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venerdì 30 settembre 2022

CONTRATTO PER UCCIDERE

1118_CONTRATTO PER UCCIDERE (The Killers). Stati Uniti 1964;  Regia di Don Siegel.

Charlie Strom (interpretato da Lee Marvin) vuole vederci chiaro: perché l’ultimo suo contratto (John Cassavetes nei panni di Johnny North) si è lasciato uccidere senza scappare? E’ da questo punto che nel film Contratto per uccidere si sviluppa l’indagine – a scopo criminale, ben inteso – di Strom e del suo socio Lee (Clu Gulager), due killers che decidono di scoprire il perché dello strano comportamento della loro ultima vittima. In ballo c’è un bottino da un milione di dollari e quindi ne vale la pena, sostiene giustamente Strom mentre ne discute col suo giovane socio, che invece vorrebbe accontentarsi della parcella e considerare chiuso l’affare. Vale la pena di approfondire la scelta di utilizzare il termine ‘giustamente’: è evidente che di giusto, facendo riferimento alla giustizia, all’etica o alla morale, non c’è niente, nelle motivazioni di Strom ma in questo caso il termine va inteso come adeguato, adatto, giusto, insomma. Ma allora perché utilizzare qui un termine in modo in qualche modo poco appropriato? Per sottolineare come le coordinate etiche e morali nel film sono svuotate del loro significato originale e quindi vengono meno al loro ruolo. Don Siegel, regista di questo splendido Contratto per uccidere, ignora completamente il quadro morale, infrastruttura narrativa alla base del cinema classico, perfino in quello di film di genere come noir o polizieschi. Pellicole in cui, più che altrove, valevano le parole del maestro Fritz Lang quando diceva che c’erano solo due categorie di persone, cattivi e molto cattivi ma, per convenzione, venivano chiamati buoni i cattivi e cattivi i molto cattivi. Siegel ignora perfino quella convenzione. 

Perché Contratto per uccidere è popolato da ben poche figure anche solo genericamente oneste, forse solo il meccanico (Claude Atkins) sembra una persona tutto sommato a modo, ma è un personaggio marginale. Johnny è scorretto, si veda la scena della gara automobilistica per capirne l’animo; gli altri sono praticamente tutti criminali. Tra cui una meravigliosa Angie Dickinson presta le grazie a Sheila Farr, una femme fatale perfida e indimenticabile; Ronald Reagan è invece Jack Browning, ovvero il boss della gang: il futuro presidente americano è particolarmente adatto al ruolo e al tema del film nella sua unica e falsa espressione interlocutoria. La traccia dominante nel racconto è il cercare, come si diceva all’inizio, di vederci chiaro: cosa difficile da farsi nell’America mostrata da Siegel, tra occhiali scuri indossati dai killers, istituti per non vedenti, malattie agli occhi, donne tanto belle quanto ingannatrici e spietati criminali dalla faccia abbronzata e ipocrita. Ma la sorpresa finale è che non c’è alcun mistero, non c’è niente di rilevante da svelare: North si è lasciato ammazzare perché era già morto, ucciso, metaforicamente, dagli atroci inganni di Sheila.

La polizia, l’unica vera figura legale presente nel film, arriva solo nel finale ma, prima che la pattuglia possa intervenire, anche l’ultimo sopravvissuto dell’intrigo muore per i colpi ricevuti. Quindi tutto il film, che in effetti basa il suo racconto su una serie di flashback, è in ritardo: sono in ritardo i killers, che uccidono un uomo già morto, ed è in ritardo la polizia, che arriva a cose già risolte. E dire che il protagonista è uno che va veloce in macchina e che entra nel giro losco proprio per la capacità di arrivare per tempo nell’agguato al furgone postale. E’ quindi forse un monito, questo Contratto per uccidere? Si cerca di capire ma quello che si scopre è che il momento topico è già passato, e se anche proviamo a fare in fretta, la ricerca della velocità, l’essere sbrigativi e brutali non evita il sostanziale ritardo. E la violenza fisica gratuita dei killers, spesso sopra le righe (i pugni in faccia alla Dickinson o la bestiale aggressione all’impiegata non vedente) aumenta la sensazione di vuoto tipico di un appuntamento mancato che il racconto ci lascia: un delitto inutile, ormai in ritardo. Viene ucciso un uomo che non vuole i soldi e nemmeno la donna dell’altro e, ai moderni sicari, non resta che spargere morte e violenza senza un reale motivo e, soprattutto, senza nemmeno più quella sorta di senso romantico che, ai bei tempi andati, gli si poteva concedere. Un’involontaria metafora significativa ce la offre l’attore Ronald Reagan: al tempo pare si pentì di aver partecipato a questo film, interpretando un cattivo – contrariamente al suo solito – e nel quale, per di più, prendeva a schiaffi Sheila, una donna, la sua donna. Reagan si accingeva ad entrare in politica e quello di Jack Browing, il suo ultimo ruolo nel cinema, non sembrava affatto il miglior biglietto da visita possibile.
Ma, lo si è detto, l’America era un paese di ciechi. 





Angie Dickinson 













Galleria di manifesti 




















giovedì 29 settembre 2022

ALBA FATALE

1117_ALBA FATALE (The Ox-Bow incident). Stati Uniti 1943;  Regia di William A. Wellman.

Pare che per il ruolo di Jenny Ma’ Grier, il donnone che baldanzosamente si unisce alla posse in Alba fatale, fosse stata scelta Sara Algood, poi sostituita da Florence Bates. Solo un infortunio a quest’ultima fece sì che la parte dell’odiosa matrona spettasse a Jane Darwell. Il che fa vacillare la solidità del terzo indizio che, si sa, in genere si ritiene necessario per costituire una prova: ciò nonostante, il tema musicale Red River Valley unito alla presenza di Henry Fonda e al coinvolgimento della Darwell va a costituire un rimando al film Furore (1940, regia naturalmente di John Ford) troppo evidente per essere taciuto. Se l’attrice sembra essere capitata nel cast un po’ per caso, come si diceva, lo stesso non si può dire di Fonda, che di Alba fatale fu entusiasta; e, a quel punto, lo struggente brano musicale, visto la presenza dei citati due interpreti, sembra comunque davvero voler evocare il capolavoro di Ford. Che era una sorta di inno contro le ingiustizie sociali e celebrava, in un certo senso, il sacrificio della povera gente che il capitalismo della società americana sfruttava per mantenersi. Ford è stato il supremo maestro nel raccontare la nascita della nazione americana, prevalentemente con i suoi western mentre con Furore aggiornò la sua visione sul grande paese affrontando gli effetti del capitalismo sfrenato. Detto che nessuno al cinema descrisse l’origine degli Stati Uniti in modo da potersi dire all’altezza del vecchio patriarca, si può forse osservare che il senso liturgico delle sue opere, che peraltro rimanevano intrise del più sobrio classicismo, quando usciva dal mito del periodo epico poteva scontrarsi con la prosaicità della realtà. A volte era una necessità: ad esempio in Furore, con un’analisi così alta come quella che operava Ford col suo cinema, il popolo doveva quasi necessariamente assumere un valore positivo, altrimenti il pessimismo di cui era intrisa la storia avrebbe affossato ogni speranza. Pur essendo un autore valido dal punto di vista etico morale, William A. Wellman era meno aulico, nel senso profondo, rispetto a Ford, e si poteva permettere, grazie a questo, di criticare la società americana con maggior libertà. Diversamente c’è da credere che Alba fatale, il suo riconosciuto capolavoro, sarebbe finito all’indice come testo sacrilego. 


In The Ox-Bow incident (questo il prosaico titolo originale) quello stesso popolo cantato da Ford, i coloni americani del south-west, ha un comportamento a dir poco animalesco. Per sottolinearne la belluinità, Wellman mette al centro del suo implacabile obiettivo un gruppo di soli uomini, o meglio quasi; c’è anche la citata Jenny Ma’ Grier quasi a dimostrare come le donne del west, all’occorrenza, potessero essere più rudi e bestiali dei loro consorti. Pare ci sia stata una ruberia di bestiame e ci sia scappato il morto; pare, perché lo sceriffo è fuori paese e le indagini non si sono potute fare. Ma, una volta recuperati corda e sapone, ai selvaggi uomini del selvaggio west basta trovare un albero e qualcuno da appendervi; e al diavolo le indagini. La posse è presto organizzata grazie alla presenza di un texano che si spaccia per vicesceriffo, nonostante le resistenze di Mr Davis (Harry Davenport) che si para dinnanzi al manipolo di assatanati invocando calma e rispetto delle regole. Manipolo che, al contrario, non vede l’ora di festeggiare una bella impiccagione. Mr. Davis prova a scuotere i suoi concittadini, vanamente, o quasi. Per la verità c’è chi non è d’accordo con la deriva forcaiola dei presenti: si tratta di Sparks (Leigh Whipper), predicatore che sembra la caricatura del Casy interpretato da John Carradine in Furore. E i riferimenti al capolavoro fordiano non si fermano qui dato che l’unico uomo d’azione che avanza almeno qualche perplessità nella situazione è Gil Carter, che rafforza tali rimandi ulteriormente. 

Henry Fonda, infatti, interpreta il personaggio sulla falsariga di quello che aveva fatto per il Tom Joad di Furore: un tizio che, se proprio non si potrà evitare, non si farà però problemi ad intervenire al fine di provare a scongiurare un’ingiustizia. In questa ambiguità, Fonda sapeva essere magistrale: l’attore americano aveva un’integerrima e naturale purezza che gli garantiva comunque di apparire come figura positiva in ogni occasione (o quasi). Su questa base, poteva poi fingere – con quella che di fatto diveniva una finzione nella finzione – di essere un individuo che voleva unicamente farsi i fatti propri. In principio, il suo coinvolgimento sembra infatti teso a evitare di finire lui sulla forca, essendo capitato in paese nel momento sbagliato, ovvero quando si stanno cercando dei colpevoli e, come detto, i baldi paesani non stanno a guardare troppo per il sottile. 

Ripensando a Furore e alla figura cristologica del personaggio di Fonda, viene in mente una sorta di possibile Gesù o Barabba in salsa western, con Gil messo sulla graticola: l’eroe della storia ingiustamente condannato dal suo stesso popolo. Ma, come detto, Wellman vuole essere assai meno mistico di Ford e il rimando biblico rimane sospeso; la sospensione è, tra l’altro, una caratteristica che il film ha intrinsecamente, anche ironicamente visto che parla di tre impiccagioni, e che connota anche la storia sentimentale. La protagonista femminile, Mary Beth Hughes nei panni di Rose, ex fidanzata di Gil, appare quasi solo di sfuggita e in modo poco significativo, lasciando qualche dubbio sul senso della sua presenza. Ma la sospensione più importante in Alba fatale è riservata alla Giustizia: come la pagheranno, i colpevoli delle sommarie impiccagioni? Verranno davvero processati per il loro gesto? Sembra molto difficile da credere: il popolo, cantato liturgicamente da Ford, può commettere le peggiori nefandezze e avere buone chances di farla franca. 

E di questo, gli individui che compongono la posse in Alba fatale, sembrano essere perfettamente consapevoli. Prima fra tutti forse no ma comunque in buonissima posizione, Jenny Ma’ Grier. Tuttavia i conti con questa gentaglia, se si faranno – ipotesi assai remota da credere – si faranno in seguito e Wellman non li degna della ribalta cinematografica. Le scene forti, quelle che restano nella memoria, sono quelle del linciaggio, dove le ombre degli impiccati nel bianco e nero della fotografia di Arthur C. Miller sembrano cercare di trattenere la vita che è stata barbaramente tolta ai tre malcapitati. Tra i quali, un giovanissimo Anthony Quinn interpreta effettivamente un tipo losco, come sua abitudine, ma Dana Andrew, solo leggermente più anziano, è davvero credibile quando reclama la sua innocenza. Ma gli uomini della posse non sentiranno ragioni “giustiziando” tre persone che poi si riveleranno, come prevedibile, innocenti. Il popolo, che Ford aveva raccontato in modo tanto lirico come salvezza per l’individuo, una volta crollate la famiglia e la società tradizionale, ha comunque anche un lato oscuro. Ben più oscuro non solo di quello di ciascuno dei singoli individui, ma perfino della loro somma algebrica. 









Mary Beth Hughes 




Jane Darwell



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