21_LA PROSSIMA VOCE (The next voice You hear). Stati Uniti, 1950; Regia di William A. Wellman.
Il polivalente regista William A. Wellman dirige un film
davvero inusuale nel quale una voce che si proclama essere nientemeno che la voce di Dio, si sente alla radio
interrompendo la normale programmazione. Nel corso dello sviluppo della storia,
accompagnando il generale sgomento dei protagonisti della finzione, veniamo
informati che la voce si ode in tutti i paesi, contemporaneamente, in ciascuna
delle lingue parlate nel mondo. In realtà, nel film, la voce divina non si ode
mai, ora per uno stratagemma narrativo, ora per l’altro; una scelta che forse
vuole mostrare l’intimità del messaggio e che può spiegare il fatto che sia comprensibile in ogni idioma. Il senso
delle parole divine è comunque quello di far riflettere l’uomo sulla vacuità
delle proprie preoccupazioni quotidiane, sia nello specifico individuale, che
nei termini più ampi della politica internazionale: dalla routine giornaliera
della famiglia Smith, la metafora assume significato anche oltre cortina, coinvolgendo, nel tentativo di guardare con sguardo
positivo, anche i nemici della cosiddetta guerra fredda. Il succo del discorso
è non aver paura, visto che la paura
è la causa principale dei nostri problemi. E fin qui, ci siamo; il discorso pacifista di Wellman è sicuramente condivisibile, ancor più nel 1950, in un dopoguerra che si avvia sempre più ad essere improntato alla reciproca diffidenza, nel migliore dei casi.
Ma le note più originali del film sono più prettamente
cinematografiche: tipo nel discreto ma presente utilizzo della macchina da
presa, ad esempio nella scelta dei primi piani o, per fare un caso specifico,
quando gli occhi del bambino sono sincronizzati
con la luce che filtra dall’apertura della porta, a rendere visivamente che il
piccolo sta’ solo fingendo di dormire. La vicenda mostrata dura una settimana e i sette giorni sono scanditi da didascalie introduttive: la routine
giornaliera, nel senso delle parole divine della voce, è vista come una delle
cause del malessere sociale diffuso. La ripetitività porta a non considerare
l’eccezionalità delle singole cose esistenti al mondo (l’aria, l’acqua, la
terra, ecc.) e questo finisce per provocare una comune insoddisfazione che in
realtà non è legittimamente motivata. Wellman ricrea questo concetto contenuto
nel messaggio divino con la sua messa
in scena: i personaggi della famiglia Smith vivono in un ambiente in parte angusto,
con il figlio Johnny che per entrare al suo posto a pranzo deve passare sotto la
tavola imbandita.
L’auto di Joe (il bravissimo James Withmore), il padre della
famigliola, ha sempre lo stesso difetto di avviamento, quasi fosse un rito: al
punto che il figlio Johnny è in grado di mimare la sequenza di gesti necessari
a far partir la macchina con simultanea sincronizzazione. La ripetitività
delle situazioni è anche quella del poliziotto che sembra perseguitare Joe, che
del resto fatica a ripetere pedestremente gli stessi gesti ogni giorno,
rischiando, ad esempio nelle uscite dal garage, di non rimanere dentro i limiti
prestabiliti degli ingranaggi del gigantesco sistema oltre che della sicurezza
stradale. Ma il rischio più grave in questo senso è quello che corre Mary,
(Nancy Davis) la moglie di Joe, che è incinta del secondo figlio e sembra
accusare disturbi: apprenderemo dalla zia Ethel che nella discendenza è già
accaduto più volte che la nascita del secondogenito sia stata fatale alle
gestanti. Del resto, il secondo figlio è una sorta di ripetizione della nascita
del primo.
Anche sul lavoro sono evidenziati questi meccanismi che stanno
disumanizzando l’umanità, con i gesti sempre eseguiti allo stesso modo, e
sempre con il tempo contato che non permette divagazioni. Questo gigantesco ingranaggio
è messo in crisi da una semplice voce, sebbene divina, che non dice nulla di
particolarmente rivelatorio ma porge semplicemente l’uomo di fronte ad una
incognita.
L’impreparazione dell’umanità a fronteggiare qualcosa che
esca dai previsti e ripetitivi binari della società moderna è esplicitata
dalle didascalie che scandiscono i giorni della settimana della voce divina:
curiosamente il primo giorno cade di martedì, così si arriva alla fine del
ciclo settimanale il lunedì successivo. E a quel punto, dopo sette giorni di
scetticismo, sospetto, paura, speranza e fiducia, la folla si raduna nei luoghi
di culto in attesa della parola di Dio. E’ il settimo giorno; ma è un lunedì e
nella consuetudine moderna, il lunedì si lavora. Ma, è risaputo, il settimo giorno Dio
si riposa, come ha già fatto in passato e come, probabilmente secondo Wellman,
avrebbe dovuto essere facilmente previsto. Anche in questo caso, sembra dirci il regista, un semplice spostamento di un giorno rende una cosa arcinota e data per scontata imprevedibile.
Insomma, al di là di tutti questi passaggi altisonanti, il senso, bellissimo, del film può essere nella telefonata da un centesimo, imprevista e senza motivo specifico, che James fa a Mary, così, solo per sapere come va. “E’ bello quando sprechi così un centesimo, ogni tanto!” dice la donna.
E sprechiamone, quindi, di centesimi.
E sprechiamone, quindi, di centesimi.
Nancy Davis Reagan
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