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domenica 5 novembre 2017

LA GRANDE ILLUSIONE

22_LA GRANDE ILLUSIONE (La Grande Illusion). Francia, 1937;  Regia di Jean Renoir.

Con la lungimiranza tipica del grande artista, Jean Renoir intuisce che quel sentimento che aveva definito in Francia la Grande Guerra come la der des ders, ‘l’ultima delle ultime’, fosse stato La grande illusione: e di conseguenza, lascia intendere forse che, nel 1937, anno di uscita del suo film intitolato appunto così, il mondo fosse già pronto per un nuovo bagno di sangue. Basterebbe solo questo fatto, solo questa capacità di cogliere il momento tragico su scala mondiale dell’autore francese meglio di tanti politici o storici, per valutare come indispensabile la visione di La grande illusione. Ma in fondo questo non è che un altro di quegli effetti collaterali del cinema, che quando è fatto da grandi autori, non solo riflette la realtà, ma è in grado di anticiparne gli eventi. Comunque, anche da un punto di vista strettamente tecnico, La grande illusione è un film notevole; non ha punti deboli, è valido come contenuti, di cui si è già accennato, ma non vanno sottovalutati gli aspetti cinematografici e l’attenzione alla platea. Per inquadrare l’opera, attraverso le tradizionali etichette che abitualmente le definiscono, diciamo che può essere considerata un film di guerra. In realtà, del conflitto in oggetto, ovvero la Grande Guerra, si vede poco: ci sono un paio di colpi di pistola, e poco più. Niente bombardamenti, battaglie, assalti: tutta la storia è ambientata nei campi di prigionia tedeschi dove vengono rinchiusi i protagonisti, tutti soldati francesi.
Il gruppo che finisce sotto l’obiettivo di Renoir è composto dal capitano Boëldieu (Pierre Fresnay), il tenente Maréchal (Jean Gabin), il tenente Rosenthal (Marcel Dalio), Cartier (Julien Carette), l’insegnante (Jan Deasté) e l’ingegnere (Gaston Modot), tra i quali si istaura un forte sentimento solidale, alimentato dalla comune prigionia. La cosa sorprendente del film è che un rapporto simile si crea anche nei confronti di alcuni tra i soldati tedeschi che li tengono prigionieri: il sergente Arthur (Werner Florian) è salutato quasi con affetto, quando i reclusi vengono trasferiti da un campo di prigionia all’altro. Il tema dello spostamento tra i luoghi di detenzione percorre tutta la durata del film, e narrativamente serve a vanificare i ripetuti tentativi di fuga del manipolo di soldati francesi. Ogni qualvolta questi sono pronti alla fuga, in un caso avevano pure scavato un lunghissimo e tribolatissimo tunnel sotterraneo, arriva l’ordine di trasferimento. 
L’idea che passa è quanto sia inutile tentare di fuggire, vuoi per l’impossibilità di farlo, vuoi perché, come fanno notare gli stessi soldati in un dialogo del film, nel caso di riuscita della fuga ad attenderli ci sarebbe lo stesso destino che li ha condotti in prigionia; ovvero la guerra.
E proprio l’inutilità della guerra è un tema modernissimo e molto sentito da Jean Renoir, che parla (e dirige) con cognizione di causa: è stato soldato, ed è stato gravemente ferito ad una gamba, rimanendo claudicante per sempre. Renoir è quindi voce autorevole nel merito, non solo come cineasta o artista, ma anche come individuo coinvolto direttamente nel conflitto bellico: e nonostante egli potesse vantare questo curriculum, La grande illusione non si gioca sulla traccia dell’eroismo controvoglia di altri testi pacifisti, o sull’etica del sacrificio. Renoir nega questa concessione eroica anche alle vittime, a chi la guerra la subisce, e non solo, come vedremo, a coloro hanno ancora l'ideale nobile e cavalleresco della morte in battaglia. 
Non c’è nessuna gloria a morire in guerra, non ci sono eroi, solo soldati che vogliono tornare alle proprie faccende domestiche, alla propria vita borghese. E’ un rifiuto totale alla guerra, questo La grande illusione, che non solo non mette in scena il conflitto, ma nemmeno il nemico: i tedeschi non sono visti in ottica negativa, del sergente Arthur si è detto, ma il quadro generale è simile.
Quando Maréchal e Rosenthal riescono finalmente a scappare, si rifugiano nella piccola fattoria di Elsa (Dita Parlo), una contadina tedesca, e vivono per un po’ con lei e la figlioletta, come due normalissimi civili. Tra Maréchal e la donna nasce anche una normalissima storia d’amore, mentre Rosenthal si rimette dalla ferita rimediata durante la fuga. Non sembrano esserci differenze tra Elsa e una contadina francese, così come non ci sono tra soldati delle opposte fazioni; ma Rosehntal presto guarisce e i due francesi devono purtroppo tornare al proprio dovere, prima di finire di nuovo catturati dalle pattuglie tedesche. 
Se non ci sono differenze tra il popolo francese e quello tedesco, la diversità che mette in rilievo Renoir è quella di classe: nella Grande Guerra ci sono ancora ufficiali che intendono il conflitto bellico come il luogo per eccellenza dove mostrare coraggio, audacia, sprezzo del pericolo, e dove morire sul campo di battaglia sia la massima gloria possibile. A questa categoria appartiene il capitano Boëldieu ma più ancora il Capitano von Rauffenstein (un leggendario Erich von Stroheim), ufficiale tedesco quanto mai rammaricato di essere finito a gestire un campo di prigionia e di non essere ‘morto con onore’. Renoir vorrebbe forse negare anche a costoro, soprattutto a costoro verrebbe da dire, la gloria della bella morte: ma ai due ufficiali regala invece una sorta di premio di consolazione, in segno di rispetto alla lealtà ai propri principi dei due aristocratici
L’ufficiale francese compie l’unico atto di eroismo del film, attirando su di sé l’attenzione delle guardie e permettendo la fuga di Maréchal e Rosenthal: un atto di eroismo pagato con la vita, e quindi sicuramente degno di rispetto. Un rispetto venato da una certa ironia, perché ad uccidere Boëldieu è la pistola di von Rauffenstein, che così compie l’unico gesto bellico del film ammazzando lo stimatissimo nemico. L’ufficiale tedesco assisterà poi in letto di morte quello francese, invidiandone la sorte: Renoir mette in scena tutti questi elementi, ma non cade mai nella derisione o in una ironia troppo grassa: c’è del rispetto per questi cavalieri ormai fuori tempo, sebbene i loro codici di comportamento appaiano un poco assurdi a fronte, per fare un esempio, del pragmatismo che Jean Gabin porta naturalmente in dote al suo personaggio.
Il finale conferma i temi dell’opera, e quando Maréchal e Rosenthal vengono scoperti dagli inseguitori, in lontananza ma ben visibili sul campo innevato, potrebbero essere facilmente colpiti dai fucili tedeschi. Che invece rinunciano, riconoscendo i bersagli oltre il confine svizzero, e quindi neutrale. 
Una piccola illusione, verrebbe da credere, questo atto di lealtà; ma facciamocela bastare.

Dita Parlo








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