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lunedì 28 febbraio 2022

LA BELLA AVVENTURA

979_LA BELLA AVVENTURA (West of the Pecos); Stati Uniti, 1945; regia di Edward Killy.

Nel 1944, Tim Holt, la star dei western a basso costo, era stato chiamato sotto le armi e la RKO Radio Pictures ingaggiò il semisconosciuto Robert Mitchum per interpretare Nevada, un western di serie B tratto da un racconto di Zane Grey. L’anno successivo si replica con la stessa formula, sempre basandosi su un testo di Grey, nello specifico West of the Pecos. Se il protagonista dei due film è un esordiente nel ruolo, a suo fianco la più classica delle spalle nei B-movie dell’epoca, il romantico e simpatico Chito Rafferty impersonato da Richard Martin. Un personaggio, Chito Jose Gonzales Bustamante Rafferty che, nel corso della carriera, Martin porterà sullo schermo oltre una trentina di volte. Alla regia Edward Killy conosce a sufficienza il mestiere, in virtù dell’enorme esperienza in produzioni di questo tipo, sia come regista che come aiuto regista, anche se La bella avventura non presenta particolari difficoltà. La storia è in effetti semplice, un classico plot narrativo tratto da un racconto d’avventure, che ha perciò uno svolgimento lineare. Il magnate Colonnello Lambeth (Thurston Hall) in quel di Chicago conduce una vita troppo sedentaria, perlomeno per la sua salute. La figlia Rill (Barbara Hale), per rimetterlo un po’ in moto, in accordo con il medico, lo conduce all’ovest, dove i Lambeth possiedono un ranch. Il loro incontro con Pecos Smith (Mitchum) e Chito (Martin), che sono alle prese con una classica questione western di assalti alle diligenze, sarà il combustibile per la bella avventura citata dal titolo italiano. In effetti la vicenda è gradevole, grazie soprattutto allo stratagemma narrativo che vede Pecos scambiare Rill per un ragazzino, essendo la ragazza vestita da cowboy. Una situazione già vista al cinema, ad esempio ne Il diavolo è femmina (1935, regia di George Cukor), ma condotta in questo caso in modo certamente meno raffinato ma più semplice e, forse anche per questo, non meno funzionale. Così, mentre Chito rende merito alla sua focosa fama di dongiovanni latino corteggiando in modo spudorato Suzanne (Rita Corday), la cameriera francese di Rill, Pecos cerca di svezzare quest’ultima credendola un moccioso soltanto un po’ troppo cresciuto. Intendiamoci, niente di che, visto che si tratta di situazioni prevedibili, ma comunque condotte con gradevole ironia e, in ogni caso, più stuzzicanti della anche più scontata traccia avventurosa che vedrà i cattivi finire ovviamente a mal partito. Del resto anche la trama rosa, quando Pecos si accorge che Rill è una ragazza, e non è per niente male, perde mordente, ma i 66 minuti di durata del film sono quasi giunti al termine, per cui non c’è il tempo di annoiarsi. Mitchum è giovane ma già carismatico, e quindi pronto per divenire un’autentica star. Sorprende invece la carriera sottotono che attenderà Barbara Hale, che in questo La bella avventura aveva invece ben coniugato avvenenza e tempi comici in modo promettente per un suo impiego anche nei generi leggeri, commedia in testa. La Hale non avrà molta fortuna nel cinema ma si rifarà nella serie Tv Perry Mason, divenendo una vera celebrità televisiva. A proposito, questa chiusura metalinguistica è in linea con quella del lungometraggio in questione, visto che, alla domanda di Pecos “Beh, e ora che facciamo?”, Rill risponde “facciamo il finale” e il portone del ranch si chiude alle loro spalle come il sipario di un teatro.  







Barbara Hale 


Rita Corday

sabato 26 febbraio 2022

RALPH SPACCA INTERNET

978_RALPH SPACCA INTERNET (Ralph Breaks the Internet); Stati Uniti, 2018; regia di Rich Moore e Phil Johnston.

L’intuizione alla base di Ralph spacca Internet è che il web sia la nuova frontiera, una sorta di giungla o di far west del nostro quotidiano. Quindi, per gli autori come per i loro eroi in cerca di nuovi percorsi avventurosi, rappresenta la meta ideale. Intendiamoci, tutto si basa su un approccio metalinguistico, in quanto la rete internet non è ovviamente un luogo concreto ma unicamente un’infrastruttura virtuale, un intreccio di connessioni che ci porta da un sito (virtuale anch’esso) all’altro. Tuttavia essa stessa finisce per diventare un ambiente, un posto, con regole e pericoli come tutti i luoghi reali. E’ un po’ difficile, da spiegare a parole, per chi ha vissuto l’arrivo di internet, ma si era formato nella situazione precedente; chi è nato dopo, probabilmente, non si pone il problema e accetta la rete per quello che è o meglio per quello che ne percepisce. Ma occorre che anche questa generazione, abituata a interagire con la tecnologia in modo del tutto intuitivo e senza porsi troppi problemi, si renda conto almeno un po’ di cosa sia o possa essere internet, dei rischi ivi contenuti. E chi, meglio della Disney e dei suoi film d’animazione, educativi nel modo più funzionale ed efficace del termine, può riuscire nell’impresa? E, andando in questa direzione, chi meglio di Ralph Spaccatutto, protagonista dell’omonimo film del 2012, può farci da guida? Ralph è un personaggio nato ben dopo la diffusione della rete su larga scala, ed è costituito della stessa pasta del web, è infatti un prodotto in Computer Grafica. Cionondimeno è un videogame e incarna perfettamente lo spirito degli anni Ottanta, ovvero l’epoca di una delle ultime generazioni cresciute e sviluppate in era pre-internet. 

Ecco dunque le motivazioni alla base di Ralph spacca Internet, eccellente sequel del film del 2012, con Rich Moore in regia affiancato stavolta dal suo fido collaboratore Phil Johnston. Il precedente film rappresentava il filone più avventuroso della casa di Burbank, sebbene l’incursione della principessa Vanellope era stata decisiva ai fini della riuscita del film, sia da un punto di vista narrativo che in un senso più profondo. Infatti, ed erano le stesse parole del gigante protagonista a esprimere il concetto, Ralph poteva finalmente accettare di recitare la parte del cattivo, nel suo videogioco, sapendo che l’amicizia di una ragazzina come Vanellope era una sorta di garanzia sulla sua bontà d’animo. 

Il forte legame creatosi nel primo film tra Ralph e Vanellope, scevro ovviamente da qualsiasi riferimento sessuale come in Disney sono bravissimi a descrivere, era però anche un limite reciproco. Una situazione che ricorda un po’ quella generata dall’avvento di internet, qui tirato in ballo attraverso l’introduzione del Wi-Fi nella sala giochi del signor Litwak: i videogiochi nei cabinati Arcade degli anni Ottanta creavano una serie di universi paralleli e indipendenti, quelli che venivano valicati in Ralph Spaccatutto, mentre la rete metteva tutto quanto in un unico contenitore. Questa sensazione di universalità che ci avvolge, ingloba, che ci induce alla continua condivisione, ha però un suo lato oscuro, ovvero che si rischi di divenire dipendenti dall’approvazione altrui, che si abbia il costante bisogno di averne prova tangibile. In internet sono i like, i mi piace, i cuoricini, nel film l’appiccicosa e oppressiva amicizia con cui Ralph assilla Vanellope. Ecco quindi che i due personaggi devono imparare a stare lontani e, semmai, utilizzare le facoltà della rete per restare in contatto. Tutto questo è tradotto in un film che, se vogliamo, è perfino riuscito più del capostipite, visto che internet permette agli autori di sbizzarrirsi con un numero di riferimenti superiore e di natura differente rispetto al mondo dei videogames esplorato in Ralph Spaccatutto


Inoltre se il primo film sembrava un consapevolmente vano tentativo di fare a meno del tema delle principesse (con Vanellope che entrava in scena in ritardo) qui si ammette che ormai non esistono più due filoni nei film di animazione, quello d’avventura (maschile) e quello romantico (femminile, dominato dalle principesse, appunto). La principessa è l’eroe (o eroina, se si tiene alla forma) tipico di questi tempi sia dei film d’azione che di quelli romantici e, in effetti, Vanellope surclassa, in fatto di personalità, Ralph. Ma la cosa non deve essere intesa come denigratoria, nei confronti del gigante, visto che a referto il nostro mette la sua considerevole evoluzione compiuta proprio in questo secondo episodio della sua storia cinematografica. Accettare la libertà e l’indipendenza dell’altro, specie se di genere femminile, non è cosa da poco, anche e soprattutto in questi tempi. 

Certo, per forzare la mano al discorso forse si esagera un po’, e l’avvenenza di Shank, l’insuperabile pilotessa protagonista di Slaughter Race, disegnata sulle sembianze di Gal Gadot (la recente Wonder Woman del cinema) e doppiata dalla stessa attrice, è un altro evidente rimando (anche superfluo, probabilmente). Perché la strategia Disney è evidente già a partire dal carisma degli ultimi protagonisti dei classici d’animazione, (Elsa di Frozen in testa, ma anche Encanto, Raya e l’ultimo drago, Oceania e Zootropolis hanno protagonisti femminili) e, in ogni caso, il tema che il ruolo di principessa in semplice attesa del Principe Azzurro andasse ormai stretto alla figura femminile aveva in questo ambito origine ancora più antica (seppure più che mai d’attualità, si veda lo splendido personaggio di Isabela Madrigal nel recentissimo Encanto). La questione è ormai evidente tanto che, proseguendo la propria matrice metalinguistica, il film Ralph spacca Internet ci scherza su: il cameo delle principesse è uno dei momenti topici del racconto, per ironia e autoironia, con il buffetto scherzoso rifilato alla Merida di Ribelle-The Brave che, nel 2013, aveva soffiato l’Oscar come miglior film d’animazione proprio a Ralph spaccatutto. Tuttavia è evidente i ruoli si siano invertiti, con l’omone grande e grosso Ralph salvato dalle principesse e poi vestito a festa come la capostipite Biancaneve in una scena che, come per magia, riesce comica e avvincente allo stesso tempo. Magia Disney, per la precisione.   






Vanellope von Schweetz


Shank


Sisi

giovedì 24 febbraio 2022

RALPH SPACCATUTTO

977_RALPH SPACCATUTTO (Wreck-It Ralph); Stati Uniti, 2012; regia di Rich Moore.

Da un’idea tutto sommato originale, che prende più d’uno spunto dai videogames delle sale giochi in voga dagli anni Ottanta e per qualche decennio, gli autori Disney, regista Rich Moore in testa, con Ralph Spaccatutto realizzano un film davvero sorprendente. Tra le tante trovate spassose una delle più efficaci è il ritrovo tra i Cattivi Anonimi ospitato all’interno del celebre videogame Pac Man, dove Ralph, che è il cattivo del gioco fittizio Felix Aggiustatutto, accetta infine di recarsi. La possibilità di inserire vecchi personaggi dei videogiochi non è tanto importante perché fornisce agli autori una costante arma per solleticare la memoria dei genitori di quei giovanissimi ai quali è, presumibilmente, rivolto questo nuovo classico d’animazione Disney. Questo aspetto, questo utilizzo strumentale di elementi già facenti parte dell’immaginario collettivo (alcuni insospettabili, come l’esplosiva miscela tra diet cola e mentos), è solo un altro elemento, insieme alla natura della storia raccontata e alla sua stessa struttura, che testimonia di come anche in casa Disney il cinema sia ormai allo stadio metalinguistico. C’è, quindi, una consapevolezza condivisa tra autori e spettatori, che lo spettacolo, per quanto strabiliante (Ralph Spaccatutto ha avuto anche una versione 3D), sia un pretesto per raccontare altro (la vita di tutti i giorni), e quindi abbia una forte funzione educativa, come lecito attendersi da un film per ragazzi. E le ripetute strizzate d’occhi dirette ad un pubblico sensibilmente più maturo del target a cui è rivolto in prima istanza il film, non fa che confermare quest’impressione. La pallina onnivora di Pac Man dirà ben poco ai giovanissimi, mentre è immediatamente riconoscibile a chi ha vissuto gli Ottanta (intesi come decennio). 

Da parte sua, poi, il tema del film, conferma questa impostazione di presa di coscienza del media e dei suoi personaggi, che è un po’ la cifra dei testi metalinguistici. Qui c’è, infatti, la volontà del protagonista della storia, ma non solo la sua, di uscire dal proprio ruolo prestabilito: Ralph è il cattivo del suo gioco ma è stufo di ripetere senza sosta il suo refrain. Allo stesso modo, si può vedere come Vanellope le provi tutte per divenire pilota da corsa in Sugar Rush, scrollandosi di dosso l’etichetta di glitch (ovvero errore di programmazione). Alla fine Ralph riuscirà ad assurgere al ruolo di eroe della storia, mentre Vanellope oltre a diventare pilota, si scoprirà addirittura principessa regnante nel suo gioco, incarico di potere che le aveva sottratto il vero cattivo del film, il meschino Turbo/Re Candito che, per altro, è un personaggio tutto sommato secondario. E’ curioso che, in un film che provi a ribaltare la figura del presunto cattivo (Ralph), al buono non spetti poi in dote un ruolo così negativo: Felix, il rivale positivo di Ralph, pur se recalcitrante, nel corso del racconto finisce in un modo o nell’altro per accettare le rivendicazioni di questi e, forse a sorta di premio, riesce addirittura ad accasarsi con la dinamitica sergente Calhoun. 

Insomma, proprio come in un videogame che offra tante possibilità di sviluppo, in Ralph Spaccatutto i tipici elementi narrativi dei film d’animazione ci sono tutti ma gli esiti non sono necessariamente quelli prestabiliti: c’è un eroe buono, c’è il cattivo, c’è la principessa, c’è una storia d’amore e via di questo passo ma, come detto, gli abbinamenti escono dai soliti binari. Anzi, a dirla tutta, il film utilizza il modo di scomporre e ricomporre le opzioni narrative tipico dei videogiochi ma comprendendo come anche questi percorsi siano essi stessi un limite, li supera, con l’interazione tra personaggi che appartengono a universi di gioco diversi. In questo senso si inserisce, da un punto di vista di narrativa cinematografica, l’introduzione quasi forzata in questo tipo di film (classici d’animazione del versante più avventuroso rispetto a quelli romantici), del tema della Principessa, vero piatto forte di casa Disney. Vanellope entra in scena in ritardo, non ha la classica avvenenza delle solite principesse, e non ha nemmeno lo straccio di una pista sentimentale sul suo tracciato: eppure è una Principessa Disney a tutti gli effetti. E nemmeno delle meno importanti, visto la tenacia che dimostra. E allora che dire, proprio lo Studio cinematografico che più di ogni altro è stato tacciato di offrire modelli di riferimento conformisti, ci dice a chiare lettere che non dobbiamo lasciarci ingabbiare dalle regole che qualcuno cerca di imporci e nemmeno il nostro aspetto deve esserci da limite. E che questo salti fuori da una storia sui videogames, che dell’avere una serie di percorsi prestabiliti in partenza avevano la loro essenza, è un tipico esempio della magia Disney.    



 Vanellope von Schweetz



Tamora Jean Calhoun

martedì 22 febbraio 2022

IL TRADITORE DI FORTE ALAMO

976_IL TRADITORE DI FORTE ALAMO (The Man from The Alamo); Stati Uniti, 1953; regia di Budd Boetticher.

Il regista Budd Boetticher continua la sua personale ascesa all’interno del genere western e, dopo il precedente ed interessante Seminole, si prende la briga di affrontare un caposaldo nella storia degli Stati Uniti: Alamo. In realtà, la vicenda della caduta del baluardo texano Forte Alamo in mano messicana, con la morte di alcuni celebri personaggi, (Davy Crockett, James Bowie), viene scansata sia da Boetticher che dal protagonista della pellicola, John Stroud, interpretato dal formidabile Glenn Ford. Proprio l’aver evitato la morte eroica, fuggendo da Alamo per tempo, fa guadagnare a Stroud il titolo di traditore di forte Alamo, quando in realtà egli era un volontario, e se aveva lasciato il forte lo aveva fatto dopo un sorteggio che doveva designare colui che si sarebbe occupato delle indifese famiglie dei coloni della zona. Ma l’arrivo di Stroud non sarà per tempo, le fattorie finiscono bruciate e i coloni uccisi; oltretutto, tra i caduti figurano anche moglie e figlio dello stesso Stroud. Gli autori della carneficina sono gli uomini della banda di Jess Wade, una cricca composta da texani che sperano, così facendo visto il contemporaneo arrivo dei messicani, di appropriarsi di quei territori sottratti ai legittimi occupanti in modo sanguinario. Ovviamente agli occhi dei più, il comportamento di Stroud appare vile e quando viene riconosciuto per le vie del paese, la folla decide di linciarlo senza troppi complimenti. L’incombere delle truppe del generale messicano Santa Anna fa precipitare le cose, mettendo in fuga l’intera cittadina; Stroud viene liberato dagli uomini di Wade, insieme ad un membro della banda richiuso nella stessa cella, e così scampa alla forca. 

Da lì in poi riuscirà a vendicare la morte dei propri cari, riscattare il proprio onore agli occhi dei compatrioti, tra cui spicca la notevole Beth (una splendida Julie Adams), e salvare anche il convoglio dei profughi texani. Un ottimo film, coinvolgente e ricco di pathos per le accuse ingiustamente accollate al protagonista, diretto con mano classica da Boetticher che si conferma regista di indiscusso affidamento. Benissimo, come al solito, Glenn Ford, perfetto nel ruolo di eroe ingiustamente etichettato come vigliacco, ma anche interiormente combattuto per aver lasciato i compagni a morire ad Alamo. Il film si presenta come un classico western, per via dell’ambientazione nei magnifici scenari, con la musica adeguata e gli attori azzeccati: oltre al valente Glenn Ford e alla splendida Julie Adams, ci sono Chill Wills, perfetto nel ruolo di leader del paese, autorevole ma anche poco sveglio; Hugh O’Brien, tenente tutto d’un pezzo, ottuso, ma comunque leale; Victory Jory, un credibilissimo e infido Jess Wade. Si presenta come un classico western ma non lo è pienamente, come già intuibile dal soggetto, che evita la pista eroica della battaglia di Alamo per concentrarsi sui travagli individuali del protagonista. Insomma, non solo al cospetto del genere cinematografico classico per eccellenza, ma anche a quello di Sua Maestà la Storia, Budd Boetticher segue, come sempre, la sua strada.    






Julie Adams




domenica 20 febbraio 2022

SEMINOLE

975_SEMINOLE ; Stati Uniti, 1953; regia di Budd Boetticher.

Nel 1953 il regista Budd Boetticher non aveva ancora quarant’anni e aveva diretto solo una manciata di film: Seminole risente, soprattutto sul profilo del ritmo narrativo, di questa limitata esperienza dell’autore. Tuttavia questo per certi versi insolito western di Boetticher, se non si può dire propriamente un capolavoro, presenta alcuni spunti di grandissimo interesse. A partire dal cast: le star sono Rock Hudson e Anthony Quinn ma da segnalare ci sono anche il valido Lee Marvin, un’onesta Barbara Hale e il poderoso Hugh o’Brian. Tuttavia il titolo di merito principale della pellicola è sicuramente costituito dalla tribù di pellerossa protagonista della vicenda, ovvero i Seminole, nativi americani stanziati nelle paludi della Florida dai costumi molto vivaci e particolari. In effetti parlare di western, a proposito dei Seminole appare curioso, visto che le loro paludi erano situate nella penisola posta a sud est della grande nazione americana. Certo, qui si tratta di generi cinematografici e quindi la geografia centra relativamente; Seminole è chiaramente un western ma l’ambientazione è differente da quella tipica dei film sul far west. E proprio l’attenzione alla veridicità dei particolari, superiore alla media delle normali produzioni hollywoodiane, non solo è encomiabile di per sé, ma costituisce, anche grazie alle caratteristiche degli indiani al centro della scena, un validissimo motivo di interesse per l’opera in questione. E, tra l’altro, questo discorso vale anche per altri dettagli, ad esempio le curiose divise dei dragoni americani che combatterono le guerre con gli irriducibili Seminole. E soprattutto anche la storia narrata, seppur molto romanzata, ha un profumo di veridicità, nel senso che gli Stati Uniti furono davvero spietati nei confronti della tribù del grande capo Oscetola. Nei panni di questo mitico condottiero Seminole c’è Anthony Quinn mentre Rock Hudson interpreta il tenente Lance Cladwell, l’americano buono, che serve più che altro a mettere in risalto la generale condotta scorretta dell’esercito americano. Il finale ha un colpo di scena tanto improvviso quanto improbabile, ma la sua scarsa credibilità è più un pregio che un difetto: Boetticher non ha la pretesa di fare film storici e evidenzia in modo inequivocabile quelli che sono unicamente escamotage cinematografici. Una volta raccontato della più fiera delle tribù indiane, dandone il giusto risalto sullo schermo con fedeltà inconsueta, si può rientrare nei canoni del genere: la zampata di Boetticher è già impressa sulla pellicola.









Barbara Hale