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venerdì 10 novembre 2017

RISO AMARO

27_RISO AMARO. Italia, 1949;  Regia di Giuseppe de Santis.

Capolavoro in senso assoluto del Cinema, Riso amaro di Giuseppe De Santis, può essere innegabilmente portato come vanto della produzione italiana; considerato uno dei frutti più prestigiosi della corrente cinematografica neorealista, ha però alcuni aspetti che lo rendono un caso abbastanza singolare. Quello più eclatante è anche il più prevedibile, perché parlare di Riso amaro significa parlare di Silvana Mangano, probabilmente al di là delle reali intenzioni di De Santis; che per altro si dice ricercasse una nostrana Rita Hayworth. Perché Riso amaro, era e in fondo è, nelle intenzioni del regista, una severa critica alla cultura americana che influenza in modo pesante il belpaese. Ma il ruolo ritagliato per la giovane attrice, ne ha sancito lo stato di Diva nel movimento cinematografico nazionale al di là di ogni previsione, finendo per mettere un po’ in secondo piano gli intenti impegnati dell’autore. Moltissime sequenze sono focalizzate sulla Mangano, e alcune sono davvero memorabili: su tutte quelle in cui la favolosa Miss Roma 1946 è in piedi in mezzo alla risaia, la maglia attillata, calzoni corti e calze strappate; o quella in cui si aggiusta le stesse calze, prima di mettersi al lavoro; ma anche le scene in cui balla il boogie woogie non saranno facili da dimenticare. Non è tanto o soltanto questione di bellezza: Silvana è una bella ragazza, questo è evidente, ma ciò che fa la differenza è come riesca a bucare lo schermo; inoltre, sembra che in molti passaggi il regista metta completamente la sua arte al servizio dell’attrice, esaltandone il carisma fotogenico.


E la statura futile ma al contempo legata ad un destino tragico, regala a Silvana, il personaggio interpretato dall’attrice che forse non a caso si chiama come lei, un posto di rilievo tra le immagini simbolo del nostro cinema. Dicevamo come forse questa celebrazione della sua attrice protagonista che è Riso amaro, finisca, almeno in parte, per sviare lo sforzo di De Santis: la Mangano è infatti il centro di attrazione del film, con buona pace degli aspetti sociali di stampo neorealista e degli altri contenuti del lungometraggio a cui tocca un ruolo di secondo piano. Chissà se davvero De Santis volesse creare una icona di tale portata o se l’attrice, la semisconosciuta Silvana Mangano, dovesse solo interpretare una ragazza che aspira vanamente a diventare una diva; sia come sia, la finzione ha finito per superare le intenzioni dell’autore e la giovane attrice ha rubato la scena non solo agli altri attori ma anche al film, al regista e perfino al neorealismo.
La pellicola comincia come un noir americano, ma la matrice neorealista prende poi il sopravvento; le scene della miseria in cui sono costrette le mondine, la loro vita nei campi, il taglio quasi documentaristico, sono caratteristiche tipiche di questa corrente. Però De Santis lascia qualche dubbio anche in questi suoi passaggi: gli intenti saranno anche di mostrare la cruda realtà delle donne durante la raccolta del riso, ma forse c’è anche qualche indugio compiaciuto sulle gambe delle ragazze, sui corpi chinati, sulle forme sudate. Niente da ridire, beninteso: il cinema è anche questo.
Nel film ci sono, ed è giusto che vengano citati solo dopo uno spazio abbastanza consistente rispetto alla Mangano, Vittorio Gassman (Walter), Doris Dowling (Francesca) e Raf Vallone (Marco): Walter è un poco di buono che aspira a fare il gangster, Francesca la sua raffinata fidanzata nonché complice e Marco un onesto sergente in congedo.
In una secca metafora potremmo dire che Silvana è l’Italia, Walter rappresenta gli ideali del consumismo, Francesca potrebbe incarnare l’esterofilia (volendo guardare l’attrice è in effetti statunitense) o comunque un qualcosa in antitesi con l’Italia, e Marco interpreta gli ideali della tradizione italiana. Silvana è bellissima, ma futile: potrebbe avere chiunque, Marco compreso, ma invidia Francesca, la sua collana e il suo fidanzato; sogna di fare la bella vita e di arricchirsi, leggendo le riviste come Grand Hotel, ballando il boogie woogie, e mettendosi sempre in mostra.
Ai suoi occhi la porta di accesso per quel mondo è Walter; il quale, sfrutta chiunque gli possa tornare utile, con una filosofia che è esattamente quella con cui funziona il libero mercato. Come l’Italia del dopoguerra è sedotta dal Sogno Americano, così Silvana cede a Walter, in una scena ad alto contenuto drammatico, nella quale, sotto la pioggia scrosciante, prova a giocare con l’uomo brandendo un frustino improvvisato, ma finisce per esserne frustata per davvero, umiliata e… 

Silvana illusa, delusa, violata, truffata (la collana falsa), ormai fatalmente perduta ha però un ultimo sussulto: prima spara a Walter, che finisce la sua vita appeso ad un gancio come il porco che è; poi sale sull’enorme, altissima impalcatura preparata per il concorso di bellezza (ulteriore metafora dell’arrivismo della società americana) e si getta di sotto, suicidandosi. Commovente ed efficace la scena in cui le mondine rendono omaggio al cadavere di Silvana, gettando una manciata a testa del proprio riso (compenso avuto per il lavoro nei campi) fino a coprirne il cadavere. Il timido lieto fine tra Francesca e Marco è poco consolatorio; con quella drammatica uscita di scena Silvana mantiene il centro dell’attenzione anche in quei frangenti. 
Solo un appunto a De Santis: è insperabile che l’Italia, quella vera, possa mostrare una simile statura tragica ma dignitosa di fronte ai propri errori.



Silvana Mangano










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