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sabato 30 giugno 2018

LOVING VINCENT

170_LOVING VINCENT  Regno Unito, Polonia, 2017;  Regia di Dorota Kobiela e Hugh Welchman.

Già soltanto l’idea di Loving Vincent lascia stupefatti. Le opere del pittore che ha cambiato il corso della Storia dell’Arte, di quell’artista che, come giustamente e argutamente notato dal sempre lucido Gianni Canova (massimo critico cinematografico del nostro paese), sulle sue tele faceva cinema prima ancora che il cinema fosse stato inventato, diventano ora esse stesse cinema. Spiazzante e, per una volta verrebbe da usare quell’aggettivo abusato sempre più spesso (e sempre a sproposito), incredibile. Perché il film Loving Vincent è anche un’opera immane, non solo dal punto di vista concettuale, ma la sua realizzazione, il ricreare un film di animazione su tela sulla base dei quadri di Van Gogh, deve essere stata un’impresa improba (65.000 fotogrammi realizzati da 125 artisti). In ogni caso il risultato è molto interessante e, finalmente, un film che racconta la vita o l’arte di un pittore, lascia molto spazio alle sue opere, al suo stile, al suo modo di catturare la luce, ai suoi colori. Questo è sicuramente l’aspetto più interessante del film, ovvero il tentativo di mettere la pittura al centro dell’opera, piuttosto che la vita dell’artista. In effetti, la storia che comunque viene raccontata sembra concentrarsi addirittura più sulla morte di Van Gogh, e anche questo limita, e di molto, gli aspetti biografici del film. Armand Roulin, che deve consegnare una lettera di Vincent al fratello Theo, scopre alcuni elementi poco chiari nella morte del pittore olandese e comincia una personale indagine per capire se davvero si è suicidato o se le cose sono andate diversamente. Ma diventa poi evidente che non è tanto importante come sia morto Van Gogh (e, a questo punto, nemmeno come sia vissuto): quello che importa è la sua opera, la sua pittura.


In ogni caso, se l’intreccio giallo (tra l’altro uno dei colori forti di Van Gogh) sostiene il racconto per la sua durata, il vero scopo del film è più che altro mettere in scena i quadri di Vincent, provare a rendere concreta (grazie alle nuove tecnologie e al lavoro certosino degli autori del film) l’idea cinematografica, la capacità cinetica e la luminosità (ricordando che il cinema è fatto di luce), che erano intrinseche e che permeavano in modo assolutamente innovativo i dipinti del pittore olandese.
Che era naturalmente un assoluto genio; e, almeno questa volta, lo sono stati anche Dorota Kobiela e Hugh Welchman, i registi di questo film.






giovedì 28 giugno 2018

THE MISSING

169_THE MISSING Stati Uniti, 2003;  Regia di Ron Howard.

Ron Howard, regista tipicamente mainstream, si cimenta con il western dopo Cuori ribelli, la precedente incursione nel genere risalente ad una decina di anni prima. The missing è un film strano, nel quale si prova quasi una sensazione di vertigine, alimentata dalla macchina da presa in semicostante movimento e che si concede spesso escursioni aeree. D’altronde la storia ci racconta di una difficoltà da parte dei protagonisti, più o meno tutti, a capire da che parte stare: indiani che si arruolano nell’esercito tradendo la loro gente, e poi disertano tradendo anche la controparte, sceriffi che non inseguono i banditi, soldati che non inseguono i rinnegati, donne e bambine che invece di stare a casa se ne vanno all’inseguimento di una banda di predoni rapitori di ragazze. In effetti, il film si apre in modo spiazzante, con il southwest americano, visto in tanti film western assolato e torrido, coperto da un manto di neve con il bestiame che rischia di morire dal freddo. Al centro della scena Cate Blanchett, una donna di frontiera ancora bella ma indurita a tal punto da essere quasi antipatica, e Tommy Lee Jones, un attore che se fosse nato una quarantina di anni prima sarebbe diventato un habitué del genere western. In ogni caso, vedere Lee Jones interpretare Samuel/ Chaa-duu-ba-its-iidan (che nella lingua apache dovrebbe voler dire qualcosa come cazzo sfortunato), ovvero un bianco rinnegato che ha vissuto con gli Apache abbandonando la famiglia, ma anni dopo abbandona anche gli indiani per tornare dalla figlia Maggie (la Blachett), vale da solo il prezzo del biglietto.

Tornando alla poco chiara situazione generale, se poi ci mettiamo che la suddetta figlia fa la guaritrice, in realtà con metodi rozzi ma scientifici, e che proverà sulla propria pelle l’efficacia della medicina indiana, abbiamo ulteriori conferme dello stato confusionale in cui versa il paese che Howard vuole mostrarci. E’ un film di incomprensioni, di equivoci, di ribaltamento di ruoli. Le ragazze rapite stanno per essere salvate da un indiano, ma si spaventano, vanificando il tentativo e facendo finir male il loro soccorritore. 

Tra Maggie e suo padre, non c’è dialogo né mai c’è stato: la donna, per conoscere meglio il padre, chiede informazioni ad un estraneo, indiano per la precisione. In pratica una donna bianca chiede che uomo fosse il proprio padre ad un Apache, e lo fa in spagnolo, che non è né la sua lingua né quella dell’interlocutore. Alla fine, Maggie troverà la forza di chiedere direttamente al padre il perché dell’abbandono ma, nel momento più commovente, chiuderà la questione con un “tanto non avrai il mio perdono”. Al che, giusto per rimarcare l’estrema difficoltà di dialogo, l’uomo ribatterà “Né io te lo chiedo”.Il film regge, visto che il regista conosce il suo mestiere, e finché sembra una sorta di moderno spaghetti-western in versione de-luxe, assolve il suo compito. Il finale, però, tradisce le ambizioni di Howard, che, purtroppo per lui, non è Michael Mann (tanto per fare un nome) e la chiusura di The Missing appare anni luce distante dalla solennità di L’ultimo dei Mohicani. Ecco, questo è il vero limite dell’opera, che è poi forse anche il limite dell’autore: gli ingredienti validi ci sono tutti, ma quando è il momento di dare la stoccata decisiva, manca la cifra autoriale e, in un genere come il western, quando si cerca di riportare in luce l’epica del cinema classico (o neo-classico) non si può mascherare il bluff. Ma, al netto della sensazione di incompiutezza finale, che peraltro rimarca la scarsa definizione dei ruoli dei protagonisti, il film, sebbene irrisolto, rimane godibile.
E allora il missing del titolo forse non è tanto la ragazza scomparsa, ma la mancanza di un vero cuore alla storia di questo film. Che forse è più acuto di quanto si possa pensare.
Che sia il cuore, che manchi all'America?





Cate Blanchett




martedì 26 giugno 2018

L'ULTIMA RIVA

168_L'ULTIMA RIVA (The river's edge). Stati Uniti, 1957;  Regia di Allan Dwan.

Diretto dal poco conosciuto Allan Dawn (tra i tantissimi suoi film si può ricordare almeno Jiwo Jima, deserto di fuoco con John Wayne), L’ultima riva è certamente un’opera interessante, sebbene fortemente penalizzata da alcuni aspetti formali non adeguati. E dire che il lungometraggio ha molte caratteristiche per essere un autentico film di culto: si tratta di un melò fiammeggiante, incendiato dalla presenza di una Debra Paget (nei panni dell’ambigua Meg) convinta, forse anche oltre le proprie reali possibilità artistiche (più che fisiche), di rendere sullo schermo il ruolo della diva, e mentre Anthony Quinn (Ben) e Ray Milland (Nardo) se la contendono, la storia scivola sul terreno western ma con caratteristiche di quei noir esotici che si svolgevano al di fuori delle classiche ambientazioni metropolitane. La vicenda ha luogo, intorno a quegli stessi anni cinquanta, nel sudovest americano, ai confini con il Messico; qui viene messo in campo il classico triangolo amoroso melodrammatico ma, rispetto alla classica impostazione, si può notare come i tre componenti abbiano tutti ruoli di forte ambiguità. Se Meg, (ovvero la donna del trio, tipicamente l’elemento che, nel noir, conduce alla rovina il personaggio protagonista) già stata redenta una volta da Ben, l’uomo che l’ha sposata, mostra, nel corso della storia, qualche cedimento morale, anche il marito, che interpreta il ruolo dell’onesto uomo di campagna, si rivela sempre un po’ troppo influenzabile dalla possibilità di prendere possesso del denaro sporco della vicenda.

Ancora più interessante la figura di Nardo, criminale incallito che, per amore di Meg (sebbene in precedenza abbia provato anche ad eliminarla) finisce per perdere tutto (compreso la vita) proprio quando era riuscito ad espatriare con il grosso del malloppo. I personaggi sono quindi molto ben caratterizzati proprio nella complessità dei loro comportamenti: i due uomini sono, almeno nei momenti critici, governati dall’amore per la donna, e non sempre si comportano in un modo che appare logico allo spettatore. Ma l’atteggiamento di Ben, troppo arrendevole alle pretese di Nardo, trova poi spiegazione nel tentativo di riconquistare, alla fine di tutto, la moglie; dal canto suo, se Nardo appare molto più cinico, è vero che, nell’incipit, con il bottino già in valigia, torna a riprendersi Meg e, nel finale, pur di vederla sopravvivere (anche nelle braccia dell’altro) mette a rischio la sua fuga. Nemmeno la donna è un elemento totalmente negativo, sebbene non manchino i momenti in cui il suo atteggiamento è opportunistico; ma nel complesso, anche lei come gli altri due membri del triangolo amoroso, compie un significativo percorso evolutivo in senso completamente positivo. Dawn è bravo, e padroneggia bene le riprese ma le ricostruzioni artificiose di troppe scene non convincono, e si fatica ad accettarle anche in una pellicola un po’ sopra le righe come questa e che, nella stilizzazione estetica anche eccessiva, ha uno dei suoi tratti distintivi.


Purtroppo non convincono neanche alcune scene di azione (anche queste, volutamente enfatizzate) e, soprattutto, qualche passaggio superficiale nella sceneggiatura: ad esempio quando Ben arriva all’hotel e parcheggia ma non si vede l’auto di Nardo, che è arrivato poco prima e non se n’è ancora andato. Non è un passaggio secondario, visto che Ben sta cercando di impedire alla moglie di fuggire con l’ex amante e quindi l’attenzione è posta esattamente sui veicoli dei protagonisti e sulla tempistica dei loro movimenti. Può anche essere che un simile errore sia legato alle fasi del montaggio, e non tanto alla sceneggiatura, ma da un film hollywoodiano è comunque un’incongruenza che non si può accettare.

Peccato, perché scenari davvero troppo posticci e superficialità di questo tipo, finiscono per tarpare le ali a quello che avrebbe potuto essere un piccolo gioiellino.
Nel finale, si scopre che il film ha una trama circolare, perché le cartacce che sembrano essere portate dal torrente che è ripreso durante i titoli di testa, in realtà non sono altro che i bigliettoni del bottino di Nardo, che proprio in quel corso d’acqua si perdono alla fine del lungometraggio. Concetto circolare ribadito anche dal ritorno del tesoro (in questo caso in forma di banconote) al fiume, dal quale in tantissimi altri casi (cinematografici e non) è invece stato cavato l’oro; ma anche, in modo ben più esplicito e importante, dal ritorno di Meg  tra le braccia di Ben.

Soltanto Nardo, nel momento in cui decide di andare a cercare soccorso per Meg e Ben, devia non solo dalla possibile ricca e agiata salvezza, ma anche dal suo corso predestinato, perdendo così la vita ma, al contempo, riscattandola davvero all’ultima riva.





Debra Paget











domenica 24 giugno 2018

L'ORA PIU' BUIA

167_L'ORA PIU' BUIA (Darkest hour). Regno Unito, 2017;  Regia di Joe Wright.

Sarà un caso, ma in tempi in cui la Gran Bretagna sta affrontando lo spinoso nodo della brexit, escono due film che ci riportano ad una precedente e storica uscita dal continente europeo, quasi una fuga, per decenni praticamente ignorata dal cinema. Perché se il recentissimo Dunkirk di Christopher Nolan affrontava in modo esplicito l’evacuazione delle truppe inglesi dalla cittadina francese e dal continente, questo episodio noto come Operazione Dynamo è centrale anche in L’ora più buia, di Joe Wright. Fu infatti questo (in)successo strategico (portare in salvo 300.000 soldati volle dire avere una forza militare con cui impostare la difesa dell’isola britannica) che rilanciò la leadership di Winston Churchill, in quel momento storico, in quell’ora tanto buia (L’ora più buia, appunto) quando ormai era rassegnato a cedere alle insistenze dei moderati del suo partito, che lo spronavano a chiedere la mediazione di Mussolini per ottenere la fine delle ostilità con Herr Hitler. Un tema caro agli inglesi di questi tempi, o perlomeno particolarmente sentito, sembra quindi essere l’aggressività della Germania alla quale sottrarsi mediante l’isolamento al di fuori dell’Europa. Perché magari sono semplici coincidenze ma, mentre fioccano le ricorrenze con la Grande Guerra, in Inghilterra ci si concentra su questo strano e particolare episodio dell’altra guerra: in effetti si tratta di una ritirata simile ad una fuga, niente di cui andar particolarmente fieri, dal punto di vista militare; anche se la salvezza degli uomini assediati a Dunkirk fu sicuramente un elemento di grande importanza umana oltre che strategico ai fini della guerra. 

In ogni caso l’approccio generale di Wright è molto diverso da quello di Nolan e, per il suo film dedicato alla figura di Churchill, il regista londinese si concede più di una licenza poetica. Se Dunkirk si presenta in modo ben poco cinematografico e prova a rendere un’idea dell’impatto realistico che la guerra ebbe vivendola in prima persona, L’ora più buia si permette il lusso di sperimentare commistioni di più generi di cinema, per arrivare comunque, probabilmente, ad un’idea credibile, ma in modo assai meno diretto. E’ facile intendere il film di Wright come una biografia sul grande schermo, ma salta all’occhio la scarsa credibilità di alcuni passaggi narrativi, ad esempio la vicenda dell’incontro con i cittadini sulla metropolitana. 

E’ però forse significativo che lo stesso Churchill, nella finzione del film, quando racconta l’episodio, modifichi un po’ l’accaduto; forse sono solo piccole bugie, o forse solo scorciatoie della trama, ma è un fatto che lo stesso primo ministro non sia mai (nemmeno in quell’occasione) troppo sincero. E quindi non ci si deve stupire se, anche il regista, nell’ottica di ottenere il miglior risultato finale, si conceda qualche licenza poetica. Un ulteriore conferma a riguardo della scarsa attendibilità letterale di quanto mostrato, si può dedurre da alcune scelte registiche, come l’utilizzo delle scritte in sovraimpressione. Se nei biopic, o anche nei film storici, le didascalie sono spesso utilizzate come riferimenti attendibili a cui ancorare la vicenda, (e sono per lo più stilisticamente fredde ed impersonali proprio per ribadirne l’oggettività), Wright, per evidenziare lo scorrere dei giorni, utilizza uno stratagemma riconducibile al melodramma (il datario che cambia le cifre ricorda il classicissimo calendario che si sfoglia coi foglietti dei giorni che svolazzano via), che di tutti i generi è, per via dell’enfatizzazione generale delle emozioni e dei sentimenti, tra i meno credibili. In questo quadro si inserisce a pennello anche l’interpretazione di Churchill offerta da uno strepitoso Gary Oldman, meno fisicamente somigliante di quanto poi riesca a rendere credibile e memorabile il leader inglese. Sempre affascinante, nonostante i 58 anni, Kristin Scott Thomas, ma in generale il cast è ben assemblato e le ricostruzioni di scena offrono un gran colpo d’occhio.
Il risultato finale è un film appassionante, interessante, come in genere lo sono i film storici ma, in questo caso, anche divertente.
E anche una conferma che, agli inglesi, in qualunque modo decidano di dirlo, l’idea europea non li ha mai del tutto convinti.



Kristin Scott Thomas



venerdì 22 giugno 2018

JOE KIDD

166_JOE KIDD  Stati Uniti, 1972;  Regia di John Sturges.

Joe Kidd è un film della Malpaso, la casa di produzione di Clint Eastwood, che ne è anche l’attore protagonista, quel Joe Kidd, appunto, a cui è intitolato il lungometraggio. E’ quindi evidente che tutto ruoti intorno alla figura dell’attore, ormai giunto ad essere una autentica icona di Hollywood. Nello specifico del cinema western, si può azzardare che Clint Eastwood rappresenti per il western crepuscolare quello che il mitico John Wayne era per quello cosiddetto classico. Il regista di Joe Kidd è il valido John Sturges, ovvero proprio colui che forse sancì la nascita della fase crepuscolare del genere, con I magnifici sette, ma in questo specifico caso sembra limitarsi ad una direzione onestamente professionale, lasciando campo libero all’istrionico attore. E Eastwood la ribalta se la prende in modo evidente, occupando il centro della scena con fare compiaciuto: del resto si tratta di un attore che ha visto la sua consacrazione con gli spaghetti-western di Sergio Leone, e quindi è naturale, per il suo personaggio,ormai divenuto una sorta di maschera abituale, atteggiarsi un po’ sopra le righe. Cosa che, peraltro, Eastwood fa con innata classe, e che lo rende appunto un’icona del cinema; una di quelle figure immediatamente riconoscibili pur passando da un film all’altro. Il film in questione, Joe Kidd, si inserisce nel filone del western revisionista, una delle correnti più rilevanti del tardo-western, ovvero di quella rilettura cinematografica degli eventi legati alla conquista del west che permetteva, al contempo, agli autori una critica verso la politica imperialista degli Stati Uniti tra gli anni ’60 e ’70. Se era d’abitudine, per questo tipo di pellicole, riconsiderare le ragioni degli indiani condannando l’opera invasiva dei coloni bianchi, in questo caso ci si spinge oltre. 

Perché da sempre, anche ai tempi del cinema western classico, la contrapposizione era tra Natura (rappresentata dai pellerossa) e Cultura (intesa come progresso, ovvero la civiltà dei bianchi): gli indiani avevano la capacità di vivere in armonia con la Natura, di contro i bianchi erano ambasciatori di una civiltà più evoluta, più progredita e che reclamava le risorse naturali per un migliore (nel senso di più redditizio) sfruttamento. Erano due modi diversi di intendere la vita, e quindi difficilmente paragonabili: se gli indiani potevano vantare le ragioni di essere precedentemente stanziati nelle terre contese, era anche evidente che il modo in cui le gestivano lasciava il campo alle obiezioni opportunistiche degli invasori. Tutto questo non c’è in Joe Kidd ma, essendo un western del 1972, gli autori li considerano elementi risaputi. 

E quindi spiazzano completamente lo spettatore, introducendo un’ulteriore variabile: i messicani. Sinola è un piccolo paese al confine tra Messico e Stati Uniti, e i peones messicani erano i vecchi proprietari terrieri; nel film si apprende che gli americani hanno sottratto loro le proprietà con stratagemmi illegali come incendiare i vecchi archivi dove erano tenuti i precedenti certificati di proprietà, che attribuivano appunto la stessa terra ai messicani ivi residenti. Cade quindi anche il primato civile degli yankees, con il quale giustificavano, almeno a se stessi, l’aver usurpato i terreni agli indiani; se i pellerossa non erano usi appropriarsi della terra (e in quel senso si poteva intendere che essi la lasciavano libera), questo non valeva per i messicani di questo lungometraggio che, al contrario, avevano operato con i crismi della cultura burocratica di derivazione europea. 

E, nonostante questo, vengono defraudati ugualmente dagli americani, verso i quali la critica di questo contro-western risulta quindi particolarmente acuta. L’aspetto giuridico della vicenda è rimarcato dalle scene nell’aula del tribunale: locale che, nell’incipit del film, è il centro d’attrazione e nel quale l’intera vicenda si chiude. La storia ha quindi una spiccata impronta politica (non faziosa come altre dello stesso filone, ma comunque ben presente) eppure Eastwood, sebbene mantenga costantemente il centro del ring, non sembra voler farsi particolarmente coinvolgere da questi aspetti sociali, conservando, almeno apparentemente intatta, la sua indole individualista. Ma il finale, nel quale dalla sedia più importante del tribunale uccide a sangue freddo il cattivo di turno, Frank Harlan (Robert Duvall), non lascia dubbi: Eastwood incarna ancora il suo tipico anti-eroe, quel Dirty Harry di Ispettore Callaghan il caso Scorpio è tuo! per intenderci, giudice e boia allo stesso tempo. Ma a non tutte le ciambelle il buco viene centrato e il mezzo sorriso, un po’ fuori luogo, con cui saluta la morte del rivale, certifica che il cortocircuito tra spietato risolutore di problemi e dispensatore di giustizia fatica, in questo caso, a funzionare al meglio. 



mercoledì 20 giugno 2018

QUEI BRAVI RAGAZZI

165_QUEI BRAVI RAGAZZI (Goodfellas). Stati Uniti, 1990;  Regia di Martin Scorsese.

Il titolo italiano Quei bravi ragazzi rende grosso modo il senso di quello originale, Goodfellas, e ripropone quella contraddizione che può essere intesa come la chiave di lettura dell’opera di Martin Scorsese. Perché bravi, i ragazzi del film, proprio non si possono definire; certo, la frase può suonare come quei commenti giustificativi che accompagnano le bravate (appunto), spesso anche gravi, di certi teppisti: “sono bravi ragazzi” capita di sentir dire di chi ha magari infranto clamorosamente la legge. Questa superficialità di amici, parenti e conoscenti dei cosiddetti bravi ragazzi può essere in un certo senso ripescata da Scorsese, che la usa per definire i suoi protagonisti: goodfellas, quindi. Ma che sono tutto tranne che bravi; o buoni, per attenerci alla definizione originale. C’è quindi una contraddizione già nel titolo, ma è una contraddizione consapevole, risaputa, con lo stesso implicito ammiccamento di quei conoscenti di quegli stessi teppisti di cui si diceva prima, che mentre ti dicono che gli eventuali crimini in questione sono solo ragazzate, alludono un po’ al famoso monito chi è senza peccato scagli la prima pietra. Perché i protagonisti del film di Scorsese, arrivando al punto dolente, forse non sono altro che il prodotto della civiltà americana, e non il loro scarto, come verrebbe da pensare. Mannò, essi mettono in pratica, magari con eccessivo (e criminale) zelo, le logiche della libera concorrenza e del libero mercato. La capacità di arrangiarsi, tipica degli italiani, trovò, a suo tempo, terreno fertile negli Stati Uniti, il paese delle mille opportunità, del Sogno Americano. Il problema è che di quella libertà, che è la parola d’ordine degli Stati Uniti, alla fine si è smarrito un po’ il senso, o almeno i confini di esso. 
Infatti, se è vero che il mondo mostratoci da Scorsese in Quei bravi ragazzi  ha le sue regole, esse sono del tutto particolari quando non vanno addirittura al contrario rispetto alla norma: infatti i nostri hanno senso dell’onore, ma solo per la famiglia, vestono come uomini d’affari, ma sono gangster e nei locali, per evitare la coda, entrano da un’uscita (secondaria). Ma il dito della piaga Scorsese lo mette davvero quando mostra come questi goodfellas non rispettino nemmeno le regole proprie della mafia, e ambiguità e tradimento sono all’ordine del giorno. E se aderire ad una cosca mafiosa significa di fatto tradire lo Stato (essendo la Mafia uno stato nello stato), i ragazzi di Scorsese rilanciano il tradimento, violando anche le regole di quest’ultima. Il tema del tradimento è poi sottolineato dal comportamento nella vita privata di Henry Hill (Ray Liotta), che non può certo spacciarsi per marito fedele. L’incapacità di rispettare le regole, siano esse quelle del sistema legittimo o quelle della famiglia, è comune anche agli altri due protagonisti del film. Se Henry è solo un superficiale e accomodante arrivista (criminale, naturalmente), Jimmy Conway (Robert De Niro) è più scaltro, calcolatore, meno superficiale di Henry, ma non per questo migliore, anzi; chiude il terzetto Tommy DeVito (Joe Pesci) sadico psicopatico del tutto svincolato dalla realtà. Tra di loro c’è sicuramente un’intesa, ma generica, confusa, e infatti gli equivoci non mancano, come quello tragico e esplicitamente evidenziato da loro stessi e che porta alla morte di Spider, il ragazzo che gli fa da cameriere.


Ma l’ambiguità di fondo tra i ragazzi è costante, e da essa scaturisce un’altra memorabile scena, quella in cui Henry definisce buffo Tommy, provocandone la finta reazione. Nel corso del lungometraggio, che ha un tempo filmico consistente (almeno 25 anni), i personaggi invecchiano e, curiosamente, quello di Robert De Niro finisce per assomigliare un po’ ad una versione attempata dello stesso Scorsese. Ma forse tutte e tre gli elementi del trio hanno qualcosa del regista: molta dell’ambiguità di Jimmy, un po’ della faccia tosta di Henry, e anche un pizzico della follia di Tommy. E’ forse un caso, ma la sovrapposizione del regista con i suoi ragazzi era già in qualche modo trapelata dai continui tradimenti della regia: il flashback che parte dall’incipit della storia, ci porta poi solo a metà dell’opera, senza un’apparente logica; così come è spiazzante l’uso di due voci narranti e, se è plausibile, a livello narrativo, quella di Henry, si fatica ad inquadrare quella della moglie Karen (Lorraine Bracco). E’ forse che Scorsese infrange le regole narrative del cinema e del genere, e se c’è una citazione a Rapina a mano armata di Stanley Kubrick (nella scena dell’uccisione di Billy Batts, che torna in più riprese), il regista italoamericano si spinge molto più in là quando, nel finale, Henry si svincola dal racconto filmico rivolgendosi direttamente agli spettatori.

Insomma, Quei bravi ragazzi è un film che fa un po’ il punto, (in effetti è una sorta di biografia del vero Henry Hill tratta dal romanzo Il delitto paga bene di Nicholas Pileggi) ma più che sulla vita del gangster si può dire che Scorsese tiri le somme sull’intera America, dal dopoguerra (le scene del 1955) fino agli eighties, il decennio che consacrò il Sogno Americano e ne decretò anche la sua fine. I mafiosi hanno potuto farsi strada negli States, grazie alla loro mancanza di scrupoli che, in fin della fiera, è una neanche troppo forzata interpretazione del mito del selfmade man americano; ma affidarsi soltanto alla propria capacità opportunistica non ci porta lontano. E se il protagonista del film alla fine è contento di rientrare a pieno titolo nell’anonimato di una vita qualunque, (“vivrò tutta la vita come uno stronzo qualsiasi” per citare le parole di Henry quando nel finale guarda direttamente l’obiettivo della macchina da presa) è forse lì che si capisce che, tra i tre goodfellas, il vero ruolo di Scorsese è quello di Tommy che, senza alcun motivo apparente, ci innaffia di piombo: il motivo naturalmente c’è e, come ha insegnato The Great Train Robbery del 1903 (a cui la scena si riferisce), è fare cinema. E come il regista intenda questo, lo si può capire dalla canzone che parte proprio in quel momento: My Way, pezzo famoso nell’interpretazione di Frank Sinatra ma da Scorsese proposta opportunamente nella versione dei Sex Pistols.
Classico, personale e in salsa acida: il Cinema di Martin Scorsese.