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domenica 27 luglio 2025

COME UN URAGANO

1704_COME UN URAGANO , Italia 1971. Regia di Silverio Blasi

Era passato quasi un anno dalla puntata conclusiva di Un certo Harry Brent [1970, Leonardo Cortese] ed era quindi tempo per la RAI di portare sui suoi schermi una nuova storia di Francis Durbridge, il celebre giallista inglese. Per la verità, l’idea di scomodare Durbridge appare quasi al limite del pretestuoso perché gli autori italiani, per questo nuovo adattamento, stravolsero e non poco il testo originale. Si è già visto come le esigenze televisive italiane avessero indotto pesanti modifiche ai precedenti lavori dello scrittore inglese ma, forse, Come un uragano stabilisce un nuovo record in tal senso. Bat out of Hell [qualcosa che l’autore stesso spiegò essere una sorta di metafora tipo un pipistrello che esce di corsa dall’inferno], lo script originale, verteva su un’unica traccia gialla di matrice, diciamo così, domestica. Il cui plot si potrebbe riassumere con queste parole: due amanti uccidono il marito della donna ma il cadavere dell’uomo sparisce e qualcuno comincia a ricattarli. Stavolta, Biagio Proietti, chiamato ancora una volta ad adattare la traduzione di Franca Cancogni, non si limitò, quindi, ad inserire nuovi dialoghi per dare maggiore spessore ai personaggi, ma si inventò addirittura una trama su un altro piano narrativo per dare maggior corpo allo sceneggiato. Proietti, che aveva appena dato prova della sua abilità di narratore con Coralba, di cui era autore del soggetto originale, riuscì ad imbastire un intrigo sulla malavita organizzata che gestiva le scommesse clandestine sulle corse dei cavalli a livello nazionale che si inseriva coerentemente con la poetica di Durbridge. Ma, almeno stando all’articolo di Guido Guidi pubblicato come presentazione allo sceneggiato sul TV Radiocorriere n.26 del 1971, Proietti non si limitò a questo ma preparò addirittura ben cinque finali differenti, che furono poi effettivamente girati dal regista, Silverio Blasi. Questa strategia, che teneva in buona sostanza all’oscuro tutti quanti del finale scelto poi nel montaggio – pare sia il regista che gli attori  e perfino lo sceneggiatore– serviva per evitare qualunque possibile fuga di notizie. In pratica la trama studiata da Durbridge era dapprima ampliata ed adeguata alle esigenze italiane, con maggior lunghezza e attenzione al lato umano dei personaggi e l’aggiunta di una traccia investigativa da sovrapporre a quella originale. E, per completare l’operazione di adeguamento al pubblico italiano, per la soluzione dell’intrigo giallo furono scritte cinque soluzioni diverse con colpevoli e coinvolgimenti differenti. In questo modo, qualsiasi indiscrezione fosse trapelata durante le riprese non avrebbe avuto la certezza di essere inerente al finale che venisse scelto, non si sa nemmeno bene da chi, per la definitiva messa in onda. Sulla veridicità di queste informazioni, diffuse direttamente dagli autori, è lecito sollevare qualche dubbio; girare costava denaro e, se fare qualche scena in più poteva essere anche un costo preventivabile, cinque finali sembrano effettivamente un’esagerazione. Tuttavia questa è la versione che venne presentata sulla stampa, per quanto potrebbe essere una strategia pubblicitaria. Al netto di quelle che sembrano solo semplici curiosità di un prodotto televisivo che al tempo ebbe un grandissimo successo, la loro plausibilità, perlomeno da un punto di vista narrativo, induce almeno un paio di riflessioni. 

Innanzitutto è evidente che l’intreccio giallo dovesse avere caratteristiche molto precise perché, oltre ad appassionare, doveva essere aperto fino all’ultimo a soluzioni differenti. Difficile stabilire se, tecnicamente, sia un virtuosismo narrativo, una trama che lascia tante strade percorribili senza incappare in incongruenze clamorose, oppure si tratti solo di mera capacità di assemblare passaggi narrativi plausibili. E, da queste considerazioni ne deriva un’altra nemmeno troppo lusinghiera per lo sceneggiato in questione: è evidente che lo spettatore sia di fronte ad un semplice gioco enigmistico, trovare il colpevole, senza aver avuto in mano gli elementi per la soluzione, dal momento che sono possibili molteplici finali. Il che è un bel limite, per un giallo: in pratica è un giallo privato della sua essenza più pura, la sfida tra l’autore e il fruitore, che è la quintessenza del suo essere, almeno per quel che riguarda questo «genere» narrativo, dalla letteratura fino al cinema. Sembra quasi che la televisione, già in quei tempi che vengono giustamente ricordati come una fase aurea di questo specifico media se li paragoniamo al crollo verticale che arriverà nei successivi anni Ottanta, rivelasse già la sua natura superficiale. Il giallo era un «genere» importante e utile, per l’individuo di una moderna società, perché permetteva a chiunque di confrontarsi con il Male. In Italia, paese che aveva storicamente una scarsa cultura in questo tipo di narrativa, si aveva sempre la tendenza a prendere le distanze dal colpevole, abitualmente definito sbrigativamente con l’etichetta di «mostro». Nei racconti gialli, al contrario, spesso si arrivava ad identificarsi addirittura con il colpevole, provando le stesse emozioni, almeno per quel che permetteva un racconto letterario o filmico, e questo significava prendere una coscienza maggiore del proprio «lato oscuro». È forse in quest’ottica che va valutata e apprezzata la scelta della televisione di Stato nel diffondere, con il suo avvento, la narrativa gialla, dando spazio sempre più crescente alle storie criminose. L’Italia, partita storicamente con un significativo ritardo in questo ambito, aveva poi subito un reset totale dal regime fascista che aveva prima limitato la letteratura gialla, mettendola infine addirittura al bando nel 1941. Non prima di aver inculcato nella popolazione l’idea che i temi legati alle attività criminose fossero estranei alla natura latina degli italiani. Testimonianza memorabile di ciò è la stupefacente dichiarazione programmatica messa in bocca ad un personaggio della serie televisiva pionieristica Aprite Polizia! [Aprite Polizia! Le inchieste del commissario Alzani, Daniele D’Anza, 1958]. Il commissario Alzani (Renato De Carmine), presenta il sesto e ultimo episodio della serie con queste scioccanti parole: “la delinquenza non latina è sempre più crudele, più cinica”. 

Siamo nel 1958, il Fascismo e le sue leggi sono ormai un ricordo, non troppo lontano per la verità, e Daniele D’Anza, seppur giovane, è un regista che lascia già intuire il proprio talento: eppure le parole del suo protagonista lasciano sgomenti. Tuttavia, ai tempi di Come un uragano, di acqua ne era passata sotto i ponti da quell’incauto passaggio televisivo, e l’Italia aveva imparato a rapportarsi con profitto con il genere giallo e i suoi derivati tanto che al cinema il thriller all’italiana era universalmente conosciuto e apprezzato in tutto il mondo. E, non a caso, definito fuori dall’Italia con il termine «Giallo», sotto il cui nome all’estero si possono trovare i film dei vari Dario Argento, Lucio Fulci, Mario Bava, Umberto Lenzi e tutti gli altri maestri che han dato lustro al nostro cinema «di genere». Se possiamo trovare un limite, comune alla maggior parte dei film di questa pagina comunque memorabile della nostra cinematografia, questo è un po’ la volontaria rinuncia alla logica narrativa, in origine basilare per quel che riguarda i generi giallo e poliziesco, in favore della visionarietà delle immagini e del loro impatto scioccante sullo spettatore. Se questi ultimi aspetti sono certamente pregevoli, può esserlo assai meno quanto era stato messo sull’altro piatto della bilancia. La mancanza di coerenza narrativa, di razionalità dei racconti, rischiava di ridurne l’effetto a mero spettacolo senza un tornaconto in termini di crescita per lo spettatore. Vedere Profondo rosso, in sostanza, poteva gratificare la voglia, la necessità o il piacere di provare paura, di spaventarsi, per lo spettatore, ma il suo impatto astratto e svincolato dal razionale non consentiva allo stesso spettatore di confrontarsi con il Male, e perciò di conoscerlo meglio e, in definitiva, conoscersi meglio. La RAI aveva sempre avuto un approccio generale a questi temi assai più cauto, in ossequio alla morale costituita e alla religione cristiana, largamente diffusa nel paese e molto influente. Ma l’utilizzo ai limiti dello strumentale della prosa di Francis Durbridge, con i suoi dilettevoli intrecci gialli sventrati e ricostruiti alla bisogna dagli autori italiani, con l’unico scopo di nascondere agli occhi curiosi degli spettatori il nome del colpevole, non sembra poi così un’operazione diversa. In questo senso Come un uragano –che arriva giusto dopo Coralba, versione «Made in Italy» dei gialli «à la Durbridge»– sembra rappresentare il punto di non ritorno.

È un bello sceneggiato, Come un uragano, intendiamoci. Ben scritto, ben diretto e con interpreti di prim’ordine. A cominciare da Alberto Lupo, che è il convincente ispettore di Scotland Yard John Clay in trasferta in quel di Alunbury, paese di periferia dove è inviato per indagare sui traffici illeciti del gioco d’azzardo che gravano attorno al nuovo e grande ippodromo locale. Per il pur volenteroso ispettore Booth (Manlio Guardabassi), un boss malavitoso del calibro di Albert Roach (Renato De Carmine) è un osso troppo duro e, siccome la piaga delle scommesse clandestine affligge l’intera nazione, ecco che da Londra mandano Clay ad affiancarlo. Questa traccia, quella delle beghe malavitose inventata da Proietti, sembra in un primo momento rimanere sullo sfondo, perché irrompe subito, in avvio, un delitto di matrice sentimentale. Il che sembra curioso, perché, in effetti, si è detto degli sforzi per nascondere l’identità del colpevole, mentre sostanzialmente lo sceneggiato comincia con il facoltoso immobiliarista Geoffrey Stewart (Sergio Rossi), che viene ucciso dal suo amministratore Mark Paxton (Corrado Pani). Se Paxton è certamente un assassino, e lo vediamo immediatamente, la trama si complicherà alquanto, lasciando da scoprire un intrigo assai più complesso di un semplice omicidio legato a motivi sentimentali. Almeno di facciata, infatti, Paxton uccide Steward in accordo con la moglie di questi, Diana (Delia Boccardo, bellissima), che è naturalmente la sua amante. Nel corso del racconto, facendosi via via più complicata la situazione, qualche dubbio sulle reali intenzioni di Paxton può sorgere; ovvero che, forse, oltre che sull’affascinante Diana, l’uomo avesse messo gli occhi sul patrimonio del suo datore di lavoro. A completare il quadro mancano giusto quelli che, in sostanza, saranno i sospettati, personaggi che possono essere colpevoli, almeno fino al colpo di scena conclusivo, tenendo conto della trama aperta a molteplici soluzioni finali. Glenda Cooper (Adriana Asti), è una piacente antiquaria, effettivamente implicata in affari loschi; peggio di lei è però suo marito Paul (Cesare Barbetti), uno scrittore fallito e mantenuto dalla moglie, acido e tagliente con le parole e molto sospetto; Bill Grant (Renzo Montagnari), facoltoso rivenditore di auto di lusso, è un uomo affabile e dichiaratamente innamoratissimo di Diana e, proprio per questo, da tenere d’occhio; c’è poi una seconda Diana, ovvero la bella señorita Velasco (Gabriella Grimaldi, pseudonimo della sorella di Daria Boccardo), amante di Geffrey Stewart e comunque coinvolta nell’intrigo. Secondo gli autori italiani, il colpevole potrebbe essere uno di questi, scegliendo a caso. Quasi che il delinquere ma soprattutto l’omicidio, siano eventi occasionali, che possano occorrere a chiunque o quasi. Una struttura narrativa di questo tipo, aperta fino all’ultimo a qualsiasi soluzione, deve giocoforza smussare le motivazioni di quello che sarà poi il colpevole, perché tali motivazioni non devono trapelare anzitempo. Certo, gli anni 70, dove cominciava forse a profilarsi l’idea che il mondo era davvero come l’aveva efficacemente descritto il geniale Fritz Lang nei suoi film, dove il conflitto buoni vs cattivi era solo un convenzione di quello del nostro mondo reale tra cattivi e più cattivi. Ma Lang, a cui Proietti aveva peraltro dedicato la figura del commissario dal volto umano in Coralba, aveva una carica umana enorme che permeava ogni suo personaggio. Durbridge, per quanto raccontava di ispirarsi alla gente che incontrava ogni giorno, per creare i suoi personaggi, aveva una cifra autoriale meno importante –il che rispetto a Fritz Lang non è mai un limite, ad onor del vero– oltre avere come prosaico scopo primario quello di intrattenere il pubblico televisivo. I suoi racconti gialli, avvincenti e ben congeniati, erano poi ulteriormente modificati ma non certo per esigenze autoriali, bensì per adeguarli al palinsesto e al gusto italiano. Oltretutto, il pregevole tentativo di rendere più umani i personaggi si andava a scontrare, in un certo senso, con la necessità di mantenere la possibilità che ci potessero potenzialmente essere tanti colpevoli diversi, ognuno con ragioni plausibili. Un po’ come in una vera indagine, questo è senz’altro vero. Ma, da un punto di vista della finzione narrativa, il risultato fu un’atrofizzazione sotto il profilo morale dei personaggi, considerando la necessità che dovessero essere tutti quanti sospettabili e che solo le circostanze, a quel punto, dovevano rendere i soggetti colpevoli o innocenti. Da un punto di vista sociale la narrativa gialla, che trattava argomenti criminali e assai delicati, aveva sempre svolto un’importante funzione, grazie alla catarsi. Argomenti pericolosi e, nel miglior caso, come minimo latenti nell’animo umano, trovavano soddisfazione e soprattutto sfogo grazie a questo tipo di narrativa. Ma era importante, per fare ciò con un risultato utile in tal senso, una guida morale, non necessariamente bigotta o severa, ma che fosse comunque uno strumento per canalizzare queste sensazioni. Per capirci: se prendiamo la violenza, ingrediente primario dell’attività criminale, come elemento di riferimento, potremmo dire che i film o i racconti sulla violenza sono utili, per comprenderla e meglio gestirne gli impulsi a cui naturalmente è soggetto l’individuo. O anche solo per sfogarla, tramite la partecipazione emotiva, ma sempre con un supporto morale che la connoti come elemento negativo in sé. Diversamente libri o film violenti o inneggianti alla violenza sono da condannare e possono perfino essere dannosi per l’individuo, spronandolo ad utilizzarla nella vita con il processo di emulazione. Se con alcuni esempi dei thriller all’italiana probabilmente questo rischio si corse, onestamente, difficile ipotizzarne le caratteristiche sullo sceneggiato Come un uragano. Eppure, qualcosa manca. Se ci rifacciamo ad uno dei migliori esempi di assassini della storia del cinema, e per farlo ricorriamo ancora al maestro Fritz Lang, ovvero a Peter Lorre nei panni di M – Il mostro di Dusseldorf e lo paragoniamo agli omicidi, potenziali e non, dello sceneggiato di Silverio Blasi cosa possiamo notare? Che il terribile e feroce assassino di bambine che infestava la città tedesca è, per assurdo, più umano, nella spettacolare confessione durante il processo a cui lo sottopongono i banditi della città. Non si giustifica, per questo, il suo orrendo crimine, ma se ne comprende la natura profondamente umana della sua origine, deviata e malata, certo, ma umana. Viceversa, i personaggi di Come in uragano, uccidono quasi esclusivamente per denaro, come alla fine capisce anche la povera Diana, quando vede Paxton cercare di tagliare la corda. Il suo amante, infatti, ha scoperto che Geoffrey, poco tempo prima del suo assassinio, aveva cambiato le regole del testamento a favore dell’altra Diana, la sua amante spagnola, rendendo cioè vano l’atto criminale. E che la Diana spagnola, che conosceva il losco Paul Cooper, sapesse di beneficiare del testamento o non o sapesse, sono solo dubbi che servono a sorreggere il mistero tipico dei gialli di Durbridge. Che potesse essere un personaggio in sé stesso credibile, davvero credibile come assassino o come innocente non era un elemento inerente. Qui si uccideva per gioco, sostanzialmente, un gioco senza regole chiare, da non fare più «con gli spettatori», ma «a danno degli spettatori», alle loro spalle. Un utilizzo del media televisivo che diventerà sempre più consueto e comune, ma che nella finzione gialla, a causa della delicatezza degli argomenti trattati, lascia davvero stupefatti.  
Sarà un caso ma anni dopo, le cronache cominceranno a raccontare di casi con motivazioni simili, ma non dalla fiction televisiva, ma dalla cronaca nera. 


Delia Boccardo 



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