22_LA GRANDE ILLUSIONE (La Grande Illusion). Francia, 1937; Regia di Jean Renoir.
Con la lungimiranza tipica del grande artista, Jean Renoir
intuisce che quel sentimento che aveva definito in Francia la Grande Guerra come
la der des ders, ‘l’ultima delle
ultime’, fosse stato La grande illusione:
e di conseguenza, lascia intendere forse che, nel 1937, anno di uscita del suo
film intitolato appunto così, il mondo fosse già pronto per un nuovo bagno di
sangue. Basterebbe solo questo fatto, solo questa capacità di cogliere il
momento tragico su scala mondiale dell’autore francese meglio di tanti politici
o storici, per valutare come indispensabile la visione di La grande illusione. Ma in fondo questo non è che un altro di
quegli effetti collaterali del
cinema, che quando è fatto da grandi autori, non solo riflette la realtà, ma è
in grado di anticiparne gli eventi. Comunque, anche da un punto di vista
strettamente tecnico, La grande illusione
è un film notevole; non ha punti deboli, è valido come contenuti, di cui si è
già accennato, ma non vanno sottovalutati gli aspetti cinematografici e
l’attenzione alla platea. Per inquadrare l’opera, attraverso le tradizionali
etichette che abitualmente le definiscono, diciamo che può essere considerata
un film di guerra. In realtà, del conflitto in oggetto, ovvero la Grande Guerra , si
vede poco: ci sono un paio di colpi di pistola, e poco più. Niente
bombardamenti, battaglie, assalti: tutta la storia è ambientata nei campi di
prigionia tedeschi dove vengono rinchiusi i protagonisti, tutti soldati
francesi.
Il gruppo che finisce sotto l’obiettivo di Renoir è composto
dal capitano Boëldieu (Pierre Fresnay), il tenente Maréchal (Jean Gabin), il
tenente Rosenthal (Marcel Dalio), Cartier (Julien Carette), l’insegnante (Jan Deasté) e l’ingegnere (Gaston Modot), tra i quali si
istaura un forte sentimento solidale, alimentato dalla comune prigionia. La
cosa sorprendente del film è che un rapporto simile si crea anche nei confronti
di alcuni tra i soldati tedeschi che li tengono prigionieri: il sergente Arthur
(Werner Florian) è salutato quasi con affetto, quando i reclusi vengono
trasferiti da un campo di prigionia all’altro. Il tema dello spostamento tra i
luoghi di detenzione percorre tutta la durata del film, e narrativamente serve
a vanificare i ripetuti tentativi di fuga del manipolo di soldati francesi.
Ogni qualvolta questi sono pronti alla fuga, in un caso avevano pure scavato un
lunghissimo e tribolatissimo tunnel sotterraneo, arriva l’ordine di
trasferimento.
L’idea che passa è quanto sia inutile tentare di fuggire,
vuoi per l’impossibilità di farlo, vuoi perché, come fanno notare gli stessi
soldati in un dialogo del film, nel caso di riuscita della fuga ad attenderli
ci sarebbe lo stesso destino che li ha condotti in prigionia; ovvero la guerra.
E proprio l’inutilità della guerra è un tema modernissimo e
molto sentito da Jean Renoir, che parla (e dirige) con cognizione di causa: è
stato soldato, ed è stato gravemente ferito ad una gamba, rimanendo claudicante
per sempre. Renoir è quindi voce autorevole nel merito, non solo come cineasta
o artista, ma anche come individuo coinvolto direttamente nel conflitto
bellico: e nonostante egli potesse vantare questo curriculum, La grande illusione non si gioca sulla
traccia dell’eroismo controvoglia di altri testi pacifisti, o sull’etica del
sacrificio. Renoir nega questa concessione eroica anche alle vittime, a chi la
guerra la subisce, e non solo, come vedremo, a coloro hanno ancora l'ideale
nobile e cavalleresco della morte in battaglia.
Non c’è nessuna gloria a morire in guerra, non ci sono eroi,
solo soldati che vogliono tornare alle proprie faccende domestiche, alla
propria vita borghese. E’ un rifiuto totale alla guerra, questo La grande illusione, che non solo non
mette in scena il conflitto, ma nemmeno il nemico:
i tedeschi non sono visti in ottica negativa, del sergente Arthur si è detto,
ma il quadro generale è simile.
Quando Maréchal e Rosenthal riescono finalmente a scappare, si
rifugiano nella piccola fattoria di Elsa (Dita Parlo), una contadina tedesca, e
vivono per un po’ con lei e la figlioletta, come due normalissimi civili. Tra
Maréchal e la donna nasce anche una normalissima storia d’amore, mentre
Rosenthal si rimette dalla ferita rimediata durante la fuga. Non sembrano
esserci differenze tra Elsa e una contadina francese, così come non ci sono tra
soldati delle opposte fazioni; ma Rosehntal presto guarisce e i due francesi
devono purtroppo tornare al proprio dovere,
prima di finire di nuovo catturati dalle pattuglie tedesche.
Se non ci sono differenze tra il popolo francese e quello
tedesco, la diversità che mette in rilievo Renoir è quella di classe: nella Grande Guerra ci sono
ancora ufficiali che intendono il conflitto bellico come il luogo per
eccellenza dove mostrare coraggio, audacia, sprezzo del pericolo, e dove morire
sul campo di battaglia sia la massima gloria possibile. A questa categoria
appartiene il capitano Boëldieu ma più ancora il Capitano von Rauffenstein (un
leggendario Erich von Stroheim), ufficiale tedesco quanto mai rammaricato di essere finito
a gestire un campo di prigionia e di non essere ‘morto con onore’. Renoir vorrebbe forse negare anche a costoro,
soprattutto a costoro verrebbe da dire, la gloria della bella morte: ma ai due ufficiali regala invece una sorta di premio
di consolazione, in segno di rispetto alla lealtà ai propri principi dei due aristocratici.
L’ufficiale francese compie l’unico atto di eroismo del
film, attirando su di sé l’attenzione delle guardie e permettendo la fuga di Maréchal
e Rosenthal: un atto di eroismo pagato con la vita, e quindi sicuramente degno
di rispetto. Un rispetto venato da una certa ironia, perché ad uccidere Boëldieu
è la pistola di von Rauffenstein, che così compie l’unico gesto bellico del
film ammazzando lo stimatissimo nemico. L’ufficiale tedesco assisterà poi in
letto di morte quello francese, invidiandone la sorte: Renoir mette in scena
tutti questi elementi, ma non cade mai nella derisione o in una ironia troppo
grassa: c’è del rispetto per questi cavalieri ormai fuori tempo, sebbene i loro
codici di comportamento appaiano un poco assurdi a fronte, per fare un esempio,
del pragmatismo che Jean Gabin porta naturalmente in dote al suo personaggio.
Il finale conferma i temi dell’opera, e quando Maréchal e Rosenthal
vengono scoperti dagli inseguitori, in lontananza ma ben visibili sul campo
innevato, potrebbero essere facilmente colpiti dai fucili tedeschi. Che invece
rinunciano, riconoscendo i bersagli oltre il confine svizzero, e quindi
neutrale.
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