39_LA CORAZZATA POTEMKIN (Бронено́сец
«Потёмкин»)
Unione Sovietica 1925; Regia di Sergej Michajlovič
Ėjzenštejn
Una delle tavole
della legge del cinema: questo è La
corazzata Potemkin di Sergei M. Eisenstejn. Salta all’occhio come, nel
lungometraggio, siano scolpiti in modo indelebile alcuni concetti cardine su
cui si basa ancora oggi il cinema: la composizione delle immagini, la capacità
di gestire i movimenti delle masse e, soprattutto, il montaggio, che poi è
forse lo strumento più efficace e peculiare che possiede la settima arte per comunicare in modo il
più diretto, immediato e coinvolgente possibile. La composizione delle
immagini, nota in Russia col termine mizankadr,
è l’elemento primario, cellulare, basilare, nella poetica di Eisenstejn, che
nei fotogrammi del Potemkin, vi si
dedica con cura maniacale, anche grazie all’assistenza del direttore della
fotografia Eduard Tisse. Per il regista russo è fondamentale ricreare già una
sorta di dinamismo fin dall’interno della composizione di un’immagine che, ad
un’occhiata superficiale, risulta viceversa immobile. Queste immagini, già
intrise di potenziale dinamismo, sono poi violentemente messe in contrasto tra
loro, con un uso potente ed efficace del montaggio. Il montaggio nel Potemkin non è affatto naturale, ma piuttosto brusco, brutale,
veloce quando non serratissimo, e tende a scuotere lo spettatore, a farlo
sobbalzare sulla sedia. Il primo piano non è utilizzato per far immedesimare lo spettatore, come nel cinema americano o occidentale, ma è un ulteriore elemento di scossa, di tensione; Eisenstejn sembra trattare spesso con la stessa tecnica sia l’elemento umano che quello inanimato, sebbene scene come quella della carrozzina sulla scalinata di Odessa raggiungano l’apice della tensione proprio per la simbolica umanità di cui la stessa carrozzina è intrisa. La citata scena della scalinata di Odessa ci permette di introdurre un altro magistrale elemento nella poetica di Eisenstejn di cui La corazzata Potemkin è efficace portavoce: l’utilizzo delle masse umane, e il modo in cui il regista le manovra sullo schermo; nello specifico esempio, l’arrivo dei cosacchi dello Zar sulla scalinata è di una brutalità impressionante ma, in generale, le masse sono mostrate come un organismo unitario che si muove con una volontà comune.
E’ facile leggere in questa scelta di sostituire
l’importanza tipicamente occidentale dei primi piani, intesi come
immedesimazione dello spettatore ma al tempo stesso celebrazione del divo e
quindi esaltazione dell’individuo, con l’attenzione posta invece sulle masse,
come un palese manifesto politico. E forse proprio qui si può trovare il vero
punto di forza, la vera natura dell’essere capolavoro cinematografico, del Potemkin: non già nelle innovazioni
tecniche, per altro ancora stupefacenti, ma, attenzione, nemmeno nel credo, nel significato, nel messaggio
politico di cui il lungometraggio è in modo sfacciato portatore.
No, La corazzata
Potemkin è forse importante perché ci mostra in modo chiaro come forma e
contenuto, tecnica cinematografica e messaggio, non siano scindibili. Pur essendo un altissimo esempio, forse il
più alto, di cinema intellettuale,
nel Potemkin non è possibile parlare
di supremazia del messaggio, del significato
del film, sulla sua messa in scena. La messa in scena, la composizione del
lungometraggio, dalla struttura generale divisa in cinque atti, che si rifà
alla tragedia greca, al più fugace fotogramma mostrato da Eisenstejn, tutto
concorda, è gestito, manovrato, al pari delle masse umane o dei cannoni della
Squadra navale, in un’unica direzione.
La forma è contenuto, questo ci dice La corazzata Potemkin: e quando il cinema se lo dimentica, smette
di essere cinema.






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