24_I CAVALIERI DALLE LUNGHE OMBRE (The long riders). Stati Uniti, 1980; Regia di Walter Hill.
Insomma, che l’epopea western, rivestita negli anni di tutti
questi simbolici significati, in fondo non fosse che un piccolo episodio trascurabile,
senza grandi significati, se contemplato nel computo complessivo della Storia? Ecco,
guardando il film di Walter Hill, I
cavalieri dalle lunghe ombre, questo sospetto viene davvero. Ma non subito.
Perché la pellicola ha una magniloquenza sontuosa, un rigore formale geometrico
ricco di sponde e rimandi come se ne vedono pochi al cinema. La storia
raccontata è quella della banda di Jesse James, il famoso bandito vissuto dopo la Guerra Civile che continuò una
sua personale e privata battaglia
contro i vincitori nordisti. In realtà, e il film non lo smentisce, Jesse James
e la sua banda erano volgari banditi che nulla avevano di poetico; gente che
con il pretesto morale della causa
confederata continuava ad infrangere la legge senza alcuna remora e nessuna
coerenza. Jesse a casa era un bravo marito, ma sul lavoro era uno spietato bandito; nel film non tutti i componenti
della banda sono mostrati come sanguinari senza motivo ma la durezza delle loro
entrate in scena durante le rapine è impressionante.
Dicevamo del rigore geometrico: innanzitutto strutturale. I personaggi che sono
fratelli nella finzione, sono fratelli anche nella realtà: James e Steacy Keach
sono Jesse e Frank James; David, Robert e Keith Carradine sono Cole, Bon e Jim Younger; Dennis e Randy Quaid sono Ed e
Clell Miller; Christopher e Nicholas Guest sono Charley e Robert Ford. Una
specularità perfetta tra finzione e realtà, forse a rivendicare l’attendibilità
storica di quanto messo in scena. Ma la geometria permea anche la trama della
vicenda narrata: il film si apre con una rapina in banca, e un'altra rapina in
banca, quella a Northfield, è quella che sostanzialmente chiude la carriera
della banda James.
In mezzo ci sono una serie di doppi episodi, in un gioco di
continue ripetizioni: sullo schermo passano due funerali, due duelli (di cui uno
doppio, con due Younger contro due Pinkerton, e l’altro tra i due uomini della
prostituta Belle Star), due matrimoni (Jesse e Frank), e, volendo, anche la
rapina al treno che fa il paio con quella alla diligenza. Il tutto scandito al ritmo delle canzoni, delle ballate che accompagnano tutto il lungometraggio,
mantenendo una cadenza calibrata e per nulla caotica. Oltre agli impliciti rimandi a La vera storia di Jess il bandito (1957,
regia di Nicholas Ray) di cui riprende alla lettera alcune scene, il
riferimento cinefilo più evidente è per il cinema di Peckinpah; le scene della rapina, con l’uso
esasperato del rallenty, o nel fragore dei colpi di fucile, delle ferite che si
aprono sui corpi, sono di grande impatto visivo, quasi coreografico.
La violenza è mostrata in tutta la sua bellezza, senza alcun pudore; l’azzardo visivo di Hill paga grazie alla meticolosità della sua messa in scena, che toglie l’elemento irrazionale e caotico intrinseco alle manifestazioni di violenza nella realtà, e sullo schermo ne rimane solo l’ipnotico fascino perverso. Una pura esercitazione di stile: proprio come sostengono i detrattori del film. Però, questo non è un difetto, almeno non in questo film. Che gli eroi dei film western di quando eravamo bambini non fossero poi così eroici, lo avevamo capito da un pezzo; dopo The long riders sappiamo che gli antieroi cari a Peckinpah e a Leone, erano anche peggio. Vigliacchi e codardi come Jesse James, che non esita ad abbandonare i propri compagni feriti alla mercé dei poliziotti.
sì, probabilmente è vero ciò che dici sulla strumentalizzazione del genere western, tuttavia penso che in fin dei conti sia stato un bene poter esplorare diverse possibilità... è come un giocattolo che piace e allora lo si smonta e rimonta per divertirsi di più... dopo un po', a mente fredda, si può anche discutere se c'è una di queste varianti con cui ci si sente più un sintonia :)
RispondiEliminaSicuramente è stato un bene. Io personalmente sono in sintonia un po' con tutte le varianti. Ovvio che il classico è, per definizione, la perfetta armonia degli elementi in gioco e rappresenta sempre il vertice in ambito artistico.
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