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martedì 29 luglio 2025

CRIMINE SILENZIOSO

1705_CRIMINE SILENZIOSO (The Lineup), Stati Uniti1958. Regia di Don Siegel 

A proposito di Don Siegel, fondamentale regista della storia del cinema, si citano in genere i suoi riconosciuti capolavori, Contratto per uccidere [The Killers, 1964], Ispettore Callaghan: il caso Scorspio è tuo! [Dirty Harry, 1971] o Fuga da Alcatraz [Escape from Alcatraz, 1979], giusto per elencare tre dei suoi più noti crime-movie di pura azione. Può darsi che si argomenti sul fantascientifico L’invasione degli Ultracorpi [The invasion of the Body Snatchers, 1956] o sul western Il pistolero [The Shootist, 1976] a testimonianza della sua capacità di uscire dal suo abituale ambito, che era il poliziesco in tutte le sue sfumature. Anche approfondendo ulteriormente, e considerando che Siegel è accreditato di una cinquantina di regie comprese la quindicina di quelle televisive, ben difficilmente viene preso in considerazione Crimine silenzioso, un atipico tardo noir. L’origine di questa inaspettata gemma è la serie televisiva The Lineup, di cui Siegel aveva diretto l’episodio pilota nel 1954 oltre ad altre successive puntate. In realtà, la stessa serie televisiva era uno spin-off da un precedente programma radiofonico e si trattava sostanzialmente del classico Police Procedural ovvero quei racconti che mettevano sotto l’obiettivo il lavoro di un distretto di polizia o istituzioni similari. Se nella versione radiofonica si era mantenuta anonima l’ambientazione, per quella televisiva si puntò forte sull’identificazione di San Francisco come luogo delle vicende poliziesche raccontate. Una scelta che, considerato il successo della serie, verrà confermata anche per la trasposizione cinematografica per la quale Siegel subisce precise direttive. Folgorante incipit a parte, i primi venti minuti di Crimine silenzioso non sono poi infatti troppo diversi da un comune episodio della serie: il tenente Ben Guthrie (Warner Anderson), spalleggiato dall’ispettore Asher (Marshall Reed), indagano sul traffico di stupefacenti provenienti dall’estremo oriente, spessi introdotti negli Stati Uniti grazie ad ignari viaggiatori i cui bagagli trasportano la droga a loro insaputa. Anche l’idea alla base della storia è degna di un telefilm e basta osservare la scia di cadaveri che viene disseminata per capire che un simile metodo di trafficare droga era contro ogni logica, attirando su di sé un’attenzione eccessiva. Non sono solo i morti imputabili a Dancer (Eli Wallach, straordinario) a destare perplessità ma anche solo quelli del citato bellissimo incipit che precede i titoli di testa. 

La morte del finto tassista ma soprattutto quella del poliziotto, per un modesto quantitativo di droga, non sembrano l’indice di una pianificazione adeguata ad un traffico che, stando alle premesse, volesse introdurre gli stupefacenti in modo subdolo e silenzioso. Ce ne sarebbe già per derubricare The Lineup a semplice operazione a beneficio dei fan del telefilm dell’epoca; Siegel, tuttavia, non è affatto d’accordo. E lo mette in chiaro subito, in quei sessanta secondi che costituiscono l’introduzione che, si è già detto, è girata con dinamismo magistrale, grazie ad un montaggio che è puro cinema d’alta scuola. Dopodiché, l’intemperante regista assolve il compito di accontentare produzione e spettatori della serie TV, mettendo in scena un po’ di investigazione dei volenterosi Guthrie e Asher, di cui giusto val la pena ricordare la splendida Dodge Custom Royal del 1957 con cui scorrazzano per le vie di Frisco. Ma quello che preme a Siegel è ben altro. Il momento in cui Crimine silenzioso cambia marcia è l’entrata in scena dei due criminali protagonisti, il citato Dancer e il suo collega più anziano Julian (Robert Keith), su cui converge completamente l’attenzione di Siegel, mentre i due poliziotti saranno costantemente relegati in comportamenti di routine. Julian e Dancer, al contrario, sono due personaggi formidabili, in anticipo sui tempi e in grado di conferire alla storia un’atmosfera malsana e disturbante davvero sorprendente per un film che è ancora ascritto agli anni 50. In apparenza è Dancer il soggetto perverso e maniacale, e Julian sembra una sorta di tutore che ne smorzi gli eccessi. In realtà, se effettivamente Dancer è l’elemento che esce dagli schemi della normalità, Julian è perfino peggio, considerato che sfrutta le deviazioni del giovane socio per sfogare una violenza di cui non è capace in prima persona. Al netto delle letture psicanalitiche sulla follia di Dancer e Julian, che sono effettivamente due individui privi di qualsivoglia struttura morale, la cosa che interessa maggiormente di Crimine silenzioso è il suo essere un manifesto programmatico del cinema secondo Don Siegel. I due criminali si muovono, nella storia, tra due blocchi sociali contrapposti: da una parte c’è la polizia, che incarna ufficialmente la società, dall’altra l’organizzazione criminale, di vediamo solo Il Capo (Vaughn Taylor) ma che sembra altrettanto ben strutturata. In sostanza San Francisco, e come lei l’America o il Mondo Occidentale intero, è divisa tra Buoni e Cattivi, ma si tratta più che altro di convenzioni perché Siegel non conferisce alcuna profondità ai personaggi se non ai due criminali protagonisti. 

I due poliziotti sono ingessati nel loro ruolo; di contro Il Capo è addirittura sulla sedia a rotelle e non degna nemmeno d’una espressione Dancer quando ha con lui il fatale dialogo nel museo marittimo. I personaggi di contorno assolvono semplicemente alla parte che il copione prevede per loro, ma lo spazio emotivo del racconto è occupato interamente dal confronto tra Julian e Dancer. Tutta quanta la struttura di Crimine silenzioso sembra una grande metafora dell’industria cinematografica secondo Don Siegel. La polizia, rappresenta il pubblico e gli organi censori istituzionali, che intralciano con le loro pretese, vedi i rimandi dovuti alla serie televisiva o il limite per la violenza esibita, la libertà artistica. Il Capo è il tipico produttore degli studios hollywoodiani, sordo alle giustificazioni per eventuali problemi ineluttabili che possano insorgere nello svolgere pur con la massima efficienza il lavoro. Com’è tipico di chi non lavora e non ha mai lavorato un singolo giorno. Siegel non era, e tantomeno lo sarebbe oggi, un buon rappresentante del Politicamente Corretto e ce lo mostra vecchio, inespressivo, rinsecchito e su una sedia a rotelle: non potrebbe essere più imbalsamato di così. Quando Dancer lo scaraventa giù dal parapetto sulla pista ghiacciata di pattinaggio, il regista si guarda bene dall’arretrare la camera per avere un minimo di rispetto per la tragedia umana che sta avvenendo. Al contrario, cambia prospettiva e si piazza di lato, per cogliere e gustarsi senza perdersi un attimo del terribile volo che si conclude con un fatale schianto. Siccome si è detto del cinismo di cui Siegel vuol essere libero di poter disporre, nella sua caduta Il Capo travolge e uccide anche un ignaro e innocente pattinatore. Non rimane che comprendere i ruoli dei due protagonisti, Dancer e Julian. Se il primo è evidentemente l’alter ego del regista, che non vuole pastoie morali o di altro genere mentre svolge il suo mestiere, l’altro è una figura che può essere qualcosa come uno sceneggiatore o un produttore esecutivo, qualcuno non in grado di fare il regista, così come Julian non è in grado di sparare, ma che vuole ugualmente assurgere al ruolo di maestro. Proprio in virtù di un’onestà intellettuale che può sconfinare nel cinismo, Siegel conferisce al suo personaggio, quello che lo rappresenta, una connotazione negativa: l’artista, il cineasta, secondo il buon Donald, deve avere mano libera, non deve essere vincolato da limiti tanto meschini come quelli descritti. Ma nell’opera c’è comunque una prospettiva senza speranza, e questa è innegabile ed è resa esplicita dalla migliore sequenza del film, quella giustamente conclusiva. La società, la collettività, rappresentata splendidamente dalla città di San Francisco, ha un effetto mortale sulla libertà dell’individuo. Essendo un crime-movie, assai più che un poliziesco, il protagonista di Crimine silenzioso è un criminale, un cattivo a tutto tondo. 

L’importante, per Siegel, che in qualità di artista se ne frega del quadro morale, è che si batta contro il tentativo di ingabbiarlo, di comandarlo, di costringerlo dentro le regole. Alla fine deve liberarsi anche di Julian, e gli spara alla schiena, proprio senza alcun riguardo per qualsiasi barlume di cavalleria o rispetto, perché in fin della fiera anche il suo socio cercava di piegarlo alla disciplina, come si capisce sin dalla loro prima apparizione quando discutono di grammatica. Tuttavia Dancer non ha alcuno scampo e la città letteralmente lo ingoia, nella geniale chiusura che segna la fine della pista. I tentativi di Sandy (Richard Jaeckel), l’autista messo a disposizione ai due gangster dall’organizzazione criminale, prova a scappare nell’ultimo spettacolare inseguimento finale. Il Golden Gate, il mitico ponte di Frisco, è la strada per la libertà, ma prima le vie bloccate, poi un’autostrada in costruzione, che si interrompe su uno strapiombo e infine una carreggiata che si rivela essere solo una sorta di spartitraffico cieco, precludono ogni possibilità d’uscita. La città, simbolo supremo della società occidentale, ha leggi ferree: se non le accetti, sei destinato ad essere fagocitato, annientato, distrutto. Siegel lo sa; almeno dal 1958 e da Crimine silenzioso: ma non per questo ha intenzione di lasciar fare. Basta guardare lo sguardo di Eli Wallach quando manovra il canocchiale al museo marino, guidandolo come una macchina da presa: dove sono i capi, i boss, quelli che tirano i fili della baracca? Prima di soccombere, com’è destino, si può sempre giocargli qualche brutto tiro. Quello di Wallach, oltre che maniacale, folle, lucido, divertito e compiaciuto, è lo sguardo di Don Siegel.         







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