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domenica 10 dicembre 2017

IL GRIDO

57_IL GRIDO . Italia, 1957;  Regia di Michelangelo Antonioni.

Michelangelo Antonioni torna dove tutto è nato, in quella stessa bassa padana dove Luchino Visconti aveva ambientato Ossessione, il capolavoro capostipite del neorealismo. Si può parlare di una sorta di ritorno, perchè Antonioni è uno degli storici collaboratori della rivista Cinema attorno alla quale si era coagulato il gruppo di appassionati, critici, registi, collaboratori, che avrebbe dato vita al genere cinematografico più significativo della Storia del Cinema italiano. Il cerchio si chiude, sembra quindi dirci Antonioni, e in modo definitivo. Il grido è infatti un film neorealista, ma al contempo è forse il film che supera il neorealismo, e lo mette in archivio come movimento che ha ormai detto quello che c’era da dire. Se la matrice del genere è riconoscibilissima in molti aspetti del film, come l’ambientazione o la rappresentazione della vita della gente comune, questa non sembra però essere sotto la lente focale dell’autore. In fondo il lungometraggio si intitola Il grido, e un grido è quello che rimane alla fine di tutto il film: sebbene per quasi due ore assistiamo al peregrinare di Aldo (Steve Cochran), nel finale tutto si completa, si azzera, e rimane solo il disperato urlo (Il grido, appunto) di Irma (Alida Valli). Se il neorealismo ci raccontava il reale disagio di un paese in miseria, alla fine di un percorso che ci ha lasciato senza arte ne parte, non contadini ma nemmeno urbanizzati, non ci rimane che la disperazione rappresentata dal grido della donna. Il tema del film sembra essere il viaggio: un viaggio senza meta, un viaggio disperato di un uomo disperato; e che alla fine sarà costretto a tornare sui suoi passi per rendersi conto di come non avesse davvero via di uscita alla sua situazione. Alla base della storia c’è già una grana, perché Aldo sta’ con Irma, che però è già spostata ad un altro uomo, emigrato in Australia: frutto dell’illegittima unione tra i due è Rosina, una bambina di sette anni.
La notizia della morte del marito di Irma fa precipitare gli eventi, perché la donna, da quattro mesi, ha un’ulteriore storia con un altro; e non ha intenzione, ora che è tornata libera, di legarsi di nuovo con l’uomo sbagliato. Che detta così, sembra la base per un bel melodramma; ma l’intento di Antonioni è un altro, e della storia, dell’intreccio, gli interessa poco. Del resto, lo fa anche dire da Aldo ad una stranita Andreina (Lyn Shaw) quello che per lui è un episodio da raccontare: l’uomo si era trovato a Ferrara con un gruppo di amici che volevano andare a ballare, ma con Irma decise di andare a vedere un museo; fine della storia. Non è quindi rilevante la traccia narrativa in sé, sembra dirci il regista.
Tornando comunque alla vicenda, Aldo, persa ormai Irma, se ne va dal paese, da quel Goriano che è un non-luogo (il paese in realtà non esiste), quindi partenza (e arrivo) ideale per un non-viaggio. Il primo passo di Aldo è un passo indietro, indietro nel tempo, visto che a Pontelagoscuro si reca per incontrare una vecchia fiamma, Elvia (Betsy Blair), che sembra aspettarlo ancora.
Ma è un passo indietro inteso anche come un ritorno alla realtà, il suo ultimo possibile ritorno in un mondo reale: il mondo fatto di una donna, non bella, non amata, ma con la quale poter imbastire una famiglia, una vita ordinaria, quella vita comune a molti. E in effetti stavolta il paese, se si va a cercarlo sulla cartina dell’Emilia, lo si trova: Pontelagoscuro è reale. Ma può essere questa l’ambizione, ma anche la naturale collocazione, di un uomo come Aldo?  Qui ci può venir in aiuto la scelta degli attori operata da Antonioni: Aldo è interpretato da Steve Cochran, un attore professionista americano, che nella finzione filmica ha vissuto sette anni con una donna come Alida Valli, dalla quale ha avuto una figlia, con la quale ha sognato di fare una famiglia… insomma, le pretese di un italiano non possono e non sono quelle di un contadino di una volta. Ad Aldo non può bastare una vita come quella offerta da Elvia; quello non è più il suo posto.
E quindi la scelta non può essere che ripartire, per un’altra tappa, stavolta fermandosi presso una stazione di servizio, dove una compiacente benzinaia, Virginia, gli offre lavoro e amore. Dorian Gray, l’attrice che interpreta la prosperosa ragazza, tiene fede al ruolo più importante nel suo curriculum, e si comporta da vera malafemmina: in cambio di una relazione basata sul reciproco piacere, Aldo dovrebbe rinunciare a Rosina. La bambina rimane infatti scioccata dopo aver scorto i due adulti ad amoreggiare, e viene rispedita dalla madre. Il rapporto con Virginia, si risolve così con una duplice mancanza: per quanto possa avere avuto soddisfazione sessuale, ad Aldo manca l’amore e adesso manca anche l’ultimo brandello di famiglia che gli era rimasto (Rosina). L’ulteriore passo è ancora più giù, sia nella geografia della bassa che nel degrado umano e morale del protagonista. Su un’isola nel mezzo del Delta, Aldo vive in una baracca stagionale e conosce Andreina (Lynn  Shaw) una prostituta che può dargli solo una provvisoria illusione d’amore. La precarietà della situazione lo spinge a tornare sui suoi passi, perché Aldo si rende conto che non ha alcuna scelta, e il suo percorso è tracciato.
A scandire la strada del ritorno c’è solo la tappa da Virginia, e non quella da Elvia, forse appartenente ad un altro tempo, ad un passato si, ma troppo precedente. Al suo arrivo a Goriano, Aldo trova prima l’autorità che gli sbarra la strada, poi un paesano, che gli dice che non gli chiede il perché sia tornato: due accoglienze che gli fanno capire come non abbia più cittadinanza nel suo vecchio paese. Quando, attraverso una finestra, vede Irma con il bambino avuto dal nuovo compagno, capisce di non avere più alcun posto dove andare. La donna intanto si è accorta, e lo insegue, ma Aldo ritorna sulla torre dello zuccherificio dove aveva fatto il suo ingresso nel film, per buttarsi di sotto di fronte all’atterrito sguardo di Irma. Il cerchio si chiude in modo speculare: all’inizio del film Aldo dall’alto della torre chiamava Irma, e questa non gli dava retta dalla fretta di andarsene; il finale, ripropone la stessa situazione, ma adesso è la donna a chiamare disperatamente l’uomo senza avere risposta.
Questa impietosa condizione dell’uomo sradicato dalla società, dalla propria terra, è resa cinematograficamente da Antonioni in modo magistrale. Nel film il regista rinuncia alle soggettive e all’uso del campo-controcampo, e predilige la ripresa contemporanea dei soggetti, siano essi due o più persone o una persona e il paesaggio. Non abbiamo mai (o quasi mai) l’impressione di vedere con gli occhi di uno dei personaggi del film; nei dialoghi, la macchina da presa riprende i due personaggi all’interno della stessa inquadratura, e se c’è qualcuno che guarda un paesaggio, sullo schermo non si vede il paesaggio in questione, ma l’uomo che guarda il paesaggio. In questo modo manca la possibilità di identificarsi col soggetto; siamo testimoni di quello che accade ad Aldo, il quale oltre ad essere esule nella storia, non ha posto nemmeno nell’identificazione che in genere lo spettatore ha col protagonista di un film. 


 Ci sono delle ragionevoli eccezioni, in questo rigore formale di Antonioni, ma sempre motivate: ad esempio, a sottolineare la drammaticità dell’evento che porterà all’allontanamento di Rosina, c’è una ripresa in campo-controcampo tra la bambina e il padre abbracciato a Virgina, quando la piccola li scopre in un momento di intimità.
Ci sono altri due elementi che contribuiscono ad un effetto desolante complessivo: la mancanza di ritmo narrativo, che lascia nello spettatore una sensazione di abbandono da parte del regista/narratore; e l’accompagnamento musicale, straniante, spesso scollegato con il tenore delle immagini mostrate; fonti di ulteriore spaesamento in una situazione generale già di grande disorientamento.
Insomma, se Ossessione dava una scossa al Cinema italiano, mostrandoci una situazione lontanissima da quella mostrata dai film dei telefoni bianchi, compiacenti il regime e le istituzioni, Antonioni ci svela come gli ammonimenti di Visconti fossero pericolosamente reali. A livello sociale, anche ne Il grido il protagonista è un meccanico (come il Gino Costa di Ossessione) in cerca di lavoro: non fa più un mestiere legato alla terra, il contadino, ma, di contro, è inserito in un contesto ambientale dove ha poche possibilità di trovare impiego in un settore industriale quasi inesistente. In realtà, Aldo, un prezioso posto di lavoro nella fabbrica (lo zuccherificio) ce l’ha, ma vi rinuncia per questioni famigliari. E proprio sotto quest’ultimo aspetto che la situazione appare addirittura peggiorata: se in Ossessione erano evidenziate le difficoltà della famiglia, nel film di Antonioni sotto questo profilo si è perso il controllo.
Tra Irma e il marito australiano si inserisce Aldo; questo triangolo è grosso modo simile a quello del film di Visconti; mentre in quel caso lo sviluppo si completava così, con brevi divagazioni (lo spagnolo e la prostituta), con il regista ferrarese la tresca che da il via alla storia sullo schermo è un semplice giro della spirale, che ha un prima e un dopo, e sembra ripetersi in continuazione. Infatti scopriamo che in precedenza Aldo usciva con Elvia, e tra loro si insinuò Irma, in quel duplice intreccio che prevedeva, sull’altro ramo, gli stessi Aldo e Irma con il marito emigrante nel ruolo di sacrificato; poi tra Aldo e Irma si era inserito un altro uomo; mentre nei successivi Aldo e Virginia e Aldo e Andreina era sempre Irma a completare il triangolo. Nel finale Aldo provava a rientrare in gioco, frapponendosi tra Irma e il nuovo compagno, senza riuscirci, finendo sì fuori da quella spirale, ma sperduto.
Il girovagare inconcludente di Aldo, il ripetersi senza fine delle stesse ambigue situazioni, degli stessi desolanti paesaggi: Il grido risolve il neorealismo non perché ci porti soluzioni alle tematiche sollevate dal movimento di Visconti, De Sica e compagni.
Semmai certificava che, se dopo quasi quindici anni ancora non c’erano, era inutile illudersi.
E, col senno di un poi lungo 60 anni, possiamo dire con piena ragione.    


Alida Valli

Dorian Gray


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