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lunedì 31 gennaio 2022

FACCIA A FACCIA

965_FACCIA A FACCIA ; Italia, Spagna, 1967; regia di Sergio Sollima.

Il secondo western di Sergio Sollima, dopo il precedente La resa dei conti, è anche politicamente più esplicito del suo esordio nel genere, che pure in quel senso lo aveva segnato. Ma che si tratti di una sorta di approfondimento del precedente lungometraggio, lo si capisce già dai titoli di testa: anche stavolta estremamente astratti, quasi psichedelici. L’utilizzo di un codice astratto per introdurre il racconto autorizza quindi una lettura simbolica, come del resto era stato evidente anche per La resa dei conti. E anche per Faccia a faccia Sollima va a pescare una delle figure di quella trilogia del dollaro di Sergio Leone che del western all’italiana è il punto di riferimento principale; stavolta è il turno di Gian Maria Volontè, il feroce cattivo dei primi due episodi leoniani. Volontè è già un attore di grande spessore culturale, sia per i suoi primi ruoli cinematografici che per i suoi lavori a teatro; Leone ne sfrutta il carattere istrionico per un paio di personaggi memorabili per la pittoresca cattiveria, ma Sollima è più interessato al simbolico bagaglio culturale che si porta appresso l’attore milanese. Infatti, nel film, Brett Fletcher (il personaggio di Volontè) è un professore ma, subito a chiarire che la cultura non è necessariamente un aspetto sano della società, è costretto a lasciare la cattedra e recarsi nell’ovest per motivi di salute. Nel west incontra un messicano anzi, il messicano, anche stavolta Tomas Milian, qui nei panni di uno spietato fuorilegge, Solomon Beauregard Bennet. Sollima sembra quasi scherzare con la sua abitudine di gestire i personaggi del genere spostandoli da un film all’altro, quando ci presenta, nella ragazza innamorata di Bennet, una giovanissima, quasi fanciullesca, Cattle Anne, interpretata da una dolce ma ancora acerba Carole André: situazione che ricorda La resa dei conti in cui, a lungo, era pesata sul protagonista messicano interpretato da Milian l’accusa di farsela con le ragazzine (arrivando ad ucciderne una). In ogni caso la contrapposizione tra l’istruito Brett e il violento Beaureguard inizialmente è forte, poi avviene un avvicinamento, man mano che il primo si adegua all’ambiente selvaggio del west e il secondo avverte un po’ di disagio per la metamorfosi dell’amico, fino agli episodi decisivi che cambieranno lo stato delle cose per entrambi. 

Di Brett, nel film, vengono più volte sottolineate l’istruzione e la capacità intellettiva: doti che non lo salveranno dal prendere la cattiva strada, a testimonianza, secondo Sollima, che non siano né l’intelligenza né la cultura che possano essere in grado di salvare un individuo. All’inizio Brett è un personaggio mite, ma lo è non per scelta, bensì per inconsapevolezza; egli è, infatti, da un punto di vista del ricorso alla violenza, vergine. La verginità di Brett è supportata dalla sua condizione sessuale, che nel film viene accostata al suo essere mite ma solo perché ancora non conosce l’uso della forza per affermarsi. Nell’incipit lo vediamo lasciare la scuola per partire per l’ovest, salutando una donna: questa lo chiama Professor Fletcher, a testimonianza di una scarsa intimità tra i due. Quando poi l’uomo è ormai giunto nel west, mentre scherza con la vicina di camera per via del trambusto che questa fa ogni notte col fidanzato, lo vediamo intento a guardare la foto della ragazza della scuola che, evidentemente, per quanto labile, è il riferimento sentimentale del professore. Successivamente, nel covo dei banditi, viene colpito dall’avvenenza di Maria (Jolanda Modio) la donna di Vance, uno dei membri della banda: ma quando il bandito gli chiede se vuol ballare con la donna, egli rifiuta imbarazzato, bofonchiando qualcosa. E quel non saper ballare, sembra proprio sottintendere anche il non saper fare qualcos’altro (di più piacevole). La molla nella testa di Brett scatterà quando vedrà Maria fare il bagno al fiume: la prenderà facendo ricorso alla forza, rompendo così le due verginità che lo tenevano tranquillo. 

A quel punto l’uomo cambia completamente, diventa un lucido assassino (uccide il rivale Vance) e mette la sua intelligenza e la sua istruzione a servizio dei piani criminali della banda, di cui diviene presto uno dei leader. Proprio durante uno degli atti criminali progettati da Fletcher, avviene la svolta di Beauregard, che vede morire un ragazzino per la strada, colpito durante una sparatoria. L’uccisione di un innocente (la cui innocenza è simboleggiata dalla giovane età) smuove l’interiore senso di giustizia del messicano. 
Nel finale, un terzo personaggio fino a quel momento parso secondario, si erge a livello dei due protagonisti, Brett e Bearegard: è Siringo (William Berger) discutibile uomo di legge (è un agente Pinkerton) che assume, a quel punto, il ruolo di buono di una partita che diviene ora a tre proprio come nei film di Leone. A sorpresa, il messicano si schiera a suo fianco, ormai vinto dal senso di giustizia scaturito dal senso di colpa per la morte del ragazzino. Dall’altra parte della barricata rimane Brett Fletcher, a cui intelligenza e cultura non basteranno per salvarsi, in qualsiasi senso.  





Jolanda Modio 



Lydia Alfonsi 



Carole André


sabato 29 gennaio 2022

CIAO AMICI!

964_CIAO AMICI! (Great Guns); Stati Uniti, 1941; regia di Monty Banks.

Dopo tantissime pellicole, siano essi corti o lungometraggi, grosso modo sempre di ottimo livello, arriva questo inatteso passo falso per il duo di comici Stan Laurel e Oliver Hardy. La ricetta della loro comicità sembrava poter funzionare per sempre, invece guardando questo Ciao amici! ci si sorprende per quanto il duo appaia fuori giri, sconnesso al testo della storia, e perfino poco divertente nei propri intermezzi. Probabilmente la rottura contrattuale avvenuta l’anno precedente con il produttore Hal Roach presenta il conto; il regista Monty Banks imbastisce una trama troppo complessa che non interessa a nessuno e per di più con qualche passaggio di difficile comprensione. Se è vero che, soprattutto Stanlio, ha sempre avuto quasi una propria dimensione extracorporea e perciò surreale, non si può dire questo del contesto in cui la coppia si muove. E’ proprio il contrasto tra l’astrattismo di Stanlio con l’ambiente reale, a cui Ollio fa da tramite, a creare i presupposti per le gags. C’era quindi una logica, un lavoro minuzioso alle spalle delle scenette in cui per esempio, Ollio grattava il piede dell’amico, pensando fosse il proprio, senza che questi se ne accorgesse; oppure quando Stanlio si accendeva e fumava la pipa con tre mani senza rendersi conto dell’intruso alle sue spalle. Ovviamente queste cose succedono anche in Ciao amici!, ad esempio nelle scene in cui Stanlio trasporta le assi sul ponte di barche; ma, se già nel complesso si avverte legittimamente un po’ di stanca visto il ripetersi delle solite situazioni, è però la storia raccontata ad affossare definitivamente il film. Un canovaccio pesante che non è né di supporto né di aiuto perché invece delle solite discrete trame qui abbiamo un intreccio troppo ingombrante e poco logico. La 20th Century-Fox, il nuovo Studio di Produzione del duo, tramite un comunicato stampa per la presentazione dell’opera, provò quasi mettere le mani avanti, forse prevedendo lo scetticismo del pubblico di fronte ai cambiamenti che la major aveva imposto alla coppia. In realtà al box office Ciao amici! andò bene, forte anche della fama consolidata di Laurel & Hardy, ma già parte della critica si accorse che i nostri, all’interno di un sistema produttivo rigidamente inquadrato come quello della Fox, non potevano funzionare. E ben presto se ne accorsero tutti, a partire proprio da Stan Laurel che era stato il più insofferente nella in realtà proficua collaborazione con Hal Roach.
Volendo vedere, il titolo italiano del film, che può assumere anche il tono da commiato, sembra effettivamente quasi un congedo: un’interpretazione sinistramente premonitrice sulle future fortune della coppia di comici quasi ad avvertire il pubblico che i nostri simpatici eroi avevano ormai il proprio periodo aureo alle spalle.






Sheila Ryan 







giovedì 27 gennaio 2022

THE EICHMANN SHOW

963_THE EICHMANN SHOW ; Regno Unito, 2015; regia di Paul Andrew Williams.

Un tempo, la matrice televisiva dei tv-movie era generalmente indice di una certa piattezza in sede di regia; oggi questo è un po’ meno vero, visto che in molte serie tv si vede un uso un po’ più personale della tecnica di ripresa. Anche The Eichmann Show di Paul Andrew Williams conferma questo trend e, dal punto di vista tecnico, presenta qualche passaggio apprezzabile. Tra l’altro, il film è incentrato su una produzione di un evento in diretta televisiva, il processo al gerarca nazista Adolf Eichmann, e quindi anche lo stile, che rimane comunque un po’ televisivo, è inerente, se non congeniale, al tema trattato. Siamo nei primissimi anni Sessanta del secolo scorso, un tempo in cui il mezzo televisivo aveva già raggiunto una potenza di fuoco non indifferente, cosa di cui si cominciava ad avere una certa consapevolezza così il racconto filmico si muove su due piani: da una parte vi è la questione approfondita nel processo, dall’altra la spettacolarizzazione che deriva inevitabilmente dal divenire un evento mediatico. Dal lato delle istituzioni preposte (i giudici), vediamo un tentativo di tenere ben distinti i due piani: le telecamere verranno ammesse al processo solo se saranno una presenza non ingombrante. D’altra parte l’Olocausto è un tema da prendere con le molle, e una certa prudenza è più che comprensibile. Il produttore Milton Fruchtman (Martin Freeman) spinge, sull’altro versante, per produrre un evento che sia, oltre che un atto di giustizia esemplare, anche un successo mediatico. Il punto di intersezione tra i due piani è il regista Leo Hurwitz (Anthony LaPaglia) che vuole usare il mezzo televisivo per un’operazione di più elevato livello morale. 

Se riuscirà, infatti, a mostrare il pentimento sul volto di Eichmann, avrà dimostrato come i nazisti non fossero mostri, ma semplicemente uomini come lo siamo tutti; uomini che hanno sbagliato, e sbagliato molto, come possiamo, in determinate circostanze, sbagliare tutti. L’intento è lodevole, sebbene forse un po’ troppo astratto; al cospetto dell’obiettivo della sua Macchina da Presa c’è infatti un individuo che difficilmente potrà mostrare qualche sentimento umano, in quanto, come molti nazisti, ha probabilmente perso la propria umanità di fronte alla gravità di quello che stava facendo. In ogni caso l’operazione auspicata dal regista (raffigurare il pentimento di Eichmann in diretta tv) fallisce, e lo stesso Eichmann verrà colto in fallo solo da una sua contraddizione, attraverso la quale si aprirà un varco nell’impassibile muro ipocrita dietro al quale si celava il gerarca nazista. 

Piccolezze, in fondo, cose meschine; ma emblematiche per capire la statura morale di quegli individui che si nascondevano dietro un mal riposto senso del dovere. Sotto questo aspetto il film di Paul Andrew Williams, al contrario di quello di Hurwitz all’interno del racconto, riesce nel suo intento: il nazismo è mostrato in tutta la sua ipocrisia, nella sua minuscola cifra etica o morale. Eichmann non può pentirsi: è un uomo troppo piccolo, troppo meschino, per potersi pentire (di un crimine così grande poi). Può rammaricarsi di essersi contraddetto, questo sì; perché i nazisti erano solo burocrati senza cuore né cervello. Leo Hurwitz, il regista che nella finzione dirige le riprese, ha però ragione in una cosa: i nazisti non erano mostri. I mostri, lo dice anche l’origine del nome (dal latino “monstrum”, ovvero “prodigio” “cosa straordinaria”) hanno un loro valore insito, una loro forza interiore, sia essa rivolta al bene o al male. I nazisti, al contrario, erano la negazione di ciò: burocrati piccoli e meschini che non avevano alcun significato in sé stessi ma unicamente nel ruolo che dispoticamente svolgevano. E quindi, in sostanza, e qui sta il vero acume di Hurwitz/Williams, molto più simili a noi di quando non ci possa sembrare.


martedì 25 gennaio 2022

I COWBOYS

962_I COWBOYS (The Cowboys); Stati Uniti, 1972; regia di Mark Rydell.

Un western davvero atipico, questo I Cowboys, che vede protagonista principale un John Wayne già ultra sessantenne, sia nella vita che nella finzione cinematografica. Atipico perché, tutto sommato, mantiene ben evidenti alcuni stilemi del western classico, ad esempio la colonna sonora di John Williams, per buona parte del film ma, nel finale, dà un paio di scossoni tipici del genere nella sua forma crepuscolare (le zoomate veloci sui volti dei giovanissimi coprotagonisti, giusto per citare l'episodio più lampante). Il Duca è ancora in forma, seppur appesantito, e sorregge da par suo l'intera pellicola che, per quanto ai limiti dell'assurdo (una banda di ragazzini viene assoldata per scortare una mandria) risulta godibile. In effetti l'operazione alla base di questo film sembra essere un tantino troppo complicata, visto il genere di racconto; un po' come le ricette che prepara il cuoco della carovana. In sostanza l'opera del regista Mark Rydell può appunto ascriversi al genere western crepuscolare, almeno dal punto di vista cronologico, (visto che, nel 1972, gli anni Sessanta sono passati da un bel pezzo); eppure la sensazione è che qui si voglia contestare proprio le idee rivoluzionarie veicolate abitualmente dal western crepuscolare o dal contro-western. Nel film viene mostrato il conflitto generazionale in atto, proprio com’è tipico nelle correnti tardo western, con la decisa contestazione da parte dei giovani dei valori tradizionali incarnati dall'eroe americano per eccellenza, ovvero John Wayne. Ma, mentre quest'ultimo viene mostrato come onesto e corretto, seppur duro e scontroso, la generazione successiva è impietosamente descritta come inaffidabile quando non criminale e sanguinaria. Il problema, per il regista, pare non siano le minoranze etniche (il cuoco è di colore e il ragazzo più svezzato è un mezzosangue, e tutte due si riveleranno personaggi positivi) e nemmeno le donne, liquidate in almeno due passaggi (a scuola e nel bordello ambulante) con l’idea che non siano ancora coinvolgibili nella disputa. No, il problema è che la generazione della contestazione di fine anni Sessanta/Settanta (Long Hair /Bruce dern, il capellone violento, ne è un esempio anche riuscito) è nel complesso fallimentare ed è meglio rivolgersi direttamente a quella dopo (i piccoli cowboys a cui è titolato il film) saltandola a pie pari.
Da questo punto di vista il film sembra un tantino tranciante e lascia abbastanza sconcertati ma certo non manca di originalità. 






domenica 23 gennaio 2022

IL CACCIATORE DI TAGLIE

961_IL CACCIATORE DI TAGLIE (The Hunter); Stati Uniti, 1980; regia di Buzz Kulik.

Ultima interpretazione di Steve McQueen, Il cacciatore di taglie non è, come verrebbe da pensare, un western, ma un film d’azione dal tono leggero, quasi da commedia. Al tempo, king of cool era già sessantenne e, sebbene nel film di Buzz Kulik sembri tutto sommato ancora in forma, era già gravemente malato di quel cancro ai polmoni che gli sarà fatale in quello stesso 1980. E pare che, durante i forsennati inseguimenti, Steve abbia avuto un malore; probabilmente, la stanchezza evidente del suo personaggio, Papa Thorson, il cacciatore di taglie del titolo, era la stessa dell’attore le cui salute e prestanza erano già fortemente minate dalla malattia. Per la precisione Papa, un personaggio realmente vissuto, era un cacciatore di cauzioni, ovvero un incaricato di riportare in cella coloro che, provvisoriamente liberi su cauzione, se la squagliavano definitivamente prima del processo. Infatti, in molti stati americani si poteva incaricare una persona preposta (uno come Papa Thorson, appunto) per recuperare i fuggitivi: in sostanza una funzione molto simile al cacciatore di taglie del west. L’idea di Kulik è quindi di mostrare un eroe ormai fuori tempo, legato al passato (oltre ad un lavoro del secolo precedente, Papa è collezionista di vecchi giocatoli e oggetti vintage di ogni genere) con le sue difficoltà ad adeguarsi alla modernità. In effetti fa specie vedere McQueen guidare imbranatissimo una Chevy del 1951 (peraltro splendida), anche se nel film non mancano le muscle car più attuali (per l’epoca): da citare la Pontiac Firebird Tran Am del 1979 che i fratelli Branch fanno saltare con la dinamite e la Pontiac Grand Prix, sempre del 1979, che finisce nel Chicago River precipitando dal Marina West City Tower Parking Garage insieme al folle Bernardo. 

E impossibile non citare, rimanendo in tema motoristico, l’inseguimento ai citati fratelli Branch, in fuga in un campo di granoturco con la Pontiac Firebird, tallonati da Papa a bordo di una gigantesca trebbiatrice. Insomma, il film è divertente, soprattutto sorprende la capacità di McQueen di interpretare un personaggio in qualche passaggio in evidente affanno: spassose le espressione con cui, a volte, pare quasi scusarsi per una tamponata di troppo ad un auto parcheggiata. In realtà tutto questo riguarda solo una delle tre tracce presenti nel film: il vecchio eroe alle prese con un contesto moderno è così raccontato da Buzz in tono da commedia, quasi da farsa. 

A questo sviluppo se ne sovrappone un altro, molto più rarefatto: un criminale che Papa ha ripreso e condotto in carcere è tornato in libertà e vuole vendicarsi. Questo tema non ha però lo stesso tono ma è decisamente più serio, sebbene lo squilibrato sia un tipo pittoresco; diciamo che quest’ingrediente contribuisce a dare un po’ di nerbo alla struttura complessiva. Infine c’è una terza traccia, che si ricollega in parte alla prima, quella principale, e verte sull’immaturità, o sulla voglia di non-crescere, del protagonista. La compagna di Papa, Dotty (Kathryn Harrold) è incinta e prossima al parto, e vorrebbe una maggior partecipazione all’evento da parte dell’uomo. 

Il finale vedrà il neonato avvolto nel famoso giubbotto di Papa, un MA-1 flight, generalmente conosciuto con il semplice nome di bomber: più che un indumento, un simbolo, e usarlo per cullarci un bambino è un tentativo di far quadrare in qualche modo il cerchio tra le abitudini di vita dell’uomo e le ambizioni familiari della sua donna. Ma non si può certo dire che sia uno sviluppo su cui Kulik si soffermi più di tanto, visto che le scene d’azione sono nettamente preponderanti nel complesso dell’opera; in ogni caso qualche frecciatina anche su questo tema il regista la scaglia. Ad esempio, la ragazza, insegnante e di idee progressiste (il rifiuto al matrimonio in forma ufficiale, la scelta del parto naturale) fa un distinguo che vale la pena riportare, in quanto forse non molto distante dall’essere un’opinione diffusa: l’aborto è una scelta della donna, il parto una responsabilità di coppia.
E meditando su quanto questa interessante affermazione possa essere in genere condivisa, mandiamo pure in archivio l’ultimo film di Steve McQueen: a prescindere da questo buono ma non certo eccezionale Il cacciatore di taglie, uno dei grandi del cinema



Kathryn Harrold