina, nel quale i soldati di Mosca non sono che fugaci comparse e quelli di Kyïv criminali della peggior specie. Può essere credibile un simile punto di vista? Non certo nell’ottica di proporsi come film pacifista. Per capirci, pensate al sergente tedesco Artur de La grande illusione [
1937, Jean Renoir], al quale i detenuti di guerra francesi si affezionano o ai due soldati, uno francese e uno tedesco, nella buca di All’ovest niente di nuovo [1930, Lewis Milestone]. Sono due film degli anni Trenta, uno francese e uno americano, formalmente non c’era nessuna attività bellica che coinvolgesse gli stati dei paesi produttori delle due opere, ma non serve essere degli storici per sapere che, già nel periodo tra le due guerre, i tedeschi erano ritenuti i «cattivi» ideali, dal momento che il Trattato di Versailles del 1919 –con la «clausola di colpevolezza» dell’articolo 231– accusava la Germania di essere la principale responsabile del conflitto messo in scena nei due film citati. C’è poi un aspetto che riguarda l’uso della musica: ne Il testimone ha un ruolo determinante, sia per la professione del protagonista, è un violista famoso, sia per la sensibilità di questi in qualità di artista, che –proprio attraverso l’interpretazione dell’attore Karen Badalov intrisa di profondo sgomento– il regista cerca di traferire alla sua opera. Il passaggio centrale poi, si gioca sulla contrapposizione tra la soave musica del violino di Cohen e i beceri canti belluini dei militari ucraini. In sostanza si rimarca la mancanza di umanità, di sensibilità dei soldati dell’Azov utilizzando la musica come metro di comparazione. Si prenda il finale di Orizzonti di gloria [1957, Stanley Kubrick] con la ragazza tedesca che canta in mezzo ai soldati francesi, per avere un’idea non solo di vero cinema commovente ma di come si cerchi una reale condivisione, una riappacificazione, con l’altro, il nemico.
Forse, il film di Dadunashvili racconta davvero la verità; ma certo non vi arriva tramite il percorso artistico. Perché quando si dice che “l’arte trascende la propaganda” si deve intendere proprio che l’artista non deve incorrere mai nelle logiche meschine del proprio interesse o di quello della sua fazione, nazione o qualunque sia l’appellativo della sua parte in causa. L’arte è qualcosa che nasce da uno spunto personale e deve crescere dal proprio interno: per questo, in genere, in casi di opere di natura bellica vi si riscontra una nota di autocritica. Certo, un gigante come Lewis Milestone –americano di origine russa– poteva prendere un testo profondamente tedesco come Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque ed interpretarlo alla perfezione. C’è una critica alla Germania dell’epoca e alle sue dottrine militariste, ma c’è anche l’umanità dei ragazzi tedeschi che incautamente si arruolano per poi pentirsene amaramente. Ne Il testimone, i pochissimi abitanti dell’Ucraina che sembrano dotati di umanità, uno per tutti il piccolo Misha –non a caso citato come passaggio simbolico nella citata recensione della giornalista di In The Net– sono russofoni.
L’arte, per essere tale, deve nascere dal cuore, dall’animo; e non dagli interessi di bottega, di paese, di popolo e, men che meno, di patria. E, proprio negli ambienti della controcultura, questo dovrebbe essere chiaro, tra l’altro. Tornando in tema strettamente artistico, l’arte è, in sostanza, il frutto di un esame di coscienza, che poi si traduce in qualcosa di concreto; più profondo è l’esame, più profondo è l’animo dell’artista, migliore e più pura sarà l’arte. E allora raggiungerà la vetta della Verità Assoluta. Ma che esame interiore ci può essere in un film di un autore georgiano che lavora per una produzione russa, e fa un atto di durissima accusa agli ucraini, togliendo totalmente dal confronto ogni controparte? Se la speranza di avere una voce fuori dalla “retorica imperialista” che sia attendibile, dobbiamo aspettarcela da Il testimone, stiamo freschi.
Così come se sperassimo di trovare uno sguardo almeno un pizzico meno fazioso della propaganda di regime, e pretendessimo di trovarlo negli ambienti ancora più ottusamente schierati della nostrana controcultura.   



sabato 7 settembre 2024

IRON BUTTERFLIES

1542_IRON BUTTERFLIES Ucraina, Germania 2023; Regia di Roamn Liubyi.

Il secondo lungometraggio di Roman Liubyi è un altro documentario di guerra, stavolta più curato nella forma rispetto allo scarno esordio di War note. Il titolo di questa nuova opera lascia già intendere una vena in qualche modo poetica: Iron butterflies, infatti, nonostante il mortale significato, riesce anche ad evocare una sorta di rispettoso pensiero alle moltissime vittime della vicenda al centro del documentario. Ad essere sotto l’obiettivo di Liubyi è l’abbattimento dell’aereo malese di linea MH17 per la cui responsabilità una sentenza del tribunale olandese, nel novembre 2022, ha condannato all’ergastolo due cittadini russi e un ucraino filorusso, oltre a stabilire il coinvolgimento della Federazione Russa stessa. Da un punto di vista cinematografico si era già occupato della faccenda il documentario Bellingcat di Hans Pool, che aveva mostrato come le immagini che smascheravano l’incursione del famigerato Buk-Telar russo in territorio ucraino fossero state recuperate dal Web in quei contenuti di libero accesso e varia natura. Giova forse ricordare che il Buk-Telar è il sistema missilistico mobile dal quale, secondo le ricostruzioni, era partito il missile responsabile dell’abbattimento dell’MH17. A toccare l’argomento del volo di linea malese, a livello cinematografico più alto, c’era stato poi Klondike, splendido film di Maryna Er Gorbach, che viene citato in una delle scene teatrali che infarciscono Iron butterflies. Queste evocative e simboliche sequenze confermano la volontà di Liubyi di fare un’opera anche poetica e non solo di denuncia. Con l’aiuto dei coreografi Bridget Fiske, inglese, e Anton Ovchinnikov, ucraino, quest’ultimo anche coinvolto direttamente come attore figurante, Liubyi ha allestito una serie di brani che stilizzano la sua interpretazione dei fatti, facendo proprie, peraltro, le conclusioni delle indagini del JIT. Il Join Investigation Team, è stata una squadra investigativa, istituita con lo scopo preciso di far luce su questi eventi, composta da membri di Australia, Belgio, Paesi Bassi, Ucraina e Malesia e si occupò delle indagini in ambito penale. I risultati del suo lavoro, il JIT li presentò nel 2016, mentre, come detto, è solo di fine 2022 la sentenza del tribunale olandese; Iron butterflies, non è, quindi, particolarmente tempestivo e interviene su una vicenda ormai abbastanza nota. 

Ma con moltissimi, davvero troppi, punti oscuri. Dice, infatti, a proposito del titolo, che significa «farfalle di ferro», il regista: “È il modo più succinto per descrivere esattamente ciò che ha ucciso 298 persone: schegge del razzo Buk, sotto forma di cubi e farfalle. La «farfalla di ferro» è l’elemento del razzo che colpisce il bersaglio. Questo nome mi è sembrato molto azzeccato perché è aggressivo e oscuro allo stesso tempo. Ma, allo stesso tempo, è poetico ed evoca l’aria, quindi mi è sempre sembrata una buona decisione”. [Natalia Serebriakova, Roman Liubyi, regista di Iron Butterflies, dal sito Cineuropa.org, pagina web http://cineuropa.org/en/interview/437486/ visitata l’ultima volta il 23 agosto 2024]. E, sempre secondo Liubyi, il suo non è in nessun caso un intervento in ritardo, visto che ci sarebbe una correlazione tra l’abbattimento del volo MH17 e l’escalation del conflitto voluta da Mosca. “Credo sia molto importante, tenendo presente questo caso, ribadire che la guerra non è iniziata nel 2022. È iniziata nel 2014. È importante capirlo e rendersi conto che è stato sprecato molto tempo. L’MH17 è, a mio parere, uno dei motivi per cui è iniziata un'invasione su vasta scala”. [Ibidem].
Iron butterflies è un documentario costituito da immagini non solo di origine reale ma anche di natura diversa, come detto ci sono anche scene di stampo teatrale, e poi pittoreschi filmati di repertorio dell’epoca sovietica, sebbene gli elementi più significativi siano forse presi dalle fonti contemporanee russe. Ci sono le intercettazioni compromettenti, che il Cremlino accuserà di essere artefatte, le foto dei militari di Mosca «in posa» tra i rottami dell’areo, o i commenti della popolazione del luogo, raccolti dai social network, in cui gli abitanti filorussi non nascondono la soddisfazione per la bella operazione militare. In effetti, in principio, si pensava che ad essere stato abbattuto fosse un aereo di approvvigionamento militare per le truppe di Kyiv. 

Non mancano, naturalmente, i notiziari e altre scene televisive ma le più interessanti sono riguardanti un esperimento, si dice unico al mondo, in cui una società nazionale russa del settore degli armamenti, la Almaz-Antey, provò a riprodurre la scena dell’impatto. Venne presa la cabina di pilotaggio di un aereo di linea e gli fu scoppiato un missile nelle vicinanze, grosso modo alla distanza in cui si suppone sia esploso il 9M38, che causò la tragedia, rispetto al velivolo. Alcuni risultati smentirono le conclusioni delle indagini internazionali, ad esempio la foggia dei buchi nella carlinga dell’aereo provocati dalle schegge. Per la verità, all’occhio di un profano, sembra evidente che non deve essere la stessa cosa replicare una situazione dove ci siano due mezzi –l’aereo e il razzo– che volano a velocità elevate, evidentemente non concordanti per verso e/o direzione, utilizzando un missile e una cabina immobili. Questo esperimento dimostra semmai qualcos’altro: fossimo in un tribunale, sarebbe la definitiva ammissione del Cremlino che ad abbattere l’MH17 sia stato un sistema missilistico Buk-Telar, quando Mosca aveva in precedenza dichiarato che la responsabilità fosse di un caccia ucraino. Ma, soprattutto, dimostra quanto al presidente Putin e ai suoi uomini, al di là delle dichiarazioni di facciata, dia fastidio il ruolo di criminale che la comunità internazionale gli stia cucendo addosso. In questo senso, Iron butterflies è un altro tasto dolente, magari piccolo ma pur sempre fastidioso, per il Cremlino e, va dato atto a Liubyi di essere tanto efficace quanto credibile. Naturalmente non siamo di fronte al Vangelo; sta infatti sempre alla sensibilità e all’onestà intellettuale di ciascuno tirare le proprie conclusioni. Ove questo sia possibile. 

giovedì 5 settembre 2024

DEAR ODESA

1541_DEAR ODESA Italia 2022; Regia di Kyrilo Naumko.

Arriva dall’Italia, e nello specifico dalla scuola di documentari Zelig di Bolzano, questa interessante e sentita opera dedicata alla città di Odessa. La bellezza della città che si affaccia sul Mar Nero, la cui architettura neoclassica rivaleggiava in bellezza addirittura con San Pietroburgo, è da tempo minacciata. Dice Kyrilo Naumko a supporto del suo documentario di diploma intitolato significativamente Dear Odesa: “Non ho notato esattamente come e quando la vita a Odessa sia diventata insopportabile. Probabilmente negli ultimi due anni ho iniziato a provare una terribile sensazione di disgusto mista con amore. Ero irritato da molte cose: il sindaco che era un criminale, il disinteresse diffuso della maggior parte degli abitanti di Odessa verso i problemi della città e le costruzioni caotiche. Balconi di plastica sulle facciate degli edifici storici, condizionatori d’aria, enormi insegne pubblicitarie: tutti questi sono brufoli sul corpo della mia amata città. Una città che un tempo poteva respirare liberamente. Fino a poco tempo fa, questa era la mia preoccupazione più grande. Ma ora, dopo l'inizio della guerra, l’unica cosa che vorrei è che questa città rimanga in piedi. Odessa, continua a esistere. Ti prego”. [Kyrilo Naumko, Note di regia, dal sito Zeligfilm.it, pagina web https://film.zeligfilm.it/it/zelig/film/dear-odesa visitata l’ultima volta il 24 agosto 2024]. Protagonista del documentario, oltre alla città, è il suo autore, Kirylo, che ritorna a casa per trovare la madre Olha e l’amico Mykyla. I due giovani, rievocando le partite di pallone in cortile dove si immaginavano nei panni dei calciatori famosi degli anni Novanta, riescono solo blandamente a trasmettere l’anima di una città che, pur avendo solo poco più di 200 anni di storia, ha un vissuto denso di eventi anche tragici. Che invece sembra rivivere nelle parole, nei gesti, negli sguardi di Olha; i suoi ricordi, di quando doveva stare attenta a non lasciarsi sfuggire qualche parola in ucraino, per non passare da contadina, la sua capacità di cavarsela, i suoi dubbi sulle tranquillizzanti parole del presidente russo Putin che, nel frattempo, stava, in quei giorni, subdolamente organizzando la sua «operazione speciale». Non una vita semplice, quella di Olha, ma affrontata sempre con una solida ironia. E una donna capace di recuperare, restaurare e vendere due pantere nere (di peluche, d’accordo) nell’arco di nemmeno un’ora di film, possiamo stare certi che riuscirà a cavarsela. Nelle didascalie finali leggiamo che, poi, in definitiva, Olha ha accettato l’offerta della figlia e si è trasferita in Germania prima dell’escalation del conflitto. Poco male; c’è da scommettere che la forza e lo spirito di Olha siano propri di Odessa e la città saprà esaudire le preghiere di Kyrilo.   



martedì 3 settembre 2024

EURODONBAS

 1540_EURODONBAS Ucraina 2022; Regia di Korney Gritsyuk.

Già autore di Kyiv-War train, Korney Gritsyuk, nel suo terzo lungometraggio, insiste e anzi approfondisce il vero argomento del suo precedente lavoro, il Donbas. È comprensibile: Gritsyuk è nato a Donetsk, forse il centro più importante del Donbas, e la zona è, dal 2014, al centro della disputa bellica tra Russia e Ucraina. Anche in questo caso si tratta di un documentario: se quello girato sul «treno Kyiv-guerra» dava voce ai passeggeri dalla più disparata provenienza, Eurodonbas è un testo specificatamente storico. La confezione formale è ben realizzata, utilizzando più che altro stilemi televisivi: panoramiche con l’utilizzo di droni, vecchie fotografie lievemente animate in una sorta di 3D, si uniscono alle tradizionali riprese di interviste, siano essere preparate o colte al volo durante la vita reale. Detto questo, Gritsyuk si prepara sin dal principio, sin dal titolo Eurodonbas, che richiamando Euromaidan –le proteste di piazza Indipendenza da cui tutto cominciò– sposta ancora più a oriente l’influenza europea sull’Ucraina. L’autore nato a Donetsk snocciola una dietro l’altro una serie di informazioni che smentiscono clamorosamente la retorica filorussa che, da sempre, racconta come la caratteristica siderurgica del Donbas, intesa come area di estrazione carbonifera, abbia una radice sovietica. Il documentario comincia con l’arrivo di John James Hughes, un imprenditore gallese, che, una volta acquistato le concessioni dall’Impero Russo, vi installò la sua fabbrica che, successivamente, allargò fino a farla divenire un vero e proprio centro siderurgico. Siamo verso la fine del XIX secolo e, con l’arrivo di una colonia di abitanti proveniente dal Galles, si comincia a parlare di Yuzivka, una russificazione di Hughes, nome dell’insediamento in onore al suo fondatore, per quella che, negli anni, diverrà Donetsk. L’influenza europea nel Donbas continuò poi a Lysychansk dove il chimico Ernest Solvay fondò la DonSoda, investendo un sacco di quattrini e trasformando la zona in una sorta di colonia belga. Non si trattò, peraltro, di colonialismo, come viene specificato nel documentario, in quanto, al contrario di quanto fecero ad esempio in Africa, i belgi non avanzarono particolari pretese sui territori ma unicamente cercarono di far fruttare economicamente i loro sforzi. 

A testimonianza dell’intervento europeo, rimaneva, almeno fino ai giorni dell’«operazione speciale» russa, molti edifici della DonSoda, mentre a Druzhkivka a testimonianza della cospicua presenza di francesi nell’area, si trova l’antico cimitero franco-belga. Persino il fiore all’occhiello della propaganda sovietica in fatto di siderurgia, Mariupol – che nel 1970 veniamo informati da una reclame dell’epoca, produceva più ghisa di Gran Bretagna e Francia insieme – aveva radici occidentali. Era quasi finito il XIX secolo quando nella città dedicata a Maria, sorsero non uno ma ben due impianti siderurgici: Nikopol, realizzato dagli americani, e Russian Providence, dai belgi ed europei. Heinrich Laude, l’imprenditore americano giunto da Seattle per fondare la Nikopol, e ricordato come il primo direttore dell’impianto, prese degli accorgimenti che, sorprendentemente, hanno un valore ecologico. Furono coinvolti gli abitanti del luogo che dovettero accendere e alimentare dei fuochi per un paio di mesi, in modo da poter studiare con una certa attendibilità i moti ventosi. Laude e i suoi tecnici avevano capito che, per poter installare un impianto siderurgico bisognava anche garantire la possibilità di lavorarvi senza morire soffocati dalle polveri inquinanti. Si era nel 1896. I due impianti, Nikopol e Russian Providence confluirono poi, dopo la nazionalizzazione imposta dai sovietici, in un unico sito, Illich plant. Successivamente, le autorità sovietiche decisero di costruire un nuovo e più grande impianto nella stessa area, l’Azovstal. In origine la sua posizione era lungo il fiume, a fianco dell’impianto esistente, ma in logica di un tipico esperimento del regime sovietico venne spostato sul mare, facendone l’unico impianto siderurgico con accesso diretto al porto. I possibili vantaggi in termini logistici, una volta superati altri inconvenienti di natura tecnica, ebbero però l’atroce risultato di rendere le condizioni ambientali di Mariupol pessime. Questi aspetti risaltano maggiormente quando, decenni prima, all’inizio del secolo, gli americani avevano aperto il primo ospedale a Mariupol e i begli avevano dotato la città di un cinema quando non se ne trovavano nemmeno a Kiyv. 

L’industria siderurgica prese piede e affluirono a Mariupol imprenditore ma anche lavoratori dall’Europa, mentre, contemporaneamente ne giunsero anche dai villaggi russi, ucraini e tatari. La convivenza non fu semplice: i lavoratori europei parlavano altre lingue, avevano migliori condizioni di vita e, soprattutto, guadagnavano di più, in quanto specializzati, e la situazione non fu tutta rose e fiori. Quando i sovietici non riuscirono, nella loro opera di riscrittura della Storia, a cancellare totalmente le tracce della presenza europea sul suolo della Madrepatria, enfatizzarono questi conflitti al fine di attribuirgli una valenza completamente negativa. I sovietici riuscirono anche ad essere ostili alla presenza dei tedeschi mennomiti, che si insediarono nella cittadina chiamata New York. I mennomiti erano una chiesa anabattista i cui membri sono particolarmente laboriosi e tolleranti e, adeguando i loro aratri alla durezza della steppa ucraina, riuscirono a trasformarla completamente in un terreno fertile. Inoltre, se francesi, inglesi, belgi, costruirono scuole a cui i locali non avevano accesso, nelle scuole mennomite, che erano tra l’altro di ottimo livello, chiunque era benvenuto, russi e ucraini compresi. La colonia tedesca del Donbass arrivò a contare addirittura un centinaio di villaggi; dopo la Seconda Guerra Mondiale, non ne rimase nemmeno uno. In tempo di guerra i coloni tedeschi finirono deportati in Siberia o nel Kazakistan. Naturalmente, il nome di New York, clamoroso omaggio alla capitale del capitalismo, fu convertito successivamente in Novhorodske. Divertente il dibattito tra il regista e due attempate signore locali alle quali non interessa in nessun modo riscoprire o conservare le radici della propria comunità, occupate come sono dai problemi più contingenti di una zona che recentemente non può certo dirsi prospera. Purtroppo, la situazione di quella come delle altre zone viste nel documentario, era destinata a peggiorare con l’escalation bellica innescato dall’invasione russa su larga scala. Una didascalia finale ci informa che, proprio l’inasprirsi del conflitto, ha provocato la distruzione di molti edifici e testimonianze della radice europea del Donbas.
Gritsyuk, in un’intervista al sito Cineuropa, ha dichiarato: “Naturalmente, non dovremmo nemmeno guardare a questo periodo attraverso occhiali rosa, ma piuttosto parlare del fatto che all’epoca c’erano anche enormi problemi sociali, demografici e xenofobi, e che l’ambiente nel Donbas iniziò a essere inquinato in quel periodo. Questo periodo non può essere percepito come totalmente positivo o, al contrario, come propaganda sovietica, poiché lo presentavano ancora come totalmente malvagio: questi capitalisti che venivano a sistemare la gente, e poi le autorità sovietiche li espellevano. Pertanto, sembra che la verità stia da qualche parte nel mezzo e, dopo tutto, hanno portato molte cose importanti in quel luogo. Ma allo stesso tempo, c'erano aspetti negativi di questa modernizzazione estremamente rapida perché è avvenuta in modo innaturale. Quando, nell’arco di 20-30 anni, nel mezzo della steppa, compaiono intere città ed enormi imprese, questo, ovviamente, sconvolge la struttura della popolazione e la regione inizia persino ad apparire diversa, visivamente. Pertanto, questo è un periodo che deve essere studiato in profondità perché spiega molto di ciò che è accaduto in seguito nel Donbas”. [Natalia Serebriakova, Korney Gritsyuk: regista di Eurodonbas, dal sito Cineuropa.org, visibile al https://cineuropa.org/it/interview/433174/ visitata l’ultima volta il 25 agosto 2024].