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sabato 30 aprile 2022

PSYCO

1010_PSYCO (Psycho). Stati Uniti, 1960;  Regia di Alfred Hitchcock.

A proposito de Il passato che urla (fino al 1965 titolo italiano del romanzo Psycho di Robert Bloch), Alfred Hitchcock ebbe a dire che l’unico elemento interessante del racconto era il modo improvviso e imprevedibile in cui si concretizzava il famoso omicidio sotto la doccia. Come spesso gli accadeva nei confronti di altri autori, il genio inglese fu, in effetti, un po’ avaro di complimenti (ma Francois Truffaut, nel famoso libro intervista Il cinema secondo Hitchcock, Pratiche Editrice, è anche più severo). Tuttavia è innegabile che la scena della doccia è sconvolgente, sia per la sua natura violenta, sia per il modo brusco e improvviso in cui si materializza. E, curiosamente, la sua valenza nel libro (e nel film) è una metafora dello stesso lungometraggio all’interno della carriera di Hitchcock. In pratica vale l’equazione: la scena della doccia sta al film Psyco come il film stesso sta alla filmografica del maestro inglese. Hitchcock aveva frequentato, sin dagli esordi, il cinema del brivido e della suspense, di cui era ed è il riconosciuto maestro; elementi che spesso sfociavano, inevitabilmente, in situazioni dove la violenza diveniva esplicita. Inoltre, aveva messo spesso al centro delle sue storie protagoniste femminili: eppure molto raramente queste avevano poi subito attacchi particolarmente efferati. La terrificante scena in cui viene pugnalata Janet Leigh nel ruolo di Marion Crane è quindi doppiamente sorprendente. Ma non per questo lo è in modo del tutto estemporaneo. Il cinema di Hitchcock – per quanto, all’apice della carriera, preparasse meticolosamente il suo lavoro preventivamente, lasciando ben poco margine all’improvvisazione sul set al momento della ripresa – non era solo il frutto della sua strenua e consapevole pianificazione. 

Il suo lavoro certosino e maniacale dava la forma finale, plasmava la materia, ma gli ingredienti provenivano dalla vita, dalla personalità e, in particolare, dai turbamenti di Hitchcock. La carica aggressiva che il Norman Bates (Anthony Perkins) di Psyco scarica sulla povera Marion nella citata scena della doccia aveva probabilmente una radice profonda nell’animo del regista. La personalità di Hitchcock era complessa e lo si sapeva da tempo ma questo non lo limitava nella sua arte, semmai il contrario. Tuttavia, quando sul finire degli anni Cinquanta, il regista cominciò a mietere un successo dietro l’altro, le sue opere si fecero, almeno formalmente, più rassicuranti: La finestra sul cortile (1954), Caccia al ladro (1955), La congiura degli innocenti (1955), L’uomo che sapeva troppo (1956), Intrigo internazionale (1959), solo per citare alcuni tra i capolavori del mago del brivido che sono anche film per famiglie. 

Già La donna che visse due volte (1958) era decisamente più inquietante e, soprattutto, la figura femminile della storia era trattata con una venerazione differente e più perversamente maniacale rispetto a quella che Hitch aveva riservato ai tempi a Ingrid Bergman (Notorious - L’amante perduta, 1946) e in più di un’occasione a Grace Kelly. Proprio la Kelly, probabilmente, era stata l’origine di un cambio di umore di Hitchcock che poi si era riversato progressivamente nella sua arte. Non si tratta, beninteso, di fare della psicoanalisi un tanto al chilo all’autore quanto di capire la natura della forza brutale che permea Psyco di cui, se non si comprende come si alimentò, ben difficilmente se ne capirà l’entità. Dicevamo di Grace Kelly che, notoriamente, una volta divenuta Principessa di Monaco abbandonerà il cinema; una cosa, per Hitchcock, ben difficile da capire. Ora che era divenuto una autentica star di Hollywood, e quindi il suo genio almeno in parte riconosciuto, per il regista inglese era forse addirittura impossibile comprendere come la sua bionda ideale potesse decidere di lasciarlo semplicemente per andare a vivere in una favola che era il sogno di ogni ragazza del pianeta. Per Hitch, inconcepibile; e durissimo da accettare. I successivi problemi con Vera Miles, di cui aveva intuito le potenzialità – che lo lasciò a piedi rimanendo incinta – inasprirono la situazione. Per comprendere come funziona il cinema di Hitchcock, si può osservare come probabilmente La donna che visse due volte si giovò di questa situazione, con l’autore che avendo previsto il ruolo di Kim Novak per la Miles non riuscì mai ad andare realmente oltre a questo. 

Ma fu proprio questa una delle fortune artistiche del film. Queste tribolazioni con le attrici stavano però per essere superate, perché Hitchcock aveva in serbo un colpo che non gli avrebbe fatto rimpiangere più nemmeno la Kelly. Per il suo annunciato capolavoro, No Bail for the Judge, era stata infatti ingaggiata nientemeno che la castissima Audrey Hepburn: questa volta una freddissima mora avrebbe preso il posto delle celebri fredde bionde hitchockiane. Il maestro inglese procedeva a cannone nella preparazione del suo film e quando ricevette il dietro-front dell’attrice britannica, indisponibile a girare l’inserimento di una scena di stupro, fu un autentico choc. La figura pubblica che la Hepburn si era costruita, consolidata dal ruolo della suora nell’ultima sua interpretazione, era – secondo l’attrice – inconciliabile con le scabrose scene previste dal maestro inglese. 

Il film era già bell’e pronto, un lavoro che era già costato oltre 200.000 dollari; mancava solo di girarlo ma con Hitchcock questa era la parte meno problematica. Stando alla preziosa ricostruzione di Donald Spoto nel suo fondamentale Il lato oscuro del genio (Lindau, 1999) al danno si aggiunsero numerose beffe in quanto la Hepburn e il suo La storia di una monaca intralciarono a più riprese il successo de Intrigo internazionale, il film di Hitchcock a quel tempo nelle sale. Con il suo trionfo di pubblico, il film di Zinnemann rimase a lungo in cartellone ritardando l’uscita dell’opera hitchcockiana, oltre a metterselo dietro nel concorso cinematografico di San Sebastiano e a Taormina, in uno dei pochi premi raccolti da Intrigo internazionale (David di Donatello a Cary Grant), veniva inesorabilmente premiata anche l’onnipresente Audrey Hepburn. Una prima reazione artistica con cui Hitchcock metabolizzò, o cercò di farlo, questa situazione frustrante fu Arthur, primo episodio della quinta serie televisiva Alfred Hitchcock presenta: la donna vittima del telefilm viene smembrata e con i pezzi l’assassino ci sfama i suoi polli; una crudeltà davvero inusuale per l’autore inglese. E, volendo vedere, anticipatoria: il nome Arthur ha qualche assonanza con Alfred e l’idea dei volatili sarà cruciale in Psyco e nel successivo Gli uccelli (1963). Arthur, il film televisivo, sembra quindi quasi il manifesto programmatico del cinema di Hitchcock per quei primissimi anni Sessanta. 

E questo primo affrancamento al piccolo schermo non sembra nemmeno casuale, considerato che Hitchcock covava del risentimento anche per il mondo del cinema, ribadito a più riprese, ad esempio, nel fatto di non aver mai ricevuto un Oscar – quello per Rebecca - La prima moglie, era stato dato al produttore, puntualizzava sempre. O anche nella difficoltà e finanche nel ritardo con cui la critica specializzata riconosceva il valore delle sue opere. Per il suo successivo lungometraggio, quello da girare in luogo di No Bail for the JudgeHitch, si sarebbe così affidato ad una troupe televisiva: quasi una sorta di ripicca nei confronti dell’ingrato mondo del cinema. In realtà in questo modo poté anche contenere i costi, tema a cui l’inglese era da sempre molto sensibile: Psyco costò poco più di 800.000 dollari e ne incassò oltre 32 milioni, risultando il maggior successo commerciale del maestro. 

Il suo schierarsi col fronte televisivo è particolarmente esplicito: si comincia col fotogramma della Paramount completamente attraversato da una serie di righe orizzontali, quasi si tratti di una ricezione televisiva disturbata. Poi, cominciano i titoli di testa di Saul Bass che insistono sul tema delle linee orizzontali, quelle che in definitiva formano l’immagine televisiva, ma anche verticali, in un contrasto visivo che sarà costante anche nel lungometraggio vero e proprio (ad esempio nella struttura piatta del Bates Motel e della incombente casa adiacente). Il rimando alle immagini televisive composte da una serie di linee orizzontali perdura ancora nella prima sequenza, quando Marion Crane (come detto Janet Leigh, splendida) ha il suo incontro clandestino col fidanzato Sam (John Gavin), con i personaggi ripresi più volte sullo sfondo composto dalle tende veneziane delle finestre. 

Insomma, Hitchcock sembra davvero volerci convincere che siamo in uno dei suoi film per la televisione, del resto il bianco e nero al cinema su grande schermo è ormai quasi del tutto scomparso mentre in televisione resisterà ancora a lungo. Psyco si presenta subito, quindi, come una sorta di rivalsa: e quello che il maestro vuole dimostrare ad Hollywood e soprattutto alla critica è quanto siano in errore nel prediligere il soggetto e il cosiddetto messaggio a discapito della vera arte cinematografica. Il cinema, vuole dirci Hitchcock, è essenzialmente il montaggio, la musica, gli effetti visivi; poi, certo anche recitazione e storia hanno la loro importanza ma il successo di Psyco è legato essenzialmente ai suoi aspetti tecnici. E, con la sua solita beffarda ironia, lo fa in un film che sembra un telefilm, quando è risaputo che in televisione le componenti tecniche peculiari del cinema, uso personale e virtuosismi degli strumenti di ripresa, sono assai limitati. 

Ma Psyco è anche un giallo, oltre che un evidente horror, e allora Hitch gioca costantemente con lo spettatore, disseminando il film di veri e falsi indizi. Ad esempio, il tema degli uccelli è lasciato molto in secondo piano rispetto a quello enfatizzato del pacco coi soldi che Marion sottrae in ufficio. E’ fin troppo chiaro che i 40.000 dollari non sono altro che un McGuffin, il classico pretesto hitchckiano, perché la regia vi insiste in modo eccessivo. Quando vediamo invece gli inquietanti uccelli impagliati nella saletta del Bates Motel, non cogliamo subito il campanello d’allarme che veicolano. Norman ha già dimostrato, nel suo dialogo con Marion, più di qualche difficoltà a relazionarsi con l’altro sesso, ma la nostra attenzione è concentrata sui dubbi della ragazza, che si sta rendendo conto di aver fatto un errore a cui porre rimedio. Eppure la scena dovrebbe farci venire in mente quella in apertura, dove la giovane si incontrava in un motel con il suo fidanzato Sam. Tutto sommato Sam e Norman sono abbastanza simili e, riassumendo, tutte e due le scene vedono quindi Marion in un motel con un uomo alto e moro. Con Sam la ragazza ha fatto sesso ma con Norman non sembra una eventualità, tra le altre cose anche per via della personalità dell’uomo. Evidenziata simbolicamente dal fatto che l’uomo impaglia uccelli; ogni riferimento sessuale è ovviamente intenzionale – da parte di Hitchcock, sia chiaro. 

Insomma, Norman ha l’hobby di imbalsamare uccelli: se si trova a tu per tu con una ragazza che si chiama Gru (Crane, in inglese) e che viene da Phoenix (Fenice, l’uccello mitologico) – ricordando che siamo in un film di Hitchcock – le conseguenze si possono prevedere. Oltretutto, sebbene l’idea che la star della pellicola fosse fatta fuori intorno a metà film era uno degli elementi per l’effetto sorpresa, la dipartita di Marion è allo stesso tempo pianificata strutturalmente dalla storia. Se Janet era infatti la star femminile, e quindi in un Hitchcock di primaria importanza, l’interprete che ha il ruolo centrale del film è indiscutibilmente Perkins. Ora, se è strano che la Leigh stia sullo schermo soltanto per i primi 50 minuti, è comunque un minimo inusuale che l’attore principale entri in scena unicamente alla mezz’ora. Psyco è un film giocato sul tema del doppio, prevalentemente per via delle personalità che albergano nell’animo di Norman, la sua e quella della madre, e che si spartiscono anche la figura corporea, per la verità. Questi aspetti vengono rivelati solo nel finale ma Hitch, che è un giocatore corretto, fornisce una serie di elementi che dovrebbero aiutarci a risolvere i misteri degli omicidi del Bates Motel in anticipo. Intanto il film in bianco e nero esplicita il tema del doppio in modo lampante così come la composizione dei giochi delle linee orizzontali e verticali o quello della casa (verticale, dominante) con il motel (orizzontale, sottomesso), ma anche l’utilizzo dei protagonisti del film ricalca questo schema. E il numero degli specchi, simboli evidenti del doppio, che pullulano il film è quasi incalcolabile. 

In ogni caso, Vivian Leigh tiene la scena all’inizio poi, dopo l’incontro con Anthony Perkins, lascia completamente la ribalta all’attore. Del resto i nomi dei personaggi, Marion e Norman, sembrano quasi speculari, come se i loro ruoli si specchiassero nel tragico incontro. Peraltro questo tipo di elementi percorrono il lungometraggio su molteplici piste e Psyco è un film che non finirebbe mai di poter essere analizzato in qualche passaggio interessante e stimolante. Ad esempio la citata struttura del Bates Motel è anche una sorta di schema della psicanalisi freudiana: la casa, verticale e al livello superiore, è il super-io, abitato dalla madre. L’io è il motel vero e proprio, dove sta prevalentemente Norman, in una posizione subalterna ma comunque presentabile. 

Lo stagno, dove finiscono i cadaveri, è l’es, che di Norman nasconde l’anima più nera – nera come l’acqua che sommerge le auto. La spiegazione che viene data nel finale, sembra voler insinuare Hitchcock, è inutile, visto che la questione psicanalitica è illustrata in modo quanto mai chiaro a livello cinematografico. Però quello che rimane, di Psyco, è qualcosa che va al di là dell’incredibile (per una volta questo termine abusato si può usare in modo legittimo) e stratificata costruzione dell’opera, ed è un passaggio veloce, spesso forse trascurato. Il film è un horror che al tempo dovette essere particolarmente traumatizzante e comunque non è certo, in senso assoluto, un testo rasserenante. Basti vedere lo sguardo di Norman, o meglio di sua madre, con cui si chiude il film. Ma si sa che ad Hitchcock piace scherzare e poi si è detto quanto fosse incarognito in quel periodo. 

In realtà il regista lascia un lieto fine, per il suo film, soltanto che, da buon giallista, lo nasconde. Il finale positivo non è, infatti, nella conclusione del film ma poco prima dell’uscita di scena della vera protagonista, Janet Leigh. Perché Perkins, per quanto sia la figura più importante nel racconto, è un villain; mentre a Vera Miles (Lila Crane) viene riservato, volutamente, un ruolo insignificante tanto e più degli altri personaggi del racconto. La Marion interpretata da Janet Leigh condensa in 50 minuti uno sviluppo della personalità notevole: inizia con una azione illecita e clandestina – frequenta un uomo sposato – manifesta la volontà di ravvedere la sua condotta salvo poi lasciarsi tentare dall’occasione dei 40.000 dollari. Ma quando incontra la sua nemesi (Marion/Norman), mentre l’uomo si perde di fronte alla prova della vita, lei si redime definitivamente. La discussione con Norman le permette di fare chiarezza: riporterà di soldi a Phoenix. Anche da una situazione negativa si può trovare la strada per la salvezza. Poco conta se poi Hitch, inviperito per i suoi problemi, decida di massacrarla sotto la doccia più famosa di Hollywood. Che un incontro con Norman Bates possa essere salvifico per l’anima di Marion Crane è quello che va messo, in definitiva, a referto come elemento più significativo di Psyco. Perché – come dimostrato del resto dal fatto che lo stesso Hitchcock che ci ricavava il suo miglior film – è solo confrontandoci con il nostro lato oscuro, che possiamo salvarci davvero.   







Janet Leigh      










Vera Miles 





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giovedì 28 aprile 2022

UNA 44 MAGNUM PER L'ISPETTORE CALLAGHAN

1009_UNA 44 MAGNUM PER L'ISPETTORE CALLAGHAN (Magnum Force). Stati Uniti, 1973;  Regia di Ted Post.

Nella saga dedicata a Dirty Harry, Una 44 Magnum per l’ispettore Callaghan è il secondo film, ma pare sia il preferito da Clint Eastwood, l’attore che interpreta il poliziotto protagonista. E questo è un fatto curioso, per almeno due motivi. Il primo è che il film di Ted Post è certamente meno riuscito del capostipite, Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo!, di Don Siegel, e il secondo è perché in Una 44 Magnum per l’ispettore Callaghan sembra che ci sia la preoccupazione di smussare la fama di duro di Dirty Harry. E Eastwood, che a tutti quanti ha sempre dato l’idea di sguazzarci in questo ruolo sopra le righe e risoluto del suo personaggio, nel film di Post, alla fine, risulta meno reazionario del suo superiore, il tenente Briggs (Hal Holbrook). Questo Briggs, addirittura, assolda una squadra di giustizieri tra i cadetti della stradale (tra cui troviamo David Soul), che si prendono la briga di fare un bel ripulisti nella città di San Francisco, eliminando in modo semplice e diretto i peggiori criminali. In pratica quello che ci si aspetterebbe da Dirty Harry, che però non solo non approva i metodi dei giustizieri, ma addirittura si mette a combatterli. Probabilmente il successo di Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! aveva fatto temere ai produttori e autori hollywoodiani di avere pericolosamente alimentato una deriva giustizialista tra il pubblico, e questo secondo episodio voleva rimettere il buon Callaghan almeno all’interno di ragionevoli criteri. Duro si, ma non un ammazzacristiani senza criterio né morale. 

E, in effetti, è credibile che perfino il buon Clint possa essere d’accordo su questo punto. Più che la regia, piuttosto ordinaria e professionale, opera appunto di Ted Post, saltano agli occhi i nomi degli sceneggiatori: nientemeno che Michael Cimino e John Milius, quest’ultimo autore anche del soggetto. Peccato che poi sia proprio il loro lavoro a lasciare maggiormente perplessi: del resto lo stesso Milius ritiene questo film uno dei suoi meno favoriti. Tra i passaggi che non convincono, alcuni si potevano facilmente evitare: ad esempio, sorprende che i giustizieri, che compivano le loro azioni in incognito, utilizzino le stesse armi con cui prestano servizio. E’ evidente che al primo sospetto, sarebbero stati facilmente scoperti, visto la semplicità con cui si poteva confrontare le armi. 

Inoltre, nel finale, la bomba artigianale che è posta nella cassetta delle lettere di Callaghan e che ha un innesco istantaneo (all’apertura della cassetta stessa) si scopre avere un timer, quando Harry la lascia sull’auto di Briggs. Come tutti i passaggi poco convincenti, non è tanto il dettaglio in sé (ad esempio la bomba potrebbe avere due inneschi diversi, sebbene essendo chiaramente di fattura artigianale non si capisce il perché dovrebbe), ma il fatto che lo spettatore si ponga il problema significa che la storia lo ha già perso. E questo non è mai un bene per chi la storia l’ha scritta e, volendo ben vedere, nemmeno per chi la sta raccontando (in modo filmato). In ogni caso, nel suo complesso si tratta di un film divertente, soprattutto per le scene di azione, tra cui da ricordare l’inseguimento finale tra una Ford Custom 500 del 1972 e le motociclette della stradale Moto Guzzi V7 Eldorado e Triumph T100. Rimanendo in tema di auto, sontuoso il parco macchine che sfila sulla pellicola: da segnalare la Mercury Marquis Brougham del 1973, la Mercury Monterey del 1973, la Cadillac Fleetwood 75 del 1973, la Cadillac Fleetwood Eldorado del 1971 e naturalmente la Ford LTD Convertible del 1972, l’auto privata di Harry Callaghan.  





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