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venerdì 30 giugno 2023

IL GRANDE SENTIERO (1930)

1302_IL GRANDE SENTIERO (The Big Trail)Stati Uniti,1930; Regia di Raoul Walsh.

La cosa più sorprendente de Il grande sentiero di Raoul Walsh è il fatto che un’opera tanto monumentale, tanto coinvolgente, tanto affascinante, sia stata sostanzialmente un flop al botteghino. Certo, la spiegazione è nota e anche convincente: girato in contemporanea in due formati, 35 mm standard e 70 mm Grandeur dalla Fox, non trovò la possibilità di sfruttare il formato panoramico nelle sale non essendo queste adeguatamente attrezzate. I cinema si erano già dovuti sobbarcare i costi per proiettare i film sonori, pochi anni prima e, con l’arrivo della Grande Depressione, altri costosi investimenti non erano proprio possibili. Fu così che l’opera che doveva sancire il lancio di John Wayne nell’olimpo delle stelle fallì e per il Duca si prospettarono anni di B-movie, almeno fino al capolavoro fordiano Ombre Rosse (1939). Il grande sentiero non deluse solo le aspettative di John Wayne, peraltro: lo studio di Produzione Fox aveva fatto le cose in grande, girando non solo le citate due versioni nei diversi formati ma anche altre in quattro differenti lingue: italiano, spagnolo, tedesco e francese. Uno sforzo produttivo enorme al quale il regista Raoul Wash si adeguò dietro alla macchina da presa, imbastendo una storia epica. L’attenzione alla verosimiglianza dei dettagli da parte di Walsh fu spasmodica e a contribuire alla credibilità del racconto concorsero le condizioni in cui il film venne girato. 

Pare che gli agenti atmosferici o gli incidenti, alcuni dei quali utilizzati poi ai fini narrativi – ad esempio il carro conestoga che precipita nel dirupo – furono reali ostacoli alla realizzazione del film che ebbero un prezzo perfino in vite umane. Il protagonista della storia, Breck Coleman (Wayne, ovviamente) oltre al suo bel daffare per far la guida alla carovana in viaggio verso l’Oregon e ricercare l’assassino di un suo amico, trova il tempo per innamorarsi di Ruth (Marguerite Churchill). A conti fatti, la vicenda sentimentale con la lunatica ragazza è la peggiore gatta da pelare per il nostro Breck che mostra a tutti quanti qual era la tempra dei pionieri americani, resistendo oltre ogni limite ragionevole alle bizze dell’amata e convolando poi a lieto fine. Certo, la Churchill era carina oltre che, sostanzialmente, la sola ragazza nella storia; ma questi erano in pratica i suoi unici pregi. Da quel lontano 1930, il genere western dovrà attendere una ventina d’anni prima di avere il suo momento glorioso, con gli anni Cinquanta. In quel lasso di tempo che intercorse, la figura femminile assumerà un ruolo importante, tanto che negli anni Quaranta si può parlare di western romantico come corrente dominante. E le ragazze protagoniste di quei film furono indubbiamente un elemento cruciale nel progressivo consenso che il western ottenne presso il pubblico. Chissà, forse anche lo scarso fascino della Ruth interpretata da Marguerite Churchill fu, al contrario, un elemento che contribuì al fallimento al box-office de Il Grande Sentiero. Tuttavia sarebbe poco galante come chiave di lettura per cui si può rimanere sull’ipotesi che il film fu troppo in anticipo sui tempi, per maestosità della messa in scena e relativi costi, da non riuscire poi a raccogliere i frutti degli sforzi produttivi. Un peccato, certo; proprio come non vedere una partner adeguata contendere la scena a quel fusto di John Wayne ventitreenne.  









Marguerite Churchill 



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giovedì 29 giugno 2023

LA CONFESSIONE DELLA SIGNORA DOYLE

1301_LA CONFESSIONE DELLA SIGNORA DOYLE (Clash by night)Stati Uniti,1952; Regia di Fritz Lang.

Clash by night è uno splendido documentario, opera del geniale regista Fritz Lang. Si, d’accordo, questa è un’affermazione vagamente provocatoria perché, stando alla comune classificazione, La confessione della Signora Doyle è un film drammatico sentimentale a tinte noir e non certo un documentario. Ma, a ben vedere, se la definizione di dramma è abitualmente talmente generica che può andare bene per quasi ogni cosa, non è che La confessione della Signora Doyle sia poi aderente al genere sentimentale e nemmeno al noir. Come film romantico manca una vera storia d’amore e poi la protagonista, la signora Marta Doyle (una stratosferica Barbara Stanwyck), ostenta troppo cinismo per reggere quel tipo di ruolo. Tutto sommato, forse siamo più nel campo del noir, dal momento che, tanto la regia del maestro Lang che la fotografia del grande Nicholas Musuraca, lì ci portano, in quel tipo di storia, almeno a livello d’ambientazione. E di personaggi: la Stanwyck è un’icona noir, così come Robert Ryan (è Fred, quello che diventerà l’amante della protagonista) e volendo vedere anche Marilyn Monroe (è Peggy) agli inizi della carriera era ricordata principalmente per Giungla d’asfalto (1950, regia di John Huston) e, quindi, rincarava la dose in tal senso. Tuttavia, per poter dirsi davvero un noir, a La confessione della Signora Doyle manca il passaggio forte, qualcosa che sprofondi il protagonista in una spirale disperata; in genere c’è un omicidio o comunque un crimine, a questo scopo. In questo film, Lang apparecchia per bene il momento, ma quando Jerry (Paul Douglas), marito di Marta, vuole torcere il collo all’amico Fred che se la intendeva con sua moglie, si ravvede proprio sul più bello. 

Non c’è quindi il momento più critico, quello necessario a poter definire La confessione della Signora Doyle davvero un noir. Anche il tema del racconto, un triangolo sentimentale con Marta contesa tra i due amiconi, suo marito, l’ingenuo Jeremy, e Fred, il furbacchione di turno, non verte sull’amore – il cardine dei film romantici – ma piuttosto sul desiderio – il sentimento principe dei noir che nel racconto ha anche una testimone d’eccezione, anzi la testimone d’eccezione, l’essenza stessa del desiderio, Marilyn Monroe. Eppure, nel lungometraggio c’è la più spietata e implacabile – del resto opera di Fritz Lang, insuperabile nell’acutezza delle sue analisi – definizione dell’amore. Marta, a cui la Stanwyck regala un altro passaggio intenso, toccante e memorabile, si sta congedando da Fred, mandando a monte la sua fuga con l’amante, quando i giochi erano ormai conclusi. 


L’uomo non se ne capacità, fino a poco prima, la donna sembrava follemente innamorata e disposta a tutto, pur di fuggire con lui. E, a quel punto, ecco la confessione della signora Doyle – e per una volta il titolo italiano azzecca il passaggio sublime: “non sono mai stata innamorata di nessuno” ammette tristemente amara la donna. E poi arriva al dunque: “solitudine, timore, dispetto, noia. Ecco quel che chiamiamo amore”. Sul momento la frase ci atterrisce ma un termine, più di altri, salta all’occhio e ci illumina la mente d’incanto: si ama per dispetto. Chi l’avrebbe mai detto; sono due concetti non solo in contrasto ma che non presentano alcuna connessione. Per dire, il dispetto non è l’odio; l’odio è l’opposto dell’amore e, almeno in senso di negazione, ha un rapporto con l’amore. Ma il dispetto? Il dispetto è più un capriccio, una ripicca, qualcosa di meschino, quasi infantile, una delle cose meno nobili che esistano, e non ha neanche la statura malvagia – dove, a suo modo, si può trovare una sua forma di dignità – dell’odio. Eppure questa rivelazione ci spalanca la verità davanti agli occhi: anche un canovaccio sentimentale torbido ma senza alcuna apparente logica, come quello de La confessione della Signora Doyle, assume allora un significato chiaro. Non è la virilità di Fred e nemmeno lo scarso fascino di Jerry, a spingere Marta a tradire il marito. Il punto è un altro e molto più profondo. 

Quando non riusciamo a trovare pace in noi stessi, perché la vita ci pone costantemente di fronte al rischio di sentirsi insoddisfatti, ecco che dobbiamo riversare su qualcuno il nostro risentimento, la nostra infelicità. Ma sappiamo bene essere una cosa poco nobile e quindi preferiamo agire di soppiatto, di sponda, di riflesso. Dobbiamo sfogare il nostro livore ma, vigliaccamente, lo camuffiamo d’amore, così da non sentirci in colpa: ecco perché ci si innamora di una persona, spesso palesemente sbagliata, con cui tradire e ferire colui che, secondo le nostre pretese, avrebbe dovuto renderci felici. Questa situazione è lampante nel finale, quando Marta tradisce il pover’uomo del marito, ma ce ne sono tracce anche in precedenza. Ovvero proprio quando la donna accetta di sposare Jerry, uomo che non ama e da cui non è attratta, e lo fa per non rischiare di accasarsi con Fred: conosce i bellimbusti come lui e l’hanno già delusa troppe volte. 

Di fatto, sposare un pacioccone come Jerry è nient’altro che un dispetto ad un fanfarone come Fred. Poi, quando la vita quotidiana matrimoniale finisce per annoiarla, e Jerry si rivela un partner assai poco stimolante, la donna si vendica rispolverando la passione per Fred, stavolta per fare un dispetto al marito. In pratica tutte le vicissitudini amorose del triangolo sono determinate dalla volontà di ferire più che dall’amore; volendo c’è anche la scorrettezza di Fred che non si fa alcun problema a corteggiare la moglie dell’amico spingendosi fino ad un passo dal sottrargliela. Il tema della bambina è inserito come monito, probabilmente: tutti questi discorsi sono validi al netto della presenza di eventuali e incolpevoli figli, la cui serenità è doveroso tutelare. Tuttavia l’argomento principale è quello che lega Marta ai due uomini e le capricciose motivazioni che ne determinano le scelte. Naturalmente si può pensare che sia piuttosto l’ingovernabilità dell’amore a guidare queste – come altre – peripezie sentimentali e, se si considera irrazionale il più nobile dei sentimenti, allora tutto questo discorso è superfluo. Ma La confessione della Signora Doyle si apre con lo stupefacente incipit ambientato a Monterey con i pescherecci che fanno rientro al porto, tra le foche e i gabbiani che accorrono felici, sapendo che qualche sardina ci scapperà anche per loro. Scene tipiche da documentario, altro che. E che dire delle fasi dell’inscatolamento del pesce, i nastri trasportatori, le catene di lavorazione e, ad un certo punto, ecco Marilyn tra le operaie. Vedendola, vedendone le forme, o anche solo i capelli biondi sbucare dalla cuffietta d’ordinanza, viene quasi spontaneo pensare: è possibile contenere, ingabbiare, il desiderio, proprio come si inscatola il pesce? E’ forse questo che fa la nostra società, la nostra civiltà, con le sue istituzioni, come il matrimonio? Ma è davvero possibile? Guardando la Monroe, ma anche le immagini di Lang e Musuraca con il mare rabbioso che ribolle sugli scogli o le nuvole cumulonembi che annunciano il temporale, verrebbe da dire di no. E allora eccole spiegate per bene le motivazioni, quelle motivazioni che bugiardamente spingono a tradire proprio la persona amata in nome dell’amore. Ma, con tutto questo, provocazione o meno, forse dovremmo davvero considerare La confessione della Signora Doyle un documentario. Non è il caso: è semplicemente il cinema di Fritz Lang.  








Barbara Stanwyck 




Marilyn Monroe 




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mercoledì 28 giugno 2023

CRASH

1300_CRASH . Canada, Regno Unito,1996; Regia di David Cronenberg.

Innanzitutto bisogna intendersi: non si va a vedere un film di David Cronenberg – e men che meno il suo disturbante Crash – per passare una serata piacevole di cinema. Non è un cinema divertente, quello del canadese. E già che ci siamo: è vero, Crash è un film metalinguistico, il protagonista si chiama James Ballard (James Spader) e fa il produttore cinematografico. Ma il ruolo di Cronenberg, nella derivante metafora, è quello di Vaughan (Elias Koteas), e non è un dettaglio marginale, non fosse anche solo perché dalla voce di quest’ultimo abbiamo una confessione diretta sulla natura del cinema del profeta della nuova carne. Vaughan, rispondendo a Ballard a proposito del suo progetto, risponde testualmente: “il rimodellamento del corpo umano da parte della tecnologia”. Una definizione che sembra calzante per il cinema di Cronenberg, vero? Fino ad un certo punto, perché il cinema del regista nato a Toronto è molto più sostanziale; tant’è che lo stesso Vaughan, più avanti, rivela che quella parte del suo lavoro “è solo rozza fantascienza” che riveste in superficie la sua opera, la cui natura è assai più profonda. E’ qualcosa di intimo, di personale, di interiore. Tornando all’attribuzione dei ruoli nella metafora metalinguistica, forse non è un caso che Koteas sia canadese, proprio come Cronenberg, a differenza di Spader che è statunitense. E lo stesso scrittore James Ballard, autore del romanzo Crash del 1973 da cui è tratta la pellicola, ci dice che la riduzione di Cronenberg comincia proprio dove finiva il suo racconto, e che la sostanziale differenza è l’accettazione da parte dei personaggi del film dell’universo di Vaughan, efficacemente definito dal letterato con un qualcosa tipo ‘scienziato teppista’

Se l’intento autobiografico di Ballard è evidente, il protagonista del libro ha il suo nome, Cronenberg sposta il riferimento sull’oggetto che nel romanzo ne era il polo magnetico, Vaughan appunto. E se è vero che il personaggio Ballard nel film fa, come detto, il produttore cinematografico – il che potrebbe farlo intendere come ideale alter ego del regista – è altresì palese che non sembri molto coinvolto nel suo lavoro che oltretutto non dà, per quel che si può vedere, l’impressione di essere qualcosa di importante. Al contrario, Vaughan non solo riporta in vita momenti del mito cinematografico, l’incidente di Jayne Mansfield – o della Storia – l’auto su cui fu ucciso John Fitzgerald Kennedy – ma svela l’intreccio, la connessione, tra il cinema e la vita reale: il lavoro di un regista, insomma. 

Nella sua replica dal vero dell’incidente di James Dean, Vaughan mischia la cronaca di quel tragico schianto con la Chicken Run vista in Gioventù Bruciata (1955, regia di Nicholas Ray), ricordando come il cinema sia un’anticipazione profetica della realtà. E Crash è infatti una sorta di profezia, una profezia lacera e sporca, per usare ancora le parole di Vaughan. Lacera come i corpi dei personaggi, percorsi da ferite e cicatrici, come quello di Gabrielle (Rosanna Arquette, bellissima), ormai un mezzo androide visti i tanti innesti meccanici, o sporchi come i pensieri di Helen Remingotn (Holly Hunter, tosta come suo solito), maniacale nel guardare e riguardare al rallentatore le videocassette con gli incidenti, manco fossero film porno.
A proposito di pornografia: un altro aspetto da mettere sul tavolo sono le reazioni del tempo all’uscita di Crash, considerato che il film è tutto tranne che provocatorio. Si, è vero, ci sono molte scene di sesso, ma trattate come se Cronenberg le stesse guardando al microscopio, come se ad accoppiarsi fossero delle specie di insetti dei quali ci è impossibile scorgere eventuali sentimenti emotivi. Ciononostante, ovvero nonostante la messa in scena estremamente fredda – ma in qualche caso anche proprio per via di questa – le reazioni al film furono clamorose: dalla Gran Bretagna a Napoli, rappresentanti delle istituzioni tuonarono contro il lungometraggio, mentre numerosi critici nostrani lo stroncarono senza appello. Per dovere di cronaca, va detto che Crash si guadagnò al Festival di Cannes del 1996 il Premio della Giuria, pare con conseguente scorno del presidente della stessa, Francis Ford Coppola, totalmente contrario al lavoro di Cronenberg. Così come si ricordano i fischi all’indirizzo del canadese, mentre sul palco della cittadina francese ritirava il premio, ma del resto si è anticipato che Crash non è che sia un film che strappi gli applausi dalle mani. Stavolta non è tanto rozza fantascienza, come buttato lì nei dialoghi del film, una definizione che potrebbe essere adeguata per i primi film del canadese; al contrario, sotto un certo aspetto, Crash è addirittura raffinato, ultra-raffinato, come evidenziato dagli eterei e cromati titoli di testa.


O come la prima scena di sesso, con Deborah Unger – è Catherine Ballard, la compagna del protagonista – che in calze di nylon e fisico tonico e scolpito, ricorda Kim Basinger in 9 settimane e ½ (1986, di Adrian Lyne) o qualunque calendario erotico degli anni Ottanta. La scena di Catherine che va a trovare James all’ospedale, con le coperte che opportunamente segnano il confine per non scadere nel pornografico esplicito, è un altro esempio, nonostante poi Crash sia stato anche accusato di esserlo, pornografico. E, in effetti, è un’accusa in qualche modo inerente: la pornografia centra eccome perché è quella che praticano continuamente i personaggi del film. Dell’interesse perverso per gli incidenti si è accennato. 

E poi, in fondo, i rapporti sessuali senza amore, passione, trasporto o sentimento che scandiscono il racconto, come potrebbero essere definiti? Ginnastica meccanica? Pornografia, in senso letterale, stando a Treccani.it significa: “trattazione o rappresentazione (attraverso scritti, disegni, fotografie, film, spettacoli, ecc.) di soggetti o immagini ritenuti osceni, fatta con lo scopo di stimolare eroticamente il lettore o lo spettatore” ed è evidente che non è l’intento di Cronenberg. Però è quello dei personaggi del film: la scena in cui i Ballard fanno sesso fantasticando di veder coinvolto Vaughan è la dimostrazione che stanno inseguendo il desiderio, qualcosa che li ecciti. In quel passaggio, con un dialogo piuttosto esplicito e diretto, Catherine immagina e racconta di un rapporto tra i due uomini, James e Vaughan, dal momento che pur di provare piacere si cerca qualunque strada, anche quella omosessuale. 

L’approccio di Cronenberg all’omosessualità, come si era già visto nei suoi precedenti film, è molto neutro, molto distaccato: in questo caso sembra un diversivo nel momento in cui l’attrazione per l’altro sesso, per routine, per ripetitività, per noia, ha perso interesse. Ma, in fin dei conti, nonostante qualche scintilla tra Ballard e Vaughan si avverta, anche il sesso omosessuale, come quello etero, a lungo andare perde forza. Ed è in questo contesto che si innesta il tema degli incidenti stradali: l’adrenalina, la paura, sono scosse di vita che possono riattivare il desiderio. Ma non il desiderio di vita, di sopravvivere; il discorso di Cronenberg è più cerebrale che emotivo. Il sesso è naturalmente connesso con la riproduzione; l’uomo, però, nella sua evoluzione, ha scoperto che dà piacere di per sé stesso, e semmai la riproduzione è una conseguenza. Qui sono cominciati i problemi culturali: ad esempio, la religione cristiana ha insistito, e insiste, sullo stretto collegamento delle due cose. Inoltre, morale e costume, cercano di ingabbiare la forza del desiderio all’interno di categorie quando, nella realtà, essa è molto più variegata e liquida. Tutto questo si è già visto, nel cinema di Cronenberg. Cosa porta di nuovo Crash, nella poetica dell’autore di Toronto? Forse il cercare il modo, per l’individuo, di uscire dalle grinfie della società, una società che controlla ogni cosa, ogni azione, ogni pensiero, anche nell’ambito privato, anche in quello sessuale. In Crash, le immagini panoramiche urbane, che spesso in Cronenberg avevano riguardato edifici e complessi architettonici, stavolta sono dedicate a svincoli con decine di corsie, con il costante flusso di automobili. L’individuo si illude di guidare ma è semmai costretto lungo i sinuosi percorsi guidati delle carreggiate autostradali. E’ un’efficace metafora della capacità persuasiva della società che induce in ognuno un pensiero che segua questa o quell’etica ma non lascia praticamente più il libero arbitrio. 

C’è sempre una cosa giusta e una sbagliata e la scelta da fare è obbligata; naturalmente per il bene dell’individuo. Siamo negli anni Novanta, le cinture di sicurezza non sono ancora divenuto quel dispositivo ovvio e scontato che è oggi e, nel film, vediamo i personaggi che, anche per via delle loro malformazioni, conseguenze degli incidenti, armeggiano per mettersele. E’ anche questo un piccolo segnale di come la società si prodighi per convincere ogni individuo alla tutela della propria salute e sicurezza; così come i poliziotti che intervengono per interrompere gli spettacoli di Vaughan, perché mettono a rischio vite umane. Non c’è nessuno scampo, per l’individuo, neanche il sesso, che in fondo è già stato metabolizzato dalla società, nonostante la reazione della critica e del pubblico a Crash. E, a questo proposito, è interessante il punto di vista del critico Luigi Pintor che Gianni Canova nel suo Castoro Cinema riporta: “Se si trattasse di questo [la pornografia e l’osceno] sarebbe tutto in regola” riferendosi al film di Cronenberg. Non è, quindi, vedere scene di sesso gratuito a disturbare. Ed è proprio nelle parole di Pintor che si può capire perché il sesso, prima o poi, anche quello strano, bizzarro, estremo, sia destinato a venire a noia. Non ci sono tante alternative, quindi. All’inizio del film, mentre James Ballard e Catherine si raccontano a vicenda le proprie scappatelle extraconiugali, l’uomo si lamenta di essere stato richiamato sul set nel momento meno opportuno. La donna si dispiace e commenta il mancato orgasmo del marito “Povero tesoro, forse la prossima volta…”
Le stesse parole che stavolta James sussurra alla moglie sopravvissuta all’incidente con cui si chiude il film. Perché Crash ci dice che, per l’individuo cronenberghiano, nella società odierna, l’unico orgasmo, l’unico piacere, è poter morire in modo traumatico e fuori da ogni tentativo di controllo. L’unico modo per sentirsi vivo è schiantarsi in uno scontro dentro un’automobile, beffardamente nel e grazie al simbolo per antonomasia della società moderna. Ci hanno insegnato che il sesso permette di vincere la morte. Forse mentivano. Perché la morte è il vero sesso. 



Rosanna Arquette 





Holly Hunter 



Deborah Unger 




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