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mercoledì 29 novembre 2023

RICOCHET

1399_RICOCHET . Regno Unito 1963; Regia di John Llewellyn Moxey.

Il tema del ricatto è un cliché dei più ricorrenti nella serie The Edagar Wallace Mysteries ma il regista John Llewellyn Moxey pare incline a storie dove i tentativi di estorsione si rincorrano e si raddoppino. Dopo i continui capovolgimenti della trama nel precedente The £ 20.000 Kiss anche in Ricochet i ricatti si intrecciano o meglio, come da titolo, rimbalzano da un personaggio all’altro. Il film è molto ben orchestrato e Moxey è davvero bravo a cogliere l’occasione sfruttando al meglio il rigido inverno inglese del 1963 (The Big Freeze), per un’ambientazione davvero suggestiva. La scena iniziale con l’elegante Yvonne (Maxien Audley) che arriva di notte nella sua villa e si accorge di qualcuno che la osserva nell’ombra, è da manuale. La scarpa col tacco che perde sulla neve ci ricorda Cenerentola ma quello di Yvonne non è un incantesimo da sogno bensì un incubo. La donna, infatti, è ricattata da John Brodie (Alex Scoot), l’uomo che era stato suo amante e che ora minaccia di consegnare le lettere d’amore ricevute al marito di Yvonne, Alan (Richard Leech). Il che sarebbe già una prospettiva insolita: l’amante che ricatta l’amata. Ma errata, perché dietro a John c’è Alan che sta cercando di mettere mani sul patrimonio della moglie e, nella migliore delle ipotesi, eliminare il rivale che in realtà ora è uno scomodo testimone. Le cose per Alan vanno a gonfie vele: dopo aver spaventato a dovere la consorte – è lui ad agire nell’ombra nell’incipit – consegna una pistola alla donna da usare in caso di estrema necessità. Nel frattempo sprona John ad esasperare sua moglie: il risultato è quello auspicato. Yvonne cede alla pressione e si presenta all’appuntamento con John con una pistola che poi, nella concitazione del momento, finirà per spacciare il ricattatore. La donna, provata dall’incalzare degli eventi, non offre alcuna resistenza alle domande dell’ispettore Cummings (Patrick Magee) e confessa. Scaltramente, Alan la difende, davanti alla polizia, mentre in realtà gongola perché tutto è filato liscio come l’olio. In realtà c’è un piccolo dettaglio: Brodie aveva informato Peter (Dudley Foster) che adesso minaccia Alan di andare a spifferare tutto alla polizia. Il ricattatore è ora ricattato. Ma i ribaltamenti non sono affatto finiti; Alan accetta di pagare ma intanto prepara una trappola per eliminare Peter. La scena è un altro pezzo di bravura di Moxey: nella storica Streatham Ice Arena, con la pista di pattinaggio sullo sfondo, Alan attende che la musica arrivi all’apice sonoro in modo che lo sparo con cui intende freddare Peter non sia udito. Una serie di primi piani dei due uomini porta al culmine la tensione prima che irrompano sulla scena due operai che altro non sono che agenti di polizia. Alan è stupito: perché diamine Peter gli ha teso una trappola rinunciando ad un mucchio di soldi? Peter ha voglia di scherzare: “la mia coscienza non me lo avrebbe permesso!” sentenzia, prima di specificare che aveva fatto una assai remunerativa visita in carcere ad una vendicativa Yvonne. Stavolta è la moglie, quindi, a manovrare il ricattatore contro il marito, in un gioco di specchi gestito in modo magistrale da Moxey. Il quale dimostra sempre più un gusto particolare, oltre che per le eccellenti scene ad alto tasso di tensione, per i dettagli piccanti. Qui, dopo la scena della scarpa perduta da Yvonne, oltretutto ripresa in seguito, c’è un cameo di una giovanissima Barbara Roscoe intenta a volteggiare sul ghiaccio. Buon gusto, questo Moxey. 




 
Maxien Audley


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lunedì 27 novembre 2023

LA BAMBOLA DI PEZZA

1398_LA BAMBOLA DI PEZZA (Picture Mommy Dead). Stati Uniti 1966; Regia di Bert I. Gordon.

Mr B.I.G., acronimo con cui venne ribattezzato Bert I. Gordon, facendo riferimento sì alle iniziali del suo nome ma soprattutto alla mania di girare film con mostri giganteschi, aveva sempre con sé un effetto speciale che difficilmente falliva: la passione. Nella sua filmografia non si trovano né capolavori e nemmeno opere particolarmente significative sotto il profilo artistico. Eppure, i film che si lasciano vedere con simpatia, e soprattutto ricordare con affetto, sono più d’uno. Tra questi, indubbiamente La bambola di pezza, pellicola che, per una volta, non vede scorrazzare sullo schermo qualcosa o qualcuno di ingigantito a dismisura. Siamo nel campo dell’horror più classico, un omicidio famigliare, sebbene è onesto riconoscere che di paura se ne prova poca. Ma lo si è detto: non è che i film di Gordon siano tecnicamente ineccepibili; hanno però un loro fascino. Ne La bambola di pezza è soprattutto il cast, a destare impressione. Al centro della scena c’è Susan Gordon, diciassettenne figlia del regista, che interpreta Susan, una ragazzina erede di un grande patrimonio ma con problemi psichiatrici. La povera ha, infatti, assistito alla tragica morte della madre Jessica, nientemeno che la superba Zsa Zsa Gàbor in un ruolo neanche troppo impegnativo. La donna è, appunto, morta in un incendio e ora, suo marito Edward (Don Ameche) si è risposato con Francine (Martha Hyer, in gran forma), l’ex governante. Susan, per tre anni, è stata rinchiusa in un istituto e fa ritorno a casa, nella speranza degli operatori sanitari, che il trauma sia superato. Francine, la matrigna, al contrario, auspica piuttosto una sua ricaduta, per poter mettere le mani sul denaro della prima moglie di Edward, personaggio a cui Ameche riesce a conferire quella sua tipica aria un po’ distratta e non del tutto consapevole di cosa stia accadendo alle sue spalle. La nuova moglie, infatti, è d’accordo con lo zio Anthony (Maxwell Reed), orribilmente sfregiato, per cercare di rispedire Susan in manicomio e mettere finalmente le mani sul malloppo. Tra i pochi ma importanti attori del cast, manca almeno da citare il grande Wendell Corey, qui nei panni dell’acido notaio. La messa in scena di Gordon è intrigante, ma la sua regia, va riconosciuto, manca di ritmo e alla lunga la cosa rischia di pesare sulla scorrevolezza. Tuttavia, nel complesso, la confezione formale è curata e i dettagli – la macabra filastrocca, pupazzi e bambole inquietanti, il dipinto assai somigliante alla divina Gabor che si mette a sanguinare, l’attacco del falco – oltre alle scene clou con gli omicidi, mantengono godibile la visione. Senza dimenticare la sfida grondante glamour tra la Gabor – peraltro sullo schermo per un tempo limitato – e la Hyer, che, in ogni caso, regge alla grande il difficile confronto. Belle donne in luogo di mostri giganteschi, Bert I. Gordon non delude nemmeno stavolta. 








 Zsa Zsa Gabor 





Martha Hyer 




Susan Gordon 


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sabato 25 novembre 2023

PERDONO (1966)

1397_PERDONO . Italia 1966; Regia di Ettore Maria Fizzarotti.

Nello stesso 1966 in cui era uscito Nessuno mi può giudicare, la Titanus riesce a sfornare anche Perdono, un sequel a stretto giro di posta che ne è la diretta continuazione. Si potrebbe forse osservare la mancanza di pudore dello studio di produzione – se pudore è la parola più adeguata – nel riproporre in modo così pretestuoso la stessa minestra pur di soddisfare la domanda del pubblico. In realtà, è più interessane osservare come gli autori si ingegnino per far funzionare anche Perdono in modo tutto sommato egregio. Sergio Bonotti al soggetto, Giovanni Grimaldi alla sceneggiatura e Fizzarotti in regia devono trovare il modo di mettere zizzania tra Laura (Laura Efrikian, sa va san dir) e Federico (Fabrizio Moroni). Impresa non da poco perché l’amore tra i due è stato temprato duramente dalle vicende del precedente film. È ormai evidente come il sentimento che leghi i giovani sia solido e il tira-e-molla adolescenziale, tipico di questi film, non è più un espediente che possa reggere. L’idea – non certo originale, sia chiaro – è quindi quella di inserire un terzo incomodo, nella fattispecie Caterina, la cugina di Laura interpretata da Caterina Caselli. È un’intuizione funzionale perché, va ricordato, il progetto si fonda sulle canzoni di Casco d’Oro e quindi è vitale che la cantante sia al centro del racconto. In effetti, in Nessuno mi può giudicare era un po’ strano vedere il personaggio di Caterina suscitare emozioni, durante le sue esibizioni canore, di cui, in un certo senso, era però la cugina Laura a raccogliere i frutti. Il problema era che la Caselli non era un’interprete di professione; non che la Efrikian fosse Anna Magnani, ma il mestiere lo conosceva. Inoltre, inutile girarci attorno, seppure la Caselli fosse una bella ragazza, la Efrikian era decisamente più carina e graziosa. Insomma, mica semplice per Caterina Caselli riuscire a rendere credibile il suo flirt con un personaggio da fotoromanzo come Federico, che sembrava ormai bello che pronto per essere impalmato dall’amata Laura. Eppure Casco d’Oro riesce nell’impresa e, grazie anche agli intermezzi musicali nei quali può sfoggiare la proverbiale verve, la traccia sentimentale risulta sistemata. In ogni modo, considerato la sua relativa consistenza, gli autori chiedono a Gino Bramieri e Nino Taranto, i personaggi di spicco nel resto del cast, di calcare la mano sulle loro vicende tipiche da commedia all’italiana. 

Ancora in gran spolvero Bramieri (è il direttore della Standa di Roma dov’è ambientata la storia), che trova nell’austera ed elegantissima Marisa del Frate (è Tilde), una partner adeguata, e bene anche Nino Taranto (Antonio) che se la deve sbrigare con Clelia Matania (Adelina). Va comunque messa a referto la rispettabile struttura del canovaccio, con la traccia sentimentale di Bramieri che ricalca quella di Taranto, dal momento che sia Tilde che Adelina sono vedove e le figure dei compianti primi mariti intralciano in modo comico le nuove relazioni. La vicenda di Taranto è poi legata a quella principale tra Laura e Federico perché è proprio l’assenza dal lavoro di Adelina, a casa in licenza matrimoniale, a tenere impiegata sul lavoro la commessa, dando campo libero a Caterina nei confronti di Federico. Le tre storie sentimentali sono quindi interlacciate tra loro e questo, se da un certo punto di vista agevola lo svolgimento della trama, innegabilmente testimonia l’accurato lavoro in sede di scrittura. Tra i caratteristi convocati per dar ulteriormente corpo al racconto, vanno ricordati Vittorio Congia, Nino Terzo, Carlo Taranto, Carlo delle Piane che hanno per altro uno spazio esiguo a disposizione. Tra questi personaggi di contorno, un paio riescono però nell’impresa di bucare lo schermo in pochi istanti. Il primo è Paolo Panelli, davvero spassoso nel ruolo del padre di Federico, che risulta memorabile con le sue stramberie e i suoi refrain – come il “che ho detto?” ripetuto alla fine di ogni frase per sondare l’attenzione dell’interlocutore. E poi lascia un filo di rammarico la figura della maestra d’inglese: Milena Vukotic, oltre che una brava attrice – nastro d’argento nel 1994 – è stata anche una donna molto bella ed elegante, come appunto in Perdono, ed è un peccato che sia rimasta nella memoria di molti, se non di tutti, come la moglie sciatta e bruttina del ragionier Fantozzi.   

Laura Efrikian 


Caterina Caselli 


Milena Vukotic 


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giovedì 23 novembre 2023

SUSPENSE

1396_SUSPENSE (The Innocents). Regno Unito 1961; Regia di Jack Clayton.

Spesso, le trasposizioni di opere da un media artistico ad un altro lasciano perplessi quando non addirittura contrariati. In particolar modo la letteratura è, mettiamola così, piuttosto maldisposta nei confronti del cinema, per via del trattamento che spesso questi le riserva. Alle volte, forse in modo cautelativo, viene cambiato il titolo, quasi a rimarcare che, tra una riduzione per il grande schermo e la sua fonte originale su carta, vi sia una significativa differenza. Altre, come nel caso celeberrimo di Shining (1980), il regista Stanley Kubrick lasciò inalterato il titolo del libro di Stephen King, ma ne cambiò in parte lo spirito, almeno stando allo scrittore. Non è un riferimento fatto a caso, tra i tanti possibili, quello di Shining, perché il romanzo di King aveva qualche indubbio debito nei confronti dello splendido Il giro di vite di Henry James, caposaldo della letteratura in senso assoluto e di quella horror in particolare. In quella che è sostanzialmente la sua versione del romanzo di James, il regista Jack Clayton utilizzò come soggetto la pièce teatrale The innocents di William Archibald (1950), sceneggiata dallo stesso Archibald e adeguata prima da Truman Capote e poi da John Mortimer, e di questa ha mantenuto il titolo, almeno nell’edizione originale. In Italia i distributori si sono inventati un Suspense che, se ben rappresenta il tipo di sensazione che si prova guardando il film, contribuisce ulteriormente a sviarci dalla vera fonte dell’opera. Che, in questo caso, sarebbe stato invece bello e opportuno tenere bene a mente anche grazie al titolo: quella di Clayton è infatti una degna trasposizione cinematografica de Il giro di vite, uno dei romanzi migliori di sempre e di certo uno dei più profondamente inquietanti. 

Ma si era detto delle difficoltà che il cinema incontra, sovente, nel ridurre la letteratura sullo schermo; come ci è riuscito, quindi, Clayton, che non è nemmeno particolarmente famoso come regista? Innanzitutto va specificato che non si intende che Suspense sia bello quanto il romanzo di James; sono opere diverse e, come tali, vanno contestualizzate. Il giro di vite è poi un romanzo leggendario e il paragone è eventualmente scomodo per chiunque, non solo per il film di Clayton. Tuttavia, va dato atto al sottostimato regista britannico di essere riuscito a ghermire lo spirito del libro, parte dell’atmosfera e, tutto sommato, anche il senso profondo; non cose da poco, quindi. Clayton, tra l’altro, è un regista che incuriosisce, perché nonostante non riuscì ad imporsi in modo significativo, lasciò comunque alcuni spunti degni di nota. Suspense è certamente il suo capolavoro, nonché l’opera considerata più valida di Freddie Francis come direttore della fotografia; molto funzionali le musiche Georges Auric e il montaggio di James Clark. E dire che, a quanto si legge, Clayton era inizialmente scettico sull’idea di girare nel CinemaScope voluto dalla 20th Century Fox, lo studio di produzione; il regista era forse perplesso sull’eccessivo spazio laterale che, in una storia di fantasmi da giocare prevedibilmente sul fuori campo, risultava concettualmente una sorta di autogol. A risolvere i timori di Clayton fu Freddy Francis, mago del bianco e nero – nonché futuro regista horror di serie B – che si produsse in un eccellente lavoro per utilizzare al meglio lo spazio messo a disposizione dal formato panoramico. Personaggi lasciati ai margini dell’inquadratura, viste di profilo, punti di ripresa insoliti, e poi un’estrema ‘profondità di campo’ che non dava scampo: Francis e Clayton misero in atto tutta una serie di espedienti mirati a creare nello spettatore una sorta di disagio pur se in modo discreto e sottile. 

Debora Kerr, nella parte di Miss Giddens, la giovane istitutrice protagonista, completò l’opera con una prestazione maiuscola, cogliendo l’atmosfera inquietante con un’azione, prima introspettiva e poi interpretativa, straordinaria. Il ruolo di Miss Giddens è cruciale ed è questa una delle intuizioni geniali di Henry James, ripresa in modo adeguato da Clayton: la ragazza è presentata come la quintessenza della purezza, della bontà d’animo, dell’incorruttibilità. Ma non per questo severa nel giudizio sugli altri. Anzi, Miss Giddens si rivela assai tollerante, quando evita di lasciar in qualche modo intendere una sua possibile disapprovazione alla filosofia di vita dell’illustre personaggio (Michael Redgrave) che l’assume per badare ai suoi nipoti. Costui chiarisce subito che intende pagarla per togliergli il fastidio di far dietro ai due piccoli e lascia ampiamente capire che, dal punto di vista umano, non è particolarmente coinvolto nella sorte dei due ragazzini. Tuttavia Miss Giddens, che invece ripete a più riprese il suo amore per i bambini, non si lascia scappare alcun commento sulla condotta di uno zio tanto indifferente per quelli che, oltre ad essere due innocenti creature, sono anche suoi parenti stretti. Ecco, basta già questa brevissima impostazione della vicenda per coglierne il punto cardine. La giovane istitutrice, che ben conosce l’amore dovuto ai bambini, evita accuratamente di manifestare la benché minima forma di dissenso nei confronti dello zio; anche la più velata e sottointesa critica è repressa da Miss Giddens che, evidentemente, conosce anche il valore della tolleranza alle idee e condotte altrui. 

Ma questo continuo sforzo per contenere qualunque forma di reazione che possa in qualche modo perturbare la sua docile indole, ha un suo lato oscuro. Il timore che qualcosa possa corrompere la sua innocenza, la sua purezza, la costringe ad una costante attenzione alle tentazioni della vita; perfino ad un istintivo moto di disapprovazione. Forse, non a caso, una donna giovane e bella come lei (Debora Kerr è perfetta nel rendere la bellezza esente da erotismo manifesto dell’istitutrice) è ancora zitella. Se la cosa riesce a trovare un suo equilibrio, fintanto che riguarda lei stessa, progressivamente degrada fino alla tragedia, quando Miss Giddens proietta le proprie paure sui due bambini a cui deve badare. In questo senso il testo di James, che aveva già quest’impostazione, è clamorosamente moderno. Le doti considerate positive e preziose, quelle all’insegna del buon senso, della tolleranza, della prudenza, sono in qualche modo funzionali finché sono gestite dall’individuo per la propria condotta, ma diventano letali quando vengono imposte ad altri. Ecco che viene spiegata bene, in un testo di fine Ottocento, la realtà odierna con la miriade di leggi che tentano di prevedere l’imprevedibile e di tutelare i cittadini, i lavoratori, le minoranze, i minori, le donne, e via dicendo. I legislatori di oggi sono tanti piccoli Miss Giddens che vedono fantasmi e pericoli ovunque; a volte queste insidie ci sono anche, ma nella maggioranza dei casi è più il danno creato da queste interferenze nella vita quotidiana di ognuno che il reale beneficio che l’individuo ne trae. Clayton, con il punto di vista del suo film, asseconda la visione di Miss Giddens, ritraendo i piccoli Miles (Martin Stephens) e Flora (Pamela Franklin) con una certa ambiguità. Certo, non a livello dei fantasmi di Peter Quint (Peter Wyngarde) e Mary Jessel (Clytie Jessop), che appaiono come creature scopertamente malefiche, ma anche i fanciulli hanno un che di inquietante. 

Ma è solo la suggestione indotta ed enfatizzata, filtrata dalle paure dell’istitutrice. In realtà, il comportamento di Miles e Flora è semplicemente quello di due bambini che, ogni tanto, rivelano la natura umana. Una natura che non è necessariamente sempre e del tutto innocente. Purtroppo, sotto la lente deformante di una esagerata e malriposta preoccupazione, la reazione di Miss Giddens, con tutte le conseguenze catastrofiche che genera, è devastante. E’ lei, a questo punto, a divenire il pericolo, la minaccia, per i bambini: il timore che i due ragazzi possano finire sotto il nefasto influsso di due ipotetici fantasmi, assume le sembianze e la potenza del Male assoluto. Miles e Flora, per quanto possano destare qualche perplessità, ma va ricordato che li vediamo nell’ottica di Miss Giddens, hanno anche l’alibi di non poter conoscere a fondo la corruzione di Quint e Mary. I due servitori della magione, passati recentemente a miglior vita, erano soliti dare scandalo con la loro condotta a mrs. Groce (Megs Jenkins) ma, soprattutto, non si curavano della presenza dei bambini durante i loro rapporti sessuali. Situazione in effetti critica, eppure, più i fatti in sé stessi, è proprio Miss Giddens, che immaginando, anzi, visto il tema del racconto, fantasticando sulle prestazioni di Quint e Mary, ipotizza chissà quale corruzione abbia contaminato i due bambini. L’istitutrice era stata accolta con favore dai piccoli ma, al quel punto, Flora l’avrebbe totalmente avversata, manco fosse una sorta di demone. Miles era già più cresciuto e Miss Giddens l’aveva voluto con sé per il chiarimento finale, nella grande casa, unicamente loro due. E i fantasmi, naturalmente. Miles non avrebbe avuto scampo, avrebbe dovuto ammettere di essere sotto la nefasta influenza di Quint. Confesserà, il ragazzo, di essere stato corrotto? Si manifesterà apertamente Quint? Basterà la catarsi della confessione a Miles per liberarsi? Domande prevedibili ma fuori bersaglio. Il Male non si annida nell’anima nera di Quint, ormai morto, e nemmeno in quella innocente di Miles; i bambini non sono santi, ma certo non custodiscono alcun demone davvero pericoloso. Almeno non quanto quello di chi, come Miss Giddens, vuole salvare a tutti i costi la tua anima. E, per farlo, crea e alimenta il peggiore dei mali possibili, davanti al quale non solo il povero Miles collassa, ma anche noi, ogni giorno, siamo costretti a cedere un poco, inesorabilmente.
Il Male che attanaglia le persone insicure e pavide, quelle che poi devono esternare in qualche modo la loro vigliaccheria, seppure amichevolmente mascherata da prudenza, da prevenzione, da ossequioso rispetto delle regole. Perché è questo il Male più grande che esiste: la paura di vivere.  
 








Deborah Kerr 






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