29_BLADE RUNNER. Stati Uniti, 1982; Regia di Ridley Scott.
Fedele al noto proverbio 'non c’è due senza tre', dopo
l’interessante I duellanti e il
capolavoro Alien, Ridley Scott ci
propone un altro sublime saggio di bravura, Blade
Runner. La poetica dell’autore inglese trova forse in questo ultimo
lungometraggio la sua quintessenza: Blade
Runner è un mirabile risultato ottenuto andando nella direzione opposta a
quella apparentemente manifestata. Si tratta, come Alien, di una storia di fantascienza, e quindi vede la sua ambientazione
nel futuro; ma a differenza del precedente film, l’impressione generale è molto
più retrò, vintage, e non si ha l’idea di un’umanità in espansione esplorativa,
ma piuttosto di un mondo decadente su se stesso. Non ci sono scenografie tecnologiche
nello spazio aperto e deserto, ma un pianeta confuso, intasato, plumbeo,
bagnato da una pioggia insistente. I personaggi sembrano presi da un noir degli
anni ’40, uno di quelli con l’investigatore privato modello Humprey Bogart, a
cui il cacciatore di androidi Rick Deckard può essere assimilato; e in effetti
Harrison Ford, protagonista di questo film, ha anche efficacemente qualche espressione in meno rispetto alle
già non troppo numerose di Bogie.
Geograficamente il film è ambientato in una Los Angeles del 2019 di grandissimo
impatto scenico: sembra un gigantesco incubo, ma non perché incuta terrore, ma per
via di una visione di forte fascino ipnotico, come se stessimo guardando
qualcosa di troppo famigliare, quando, in effetti, non dovrebbe esserlo
affatto.
Un mondo che, dietro le abbaglianti luci al neon e alle enormi immagini luminose, scopriamo essere sporco, inquinato, triste, anche buio; eppure al contempo vagamente
malinconico, con una vena onirica, cullata dall’efficace colonna sonora di
Vangelis, che ci conduce nella storia senza eccessivi strappi, come fossimo
dentro un sogno. La voce fuori campo in questo senso è rassicurante: al cinema,
in genere, sapere che c’è qualcuno che ci sta raccontando, implica un senso di
continuità che prosegue oltre la fine del film, e quindi suggerisce la concreta
speranza di un lieto fine. In ogni caso Scott posiziona le sue pedine sulla
scacchiera, con calma, badando a lasciare al centro della scena solo lo stretto
indispensabile.
La generale confusione della metropoli, ad esempio, è creata giusto per mettere in risalto i pochi protagonisti, gli unici che rimangono effettivamente in modo efficace sia sulla scena che nella memoria dello spettatore. In questo senso la capacità visiva del regista inglese è del
massimo livello: nessuno come lui riesce a confezionare immagini tanto potenti,
coinvolgenti, affascinanti, quanto vuote,
ma in maniera voluta e, a suo modo, significativa.
Il tema dello spostamento del significato è la matrice comune alla storia; il mettere in scena un mondo confuso per isolare i protagonisti, o ambientare la storia nel futuro per mostrarci un mondo troppo famigliare, vale l’idea dell’indagine sui replicanti per riflettere piuttosto sulla natura umana. Il racconto narra infatti della caccia da parte di Deckard ad un gruppo di androidi Nexus 6 (Roy Batty/Rutger Hauer, Pris/Daryl Hannah, Leon/Brion Jones e Zhora/Joanna Cassidy) tornati sulla terra per reclamare, presso i propri progettisti, un percorso vitale più lungo. Il che non sarà possibile, almeno stando alle parole del Dr.
Tyrell, che dei replicanti è il creatore;
affermazione che pagherà caramente proprio per mano del leader degli androidi,
Roy Batty.
L’aspetto interessante di tutta la storia è che pone gli
androidi su un piano prettamente umano, ma
di un umanità quotidiana, e non
straordinaria: essi non perdono il controllo, o impazziscono o decidono di
affrancarsi o peggio di conquistare il mondo. No, essi vogliono semplicemente
vivere più a lungo; forse anche non avere una data di scadenza, ma potremmo dire di morte, così ravvicinata,
perché i quattro anni previsti dal progettista li mettono in una condizione di
costante fine-vita imminente.
E questo è un problema umano, anzi è il problema dell’umanità per eccellenza, la paura di morire. In
effetti, forse per allontanare questi temi dai replicanti, e mantenerli quindi nella condizione di non-umani, la
loro uccisione da parte dei cacciatori di androidi viene definita ritiro, proprio come un’azienda ritira
alcuni prodotti non conformi ad essere commerciati. Ma è un tentativo vano,
perché i replicanti riusciranno a dimostrarsi umani proprio nel momento
decisivo. Che già nella loro normale attività riconoscerli è impossibile,
almeno per un uomo; a meno che non si ricorra al Voigt-Kampff, un test che, attraverso l’uso di un apposito
strumento, riesce a riconoscere i replicanti.
Questo elemento certifica la bivalenza degli androidi, che sono, sotto un certo
punto di vista, sia uomini che macchine; all’occhio umano sono umani, se
scrutati dalla macchina con il Voigt-Kampff,
sono macchine. Non sembrano poi così limitati, in definitiva. C’è poi un altro
replicante nella storia, Rachael (Sean Joung) che è ancora più umano rispetto
ai nexus 6, vive più a lungo e sembra
avere sentimenti più forti. E’ addirittura in grado di innamorarsi, e questo
salva la vita a Deckard, nel momento in cui si trova faccia a faccia, e a mal
partito, con Leon. Il cacciatore di androidi se la cava solo grazie
all’intervento di Rachael, che uccide il proprio simile, salvando la vita
all’uomo che ama o crede di amare. E se questa scelta, comunque drammatica, può
avere la scusante dell’amore (o della
presunzione di amore), uno dei replicanti farà una scelta ancora più arbitraria
e inaspettata, una scelta decisamente umana nel suo essere completamente
imprevedibile.
Lo scontro finale è tra Deckard e Roy Batty, dopo che il
primo ha fatto fuori tutti i compagni del secondo (come abbiamo visto, Leon in
modo indiretto), ed è deciso, anche giocando sporco, a completare il lavoro.
Alla fine, Roy Batty si accorge di essere arrivato al capolinea, ma prima di
morire, decide, come ultimo e completamente inaspettato gesto, di salvare la
vita al rivale con il quale stava combattendo.
Il tema dell’umanità dell’altro, è un argomento strettamente connesso alla science fiction, da quando, nel boom
legato ai successi tecnologici degli anni ’50, si è cominciato ad usare la
fantascienza per cercare di capire se oltre cortina i comunisti mangiassero davvero i bambini. Non è
quindi un modo inusuale, quello intrinseco a Blade Runner, di affrontare il diverso
cercando con esso i punti in comune anziché le differenze. Quello in cui riesce
magnificamente Scott è nel dare una forma cinematografica a questi temi, comuni
a Philip K. Dick (autore del romanzo Cacciatore
di androidi alla base del soggetto del film) e a molti altri autori di science fiction. E nel farlo non solo
grazie alle splendide scenografie ma, soprattutto, a quelll’atmosfera malinconica
simile all’umore di chi vede nel volto del diverso,
dell’emarginato, l’immagine di se stesso.
Sean Young
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