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lunedì 30 maggio 2022

ALFREDINO - UNA STORIA ITALIANA

1025_ALFREDINO - UNA STORIA ITALIANA . Italia, 2021; Regia di Marco Pontecorvo.

Dice bene il titolo: Alfredino – Una storia italiana, sottolineando l’italianità della tragedia di Vermicino, dove perse la vita il piccolo Alfredo Rampi (nella serie tv prodotta da Sky, interpretato da Kim Cherubini). Nel 2021 sono quarant’anni da quei drammatici eventi che segnarono la vita di un intero paese, sotto diversi aspetti: dalla successiva riorganizzazione della macchina dei soccorsi alla cristallizzazione istantanea della tv del dolore, che non pioveva certo dal cielo ma di cui gli italiani presero cruda coscienza nelle terribili ore della diretta televisiva. Innanzitutto va detto che il lavoro del regista Marco Pontecorvo e dei suoi collaboratori è valido e professionale, come ormai quasi d’abitudine per le produzioni Sky italiane. L’autore azzarda anche qualche passaggio personale, come le scene d’animazione del cartone animato Mazinga o l’abbinamento con le musiche (pare non gradito alla PFM l’utilizzo di Impressioni di settembre), che nell’insieme aiutano ad elevare il film a qualcosa di più interessante rispetto ad una fedele cronistoria. La miniserie, soprattutto nella prima parte, ha numerosi passaggi toccanti e va riconosciuto che il suo apice è forse proprio l’ascolto della voce di Alfredo proveniente dal pozzo, registrata in modo quanto mai opportunistico e scaltro dal giornalista Rai Francesco Viviano (Emiliano Coltorti). Qui già il terreno comincia a farsi scivoloso e le osservazioni che si possono fare sono come le ciliegie, una tira l’altra: fin dove è legittimo o anche solo opportuno il lavoro della stampa, in casi come questo? E che dire dei curiosi che affollarono il sito nel corso delle ore? 

E’ un moto condannabile senza se e senza ma quello di andare a vedere cosa sta succedendo sul luogo di una tragedia? E guardare gli eventi alla televisione è molto differente? E guardare una fiction che li ricostruisce? Certo, una risposta che va bene per questi e per mille altri interrogativi che possono sorgere è che bisogna usare il buon senso, come direbbero i nostri cari vecchi. Insomma, ognuno ha una coscienza e cerchi di regolarsi. E’ chiaro che la sensibilità è però differente per ciascuno e appunto un’interpretazione prudente (‘buon’ senso) fornisce qualche garanzia in più. Perché una delle questioni è ancora questa, visto che la chiosa di Franca Rampi (un’intensissima Anna Foglietta, bella come non mai, bella di una bellezza forte e stoica), madre di Alfredo, alla fine lì va a parare. 

Conferenza stampa: lei vuole parlare della sua fondazione, un centro di Protezione Civile per ragazzi, mentre i giornalisti sono lì perché vogliono sapere solo di Alfredino. Perché tutta questa morbosità? La donna elenca altri fatti simili, altre tragedie occorse a giovanissimi in quei tempi, che sono stati ignorati dalla stampa e, di conseguenza, dall’opinione pubblica. Ma è un concetto sfuggente: quello che fa la differenza è l’emozione. Per la vicenda di Alfredo Rampi si è emozionato un intero paese, gli altri sono solo eventuali fatti che possono far dispiacere ma è un altro piano del discorso. Il tema non è un effetto collaterale del film, come potrebbe esserlo un elemento su cui si finisce per le connessioni intrinseche ed implicite all’argomento: è piuttosto uno degli architravi portanti della miniserie di Pontecorvo. Perché un quarto dell’intero film è dedicato al post tragedia, dall’attività di Franca e del marito Ferdinando (un convincente Luca Angeletti) nel centro per ragazzi, alle conseguenze istituzionali volute dal Presidente Sandro Pertini (il mitico Massimo Dapporto) con la messa in campo di una Protezione Civile davvero efficiente. Il discorso finale di Franca fa un po’ da tramite tra le reazioni negative al drammatico evento (sterili polemiche, voyeurismo giornalistico e non) e la capacità di trasformare una tragedia nell’occasione per migliorarsi. Quest’ultimo moto, visto il corposo spazio filmico dedicato a questa fase, sembra un po’ il senso dell’intera operazione di Pontecorvo: la tragedia di Vermicino è servita da lezione e, grazie all’istituzione di una Protezione Civile seria e funzionale, ora la situazione è migliorata. Il che è fuori dubbio. Volendo essere cattivi, verrebbe da aggiungere ‘anche perché fare peggio non era semplice’. 


Per carità, è indiscutibile che tutti coloro siano stati coinvolti si siano adoperati allo strenuo per il raggiungimento di un risultato, la salvezza di Alfredo, peraltro poi non ottenuto. La stessa Franca, persona coinvolta in modo quanto mai diretto essendo la madre del ragazzino morto, riconosce che, trattandosi di un evento mai verificatosi, era impossibile (o quasi) sapere cosa fare e quando. Può bastare? Mah. Se analizziamo gli elementi a disposizione, si può facilmente osservare che Alfredo poteva essere salvato se soltanto si fosse ascoltato quanto dicevano gli speleologi presenti. Certo, del senno di poi son piene le fosse ma, seguendo quello spirito che anima anche il film, il punto non è il fatto in sé, quanto capire dove è stato l’errore. 

Nella mancanza di coordinazione, come viene fuori sostanzialmente da Alfredino – Una storia italiana? Sicuramente. E allora l’istituzione della moderna Protezione Civile ci rincuora, è stato fatto tesoro di questa tragedia. Infatti la luce che inonda il film è positiva visto che, non a caso, il racconto vede il consumarsi della morte del piccolo Alfredo quando manca ancora molto alla fine. Un escamotage narrativo, non finire il racconto con la morte di Alfredino, che permette di smaltire l’emozione allo spettatore e di superare la cosa, un po’ come hanno fatto i genitori, il paese e, con le disposizioni governative citate, persino lo Stato. La prospettiva di Pontecorvo, a conti fatti, è nettamente ottimistica: sono accuratamente evitati tutti i riferimenti alle indagini sulla questione della fettuccia trovata addosso al cadavere del piccolo, e non è un taglio di poco conto inferto alla ricostruzione. E un bel po’ di positività si respira anche nel finale del film: gli speleologi, Tullio Bernabei (Daniele La Leggia), Maurizio Monteleone (Giacome Ferrara) e Laura Bortolani (Valentina Romani) ritrovano un po’ di armonia tra loro; i due poliziotti incaricati delle indagini sulla regolarità della realizzazione del pozzo artesiano in questione quasi si rammaricano per l’arresto del titolare del terreno, mostrando comprensione per l’accusato; il comandante dei Vigili del Fuoco Elveno Pastorelli (Francesco Acquaroli, strepitoso) viene invitato dai suoi uomini a non dimettersi. Anche stavolta è finita a tarallucci e vino, è così che si dice nel Belpaese, no? Serve ironia, amara ma pur sempre ironia, perché, tra tutte, l’assoluzione morale che Alfredino – Una storia italiana riserva al capo dei pompieri di Roma è un po’ difficile da digerire. Per carità, lungi dall’invocare derive forcaiole ma i fatti vanno considerati in modo coerente. 


Se per i tanti curiosi e per la stampa, non potendo fare appello ad altro, si è invocato il buon senso di ognuno, lo stesso si deve fare con gli altri protagonisti della vicenda. E’ alla loro coscienza che ci si deve rivolgere: era quella di Pastorelli in pace con sé stessa? D’accordo, non c’era un protocollo, non si aveva esperienza in casi simili; ma c’era chi l’aveva, gli speleologi. Perché non si è scelto di fare un passo indietro per lasciare il campo a chi aveva maggiore competenza? Perché la ribalta, sia esso il primo posto nella fila dei curiosi sull’orlo del pozzo o il ruolo di comandante delle operazioni, non si molla a nessun costo nemmeno per cinque minuti. 

Questo aspetto dell’italianità è spesso attribuito ai politici, quelli che in nessun caso mollano la poltrona, ma è diffuso in modo proporzionale nel paese. C’è rivalità anche tra i due speleologi, Bernabei e Monteleone, ma nei termini in cui è un sentimento naturale e comprensibile: tra l’altro i ragazzi erano presenti a titolo volontario e il loro ruolo testimonia piuttosto la generosità tipica degli italiani nel momento del bisogno. In Italia, spesso, questa capacità di provare empatia ha finito per supplire altre carenze; in questo caso non è stato possibile. Questo perché una persona, Pastorelli, ha deciso diversamente. Era in suo potere, in quanto era l’incaricato di dirigere le operazioni. E di coordinarle, perché la coordinazione nei soccorsi c’era, non era del tutto assente; spettava appunto a Pastorelli. E il capo dei pompieri ha fatto quello che doveva: ha preso decisioni. Ma, e questo il punto cruciale del discorso su cui è difficile condividere la prospettiva del film di Pontecorvo, quali erano gli elementi su cui si è basato? Su dati oggettivi che aveva a disposizione in scienza e coscienza? O sulla semplice convinzione di essere in grado di piegare gli eventi con la sola determinazione nel dettare ordini e disposizioni, nel suo completo bianco solo lievemente imbrattato dal fango? Perché, nel caso, anche in presenza di istituzioni organizzate efficientemente come la moderna Protezione Civile, potremo sempre incappare in un’evenienza inedita e un Pastorelli del caso, espressione di uno dei convincimenti più radicati in Italia, il culto della personalità. Ai posteri l’ardua sentenza. Ah no, son passati quarant’anni e delle sentenze a cui si riferisce il proverbio se ne trovano a iosa con buona pace della coordinazione tra le forze in campo.  



Anna Foglietta





Valentina Romani



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sabato 28 maggio 2022

DIABOLIK (2021)

1024_DIABOLIK . Italia, 2021; Regia di Manetti Bros.

L’inizio non è troppo incoraggiante e, dopo una ventina di minuti, Diabolik dei fratelli Manetti con le sue oltre due ore di durata, appare uno scoglio insormontabile o quasi. Ritmo fiacco, dialoghi improbabili e ripetitivi, attori che non sembrano nemmeno adatti ai ruoli, location e decor dal gusto posticcio, recitazione da fiction televisiva che più ordinaria non si può, regia che si allinea allo stesso riferimento. Luca Marinelli nei panni di Diabolik è anonimo più che glaciale e Miriam Leone in quelli di Eva Kant non convince; forse un po’ meglio Valerio Mastrandrea nel ruolo dell’ispettore Ginko. Nel cast, in generale, la recitazione non è il piatto forte degli interpreti sebbene una certa artificiosità era (ed è) presente sulle pagine del fumetto delle Sorelle Giussani dedicato al Genio del Crimine, che certo non è mai stato un vero e proprio capolavoro della settima arte. Il successo del fumetto Diabolik è legato al carisma maligno dell’eroe che si innesta efficacemente su avventura, azione e violenza dosate con perizia nelle storie. Intanto il film dei Manetti Bros lentamente prende un po’ di giri: giova, a questo, la scelta del soggetto, ispirato al terzo numero della serie, L’arresto di Diabolik, dove avviene il primo incontro tra il personaggio e Eva. Perché a trascinare la storia ci si mette Miriam Leone: lo chignon la trasforma in una credibile Eva Kant e l’attrice catanese sembra quasi sciogliersi man mano che i minuti passano, mentre l’indiscutibile presenza scenica diviene il polo d’attrazione principale del film. Da parte sua Diabolik dà sfoggio della proverbiale crudeltà, anche se ne finale risparmierà la vita a Ginko. Al di là delle scene d’azione, dove fa la sua comparsa anche l’uso dello split screen, che assolvono il proprio compito confermando i progressi del lungometraggio, la cosa più interessante del film è una battuta. Di Eva, naturalmente. Giorgio Caron (Alessandro Roja), vice ministro della Giustizia di Clearville, è arrivato a ricattarla pur di averla, riuscendo a strapparle un fidanzamento di facciata. Ma in fondo cosa vuole, questa donna, denaro, potere? La risposta di Eva vale anche per chi si chiede cosa ci trovino i lettori nei fumetti di Diabolik: emozioni. Le stesse che, in definitiva, si trovano anche nel Diabolik dei Manetti Bros. Dai, è andata!  





Miriam Leone 





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giovedì 26 maggio 2022

DIABOLIK (1968)

1023_DIABOLIK (Danger Diabolik). Italia, Francia1968; Regia di Mario Bava.

A quanto pare Mario Bava restò deluso dal risultato del suo film su Diabolik, in quanto non gli fu permesso di riproporre fedelmente il personaggio dei fumetti opera delle sorelle Giussani. Dino De Laurentiis impose una linea più soft rispetto a quanto si leggeva sugli albi, dove il Genio del Crimine dava sfoggio di una crudeltà senza precedenti, almeno per i fumetti italiani. E se è vero che nel film Diabolik (John Phillip Law) non eccede nelle efferatezze va specificato che non è nemmeno tanto tenero. Certo, ha una vena goliardica, o quello che lo spinge ad usare il gas esilarante, che forse non è proprio l’esempio più calzante del modus operandi del suo riferimento suoi comics. Il film sottolinea, nelle scene delle bombe distribuite nei palazzi istituzionali, l’idea rivoluzionaria, anarchica o quantomeno la contestazione al modello borghese – che negli anni del boom economico in Italia si andava affermando – una critica sociale che si è cercato spesso di attribuire al personaggio. Una teoria un filo posticcia visto che Diabolik di mestiere si appropria di denaro e preziosi che sono appunto il supremo simbolo della società capitalista: e li ruba né più né meno per lo stesso motivo degli intrallazzatori che, secondo questa chiave di lettura, dovrebbe additare. Per carità, il discorso tecnicamente può anche stare in piedi: si prende il massimo esempio negativo e si scopre che in parte è simile agli elementi più illustri della società. Ma un simile motivo non giustificherebbe l’enorme successo che Diabolik ha, più come personaggio che come fumetto: l’unica ragione che può spiegare il perché di questa popolarità dello spietato criminale è che il male è affascinante. In questo senso forse ha ragione Bava e il suo Diabolik non è abbastanza cattivo; è un supercriminale, ma non l’essenza del male stesso. 

Anzi, volendo vedere, Valmont (Adolfo Celi) inserito nella storia forse per fare un distinguo tra Diabolik e un volgare bandito, vede il protagonista perdere troppi punti nel confronto diretto. Celi è un vero asso, questo va detto, per cui il suo personaggio se ne avvantaggia; si veda il modo rozzo e gratuito con cui Valmont tratta la splendida Rose, interpretata da una sorprendente Annie Gorassini. Davvero curioso che un’attrice con la sua presenza scenica sia stata così poco impiegata dal mondo del cinema. Se si parla di donne in Diabolik, per altro, la precedenza spetta ovviamente a Eva Kant: nei succinti panni della fidanzata di Diabolik vediamo in tutta la sua bellezza Marisa Mell, che non delude le aspettative anche se ne non ricorda poi più di tanto la versione fumettistica. Sotto questo aspetto va così così anche Law, onestamente, mentre molto meglio risulta l’ispettore Ginko che ci offre Michel Piccoli. Forse la cosa migliore del film sono però le location, nelle quali spicca la villa di Diabolik di stile davvero futurista. Il che permette al film di avere una confezione formale, nel complesso, non disprezzabile, anche perché la mano di Bava in regia ogni tanto si sente e così la storia, anche se non è un capolavoro di ritmo, non molla mai del tutto la presa. Si poteva fare meglio, come sostiene lo stesso Bava, ma da un film tratto da un fumetto – con tutte le problematiche del caso – il rischio di fare molto peggio era assai concreto. Pericolo scongiurato e quindi pollice alzato senza indugio.  






Marisa Mell 














Annie Gorassini 





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