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martedì 7 novembre 2017

I CAVALIERI DALLE LUNGHE OMBRE

24_I CAVALIERI DALLE LUNGHE OMBRE (The long riders). Stati Uniti, 1980;  Regia di Walter Hill.

 Walter Hill, dopo il celebrato I guerrieri della notte, si cimenta con quello che forse è il genere cinematografico per eccellenza, il western. O perlomeno, questo era vero negli anni d’oro di Hollywood (e dell’America), dal dopoguerra a tutti gli anni 50 e buona parte dei 60. Poi è cominciata la parabola che ci ha dato prima il western crepuscolare in tutte le sue declinazioni, poi quello revisionista o controwestern, fino agli ultimi anni 70 quando il genere si è praticamente spento. Se può essere opinabile che quello dei cowboys sia stato il genere per antonomasia, il simbolo stesso del Cinema, una caratteristica propria di questo tipo di pellicole è però difficilmente discutibile: negli anni, lungo i vari periodi, pochi altri generi sono stati così strumentalizzati quanto il western. A parte gli arbori, dove si trattava di avventura pura, il western ha sancito la grandezza dell’America con i classici, esattamente come i poemi epici dell’antichità. La deriva crepuscolare del genere ha guardato dietro il manifesto del Sogno Americano, mostrando il muro grezzo e screpolato mentre i film si facevano più sporchi e trasandati. L’impennata revisionista ha camuffato la guerra in Vietnam con gli scontri con gli indiani. Insomma, nella sua storia, il genere è sempre stato tirato un po’ per la giacchetta, come si suol dire, adeguandolo di volta in volta alle esigenze espressive sociali. Ma se possono essere comprensibili queste necessità, analizzando la situazione sociale di ogni periodo negli Stati Uniti che rifletteva poi un cambiamento alla bisogna dentro il genere western, viene però legittimo chiedersi: ma il fatto di utilizzare questo tipo di pellicola come un contenitore, come qualcosa che si potesse riempire di significati diversi per ottenere scopi diversi, non potrebbe voler anche dire che il contenitore in questione sia vuoto?

Insomma, che l’epopea western, rivestita negli anni di tutti questi simbolici significati, in fondo non fosse che un piccolo episodio trascurabile, senza grandi significati, se contemplato nel computo complessivo della Storia? Ecco, guardando il film di Walter Hill, I cavalieri dalle lunghe ombre, questo sospetto viene davvero. Ma non subito. Perché la pellicola ha una magniloquenza sontuosa, un rigore formale geometrico ricco di sponde e rimandi come se ne vedono pochi al cinema. La storia raccontata è quella della banda di Jesse James, il famoso bandito vissuto dopo la Guerra Civile che continuò una sua personale e privata battaglia contro i vincitori nordisti. In realtà, e il film non lo smentisce, Jesse James e la sua banda erano volgari banditi che nulla avevano di poetico; gente che con il pretesto morale della causa confederata continuava ad infrangere la legge senza alcuna remora e nessuna coerenza. Jesse a casa era un bravo marito, ma sul lavoro era uno spietato bandito; nel film non tutti i componenti della banda sono mostrati come sanguinari senza motivo ma la durezza delle loro entrate in scena durante le rapine è impressionante.

Dicevamo del rigore geometrico: innanzitutto strutturale. I personaggi che sono fratelli nella finzione, sono fratelli anche nella realtà: James e Steacy Keach sono Jesse e Frank James; David, Robert e Keith Carradine sono Cole, Bon e Jim Younger; Dennis e Randy Quaid sono Ed e Clell Miller; Christopher e Nicholas Guest sono Charley e Robert Ford. Una specularità perfetta tra finzione e realtà, forse a rivendicare l’attendibilità storica di quanto messo in scena. Ma la geometria permea anche la trama della vicenda narrata: il film si apre con una rapina in banca, e un'altra rapina in banca, quella a Northfield, è quella che sostanzialmente chiude la carriera della banda James. 
In mezzo ci sono una serie di doppi episodi, in un gioco di continue ripetizioni: sullo schermo passano due funerali, due duelli (di cui uno doppio, con due Younger contro due Pinkerton, e l’altro tra i due uomini della prostituta Belle Star), due matrimoni (Jesse e Frank), e, volendo, anche la rapina al treno che fa il paio con quella alla diligenza. Il tutto scandito al ritmo delle canzoni, delle ballate che accompagnano tutto il lungometraggio, mantenendo una cadenza calibrata e per nulla caotica.  Oltre agli impliciti rimandi a La vera storia di Jess il bandito (1957, regia di Nicholas Ray) di cui riprende alla lettera alcune scene, il riferimento cinefilo più evidente è per il cinema di Peckinpah; le scene della rapina, con l’uso esasperato del rallenty, o nel fragore dei colpi di fucile, delle ferite che si aprono sui corpi, sono di grande impatto visivo, quasi coreografico.


La violenza è mostrata in tutta la sua bellezza, senza alcun pudore; l’azzardo visivo di Hill paga grazie alla meticolosità della sua messa in scena, che toglie l’elemento irrazionale e caotico intrinseco alle manifestazioni di violenza nella realtà, e sullo schermo ne rimane solo l’ipnotico fascino perverso. Una pura esercitazione di stile: proprio come sostengono i detrattori del film. Però, questo non è un difetto, almeno non in questo film. Che gli eroi dei film western di quando eravamo bambini non fossero poi così eroici, lo avevamo capito da un pezzo; dopo The long riders sappiamo che gli antieroi cari a Peckinpah e a Leone, erano anche peggio. Vigliacchi e codardi come Jesse James, che non esita ad abbandonare i propri compagni feriti alla mercé dei poliziotti.






2 commenti:

  1. sì, probabilmente è vero ciò che dici sulla strumentalizzazione del genere western, tuttavia penso che in fin dei conti sia stato un bene poter esplorare diverse possibilità... è come un giocattolo che piace e allora lo si smonta e rimonta per divertirsi di più... dopo un po', a mente fredda, si può anche discutere se c'è una di queste varianti con cui ci si sente più un sintonia :)

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  2. Sicuramente è stato un bene. Io personalmente sono in sintonia un po' con tutte le varianti. Ovvio che il classico è, per definizione, la perfetta armonia degli elementi in gioco e rappresenta sempre il vertice in ambito artistico.

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