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mercoledì 29 settembre 2021

UN GENIO, DUE COMPARI, UN POLLO

899_UN GENIO, DUE COMPARI, UN POLLO ; Italia, Germania Ovest, Francia, 1975; Regia di Damiano Damiani.

Sergio Leone, dopo aver inaugurato gli spaghetti western con la trilogia del dollaro, se l’era un po’ presa male per la deriva eccessivamente farsesca che la corrente italiana aveva preso. Il punto di svolta poteva essere considerato, in modo simbolico, dai film di Trinità con Terence Hill: da lì in poi diveniva difficile fare uno spaghetti che avesse delle pretese serie, fatto salvo le caratteristiche stilizzate che anche i film di Leone avevano avuto. Ma, di fatto, il filone italiano aveva, per così dire, rotto l’onda, e si era avvitato su sé stesso, perdendo ogni velleità autoriale. Ovviamente la cosa poteva essere accettata senza problemi da molti, ma forse a Sergio Leone doveva scocciare un po’di più che ad altri; in fondo gli spaghetti western erano considerati una sua invenzione. Così, se è vero che dal 1968 di C’era una volta il west come regista si terrà lontano dal western, (Giù la testa, del 1971 è più propriamente un film d’avventura), quasi a non voler vedersi immischiato con la moltitudine di produzioni nostrane di bassissima lega, non si darà subito per vinto. Nel 1973, nelle vesti anche di produttore, dà lo spunto per Il mio nome è Nessuno a Tonino Valerii che vede protagonista, oltre ad Henry Fonda, proprio Terence Hill, l’attore che più di ogni altro simboleggiava la risposta interpretativa italiana in chiave parodistica a Clint Eastwood. Giuliano Gemma, che era stato il Ringo dei film di Duccio Tessari, per esempio, aveva fornito anch’esso una figura ironica e scanzonata di eroe, ma era rimasto comunque entro certi limiti. 

Anche per via del successo, e per il risultato del lavoro in coppia con Bud Spencer, Hill aveva invece sbilanciato totalmente sul piano comico la funzionalità del suo personaggio tipico. Nei primi anni settanta pensare ai western del tempo (non ancora noti col termine di spaghetti) voleva dire pensare prima a Trinità che non alla trilogia del dollaro di Sergio Leone. Il che era un po’ clamoroso, visto la differenza qualitativa tra i capolavori leoniani e i pur validissimi e divertenti film di E.B. Clucher. Così Leone, pur non facendosi coinvolgere in prima persona, ordisce un tentativo di riportare la vena farsesca degli spaghetti entro i limiti con non facessero sbracare completamente il genere. Nel caso de Il mio nome è Nessuno l’esperimento ha un risultato positivo e, in effetti, Terence Hill se la cava egregiamente anche se il confronto con Henry Fonda è un po’ rischioso. 

Due anni più tardi Leone prova a mettere un altro tassello nel suo discorso, anche se poi, visto lo scarso risultato, eviterà di farsi menzionare nei credits. E, probabilmente, darà per morto anche il suo tentativo di reindirizzare il genere che aveva creato. Pare infatti che la prima scena di Un genio, due compari, un pollo sia stata diretta da lui in persona; per il resto del film venne ingaggiato Damiano Damiani. Il validissimo regista friulano aveva alle spalle numerosi ottimi film, tra i quali anche uno spaghetti western, Quién sabe? nel quale si poteva leggere il suo impegno civile e politico. Forse questa matrice seria, di Damiani, avrebbe dovuto garantire alla farsa di non deragliare come accadeva troppo spesso nei western all’italiana, ma le cose andarono diversamente. Damiani infatti non trova la giusta alchimia, Terence Hill sembra ormai capace di un unico registro interpretativo, e il film risulta troppo fiacco per le ambizioni che promette. Fa specie, ed è un indice della scarsa funzionalità dell’opera, vedere il personaggio di Klaus Kinski così anonimo, quando basta uno sguardo per intendere che sarebbe in grado di mangiarsi il Joe Thanks interpretato da Terence Hill stivali, speroni e cavallo compresi. Deludente anche Miou-Miou, l’attrice francese che interpreta Lucy, di cui si fatica a ricordare una scena. Insomma, non si tratta certo del peggior spaghetti western della Storia, assolutamente no; il suo problema è che, partito con ambizioni notevoli, si plafona via via sempre più al ribasso. Lasciando lo spettatore deluso, che in fondo è la cosa peggiore che può capitare ad un film. E che per un western, spaghetti o meno, è un peccato mortale.


lunedì 27 settembre 2021

ALBA DI FUOCO

898_ALBA DI FUOCO (Dawn at Socorro); Stati Uniti, 1954; Regia di George Sherman.

Sebbene differente dall’originale Dawn at Socorro, anche il titolo italiano, Alba di fuoco, del film di George Sherman fa riferimento al sorgere del sole. Un momento, da sempre, che simbolicamente indica un inizio e, quindi, potenzialmente un cambiamento. Che è quello che cerca di fare Brett Wade (Rory Calhoun), un gambler pistolero che, anche per questioni di salute, vuole smettere con la vita spericolata tipica del far west. Anche Rannah Hayes (Piper Laurie) vuole cambiare la sua vita, ma in peggio: in polemica con il padre, che la riteneva una poco di buono, decide di diventarlo per davvero. Ma, nonostante questo, la sua è la figura salvifica della storia: non a caso fornisce in due occasioni il medicinale per calmare la tosse cronica di Brett Wade. La sua funzione è però quella di dare un senso alla nuova vita a cui l’uomo andrà incontro, anche se il film è prevalentemente incentrato sulla ricerca, da parte di Brett, di tagliare i ponti con l’ingombrante passato. E non è cosa così scontata: non basta incontrare una bella ragazza, appendere la pistola al chiodo e cambiare aria. Sherman, per chiarire quanto sia difficile scrollarsi di dosso il modo di vivere turbolento e basato sulla violenza della frontiera americana, sfrutta in modo opportuno alcuni spunti del passato del cinema western. La figura di Brett Wade è infatti ritagliata su quella di Doc Holliday, lo storico pistolero protagonista della sfida all’OK Corrall e, ovviamente, di tantissimi film (basti citare Sfida infernale, 1946, regia di John Ford). C’è anche, in apertura di Alba di fuoco, una scena che richiama in modo evidentissimo la sparatoria più celebre della storia del west. Un rimando questo, che ha valenza storica oltre che cinematografica: esclusivamente a questa seconda sponda si appoggia invece il riferimento a Ombre rosse (1939, sempre di Ford, ça va sans dire). Il paese in cui la vicenda parte è Lordsburg, ovvero l’ultima tappa della diligenza del film capostipite del western classico. Inoltre sulla diligenza, che era in un certo senso la vera protagonista del film fordiano, avvengono alcuni passaggi cruciali, come l’intesa tra Brett e Rannah; ma, in questo caso, il viaggio parte da Lordsburg, per andare a Socorro, ovvero a est. E proseguirà in treno (simbolo di civiltà in luogo della diligenza, simbolo del selvaggio west) verso Colorado Springs, terra salubre e ancora più a est. Nel 1954, in piena golden age del western, George Sherman ci racconta di un tipico uomo della frontiera che vuole lasciare il west e la vita di pistolero e addirittura sogna di tornarsene nella verdeggiante Carolina del Sud. Il mito del west aveva già i piedi di argilla. 





Piper Laurie




Kathleen Hughes




Mara Corday





sabato 25 settembre 2021

DRIVE

897_DRIVE ; Stati Uniti, 2011; Regia di Nicolas Winding Refn.

L’approccio con il film è una telefonata, seguita da un lavoro a tempo, 5 minuti. Proprio la precarietà temporale è uno dei temi portanti del film. Il protagonista, perfetto eroe di questi giorni (“vuoi fare l’eroe?” cit. Standard) non è mai impegnato per un tempo indeterminato: ti concede 5 minuti e poi torna a farsi i fatti propri. Non vuole responsabilità, sta semplicemente alle regole del gioco; lo ha imparato al lavoro, guarda caso, part time, lo stunt-man, dove gli fanno firmare la liberatoria un secondo prima della scena pericolosa. Tant’è che Hollywood è nel film uno dei pochi angoli di legalità della storia, dove invece tutti i personaggi maschili adulti hanno connotazioni negative. Lo stunt-man sembra però un lavoro adatto a Driver (chiamiamolo così, visto che il personaggio interpretato da Ryan Goslin rimane senza nome) perché mascherato evita di venire coinvolto in prima persona. Esattamente come nell’altro suo lavoro part time, quello da 5 minuti. Non sarà certo un caso che la svolta con Irene (Carey Mulligan) avviene in quello che è il vero lavoro di Driver, il meccanico; un lavoro, questo, fatto in prima persona, in cui ci si sporca le mani. Irene, (che in inglese ha il suffisso “ai”, “io” prima persona singolare) è anche l’unica persona (adulta) vera e positiva del film. Il gioco di parole coi nomi è probabilmente poco più che una simpatica battuta ma è una delle possibili chiavi di lettura dell’intero film. Non a caso il protagonista non viene mai chiamato per nome, riuscita metafora che dà l’idea della spersonalizzazione dell’individuo moderno. 

Il marito della donna, Standard (Oscar Isaac) è invece l’uomo-medio (standard appunto); in una società rappresentata nel film da Hollywood (cosa fa il cinema se non rappresentare la realtà?) scorretta in modo così grave con i suoi lavoratori, l’individuo tipo che ti può capitare in marito non può che essere un delinquente di mezza tacca. Nel film, chance oneste non ce n’é: Shannon (Bryan Cranston) gestisce l’officina ma porta ancora i segni dei traffici con la mala. Per poter appropriarsi di un proprio ruolo, il protagonista, dovrebbe correre in auto (driver, appunto); è un gran pilota, molto veloce. Ci va anche vicino, in effetti, ma i soldi per farlo, sono soldi che arrivano dalla criminalità. Impossibile uscirne puliti e dura anche cavarsela solo con le mani sporche, come già nell’incontro con Bernie Rose (Albert Brooks); infatti in tutta la parte finale, il nostro eroe se ne va in giro con il giubbotto lordo di sangue. Il tempo, che spesso è dilatato innaturalmente in molte sequenze, è uno dei modi in cui il regista riesce a mostrarci il disagio di vivere dei nostri giorni. Anche nella storia d’amore con Irene il tempo ha un ruolo decisivo, visto che è chiaro sin da subito che si tratta di una relazione a tempo determinato: non a caso la prima cosa che il protagonista nota nella casa di lei è la foto del marito col bambino. Una storia senza futuro ancora prima di cominciare. Nella sua desolazione, il film ha anche una luce di speranza; nella scelta di Driver di schierarsi e sacrificarsi per la salvezza di una donna (non sua) e di un figlio (non suo). Un gesto di amore supremo che cancella e redime il protagonista, rendendogli il ruolo di eroe dei nostri tempi. Stavolta, il tempo è battuto: Drive, ferito a morte (ferita all’addome = ferita mortale; forse non in medicina ma al cinema, sin dai tempi del western, è così per definizione) se ne va sulla sua macchina, in fin di vita. Quanto tempo gli rimane? Nell’incertezza, nella precarietà, per una volta, non ci sono limiti. Più che una speranza, forse è solo un'illusione, del resto siamo al cinema. Ma grazie comunque. 











Carey Mulligan

giovedì 23 settembre 2021

SULLY

896_SULLY ; Stati Uniti, 2016; Regia di Clint Eastwood.

E’, come prevedibile, un’opera molto interessante Sully, film del 2016 di Clint Eastwood. Interessante ed esplicativa. Ci svela, forse, anche il perché dell’essere sempre più classico del cinema del grande vecchio di Hollywood. Ora, questo suo filmare in modo sobrio e asciutto, prende un senso che va oltre il gusto estetico o allo stile. Perché la storia di un pilota che atterra con un aereo di linea su un fiume, sembrava fatta apposta per mettere in scena i mirabolanti effetti speciali che la settima arte offra oggi ad un regista. E che dire dell’eroismo del pilota? A prima vista, altro carburante per una possibile storia esaltante ed entusiasmante sull’Eroe Americano già ammirato in tanti film di Hollywood. Ma ad Eastwood interessa altro. Ad esempio, lo scontro di cui ci hanno parlato tanti racconti o pellicole di fantascienza. Quelli in cui le macchine, i robot, gli automi, divenuti senzienti, prendevano controllo del mondo a discapito degli umani. Bene, un po’ a sorpresa, quel tempo è arrivato. Ma non siamo in un film di fantascienza come Essi Vivono (1988, regia di John Carpenter); purtroppo no, purtroppo è la quotidiana e grigia realtà di oggi. Talmente grigia, talmente ordinaria, che per raccontarla con credibilità, occorrono freddezza e lucidità. Occorre uno stile sobrio e asciutto; classico, appunto. Perché altrimenti si finirebbe per pensare che sia tutto finto, che sia un film; ecco, magari proprio un’americanata, come si suole dire. Insomma, vi pare credibile che un computer conti più di un uomo? Figuriamoci, è credibile come un areo di linea che atterra indenne su un fiume.
Per questo il film ha questo stile e per questo si basa su una storia vera.

Infatti il mondo di oggi è davvero diviso in due, e c’è una parte migliore, come esplicitato nei titoli di coda, quella ancora umana, che conosce un mestiere, un lavoro, e lo fa con dedizione. Nel film, non solo il pilota (Chesley Sully Sullenberger, interpretato magistralmente da Tom Hanks), ma tutto l’equipaggio, i passeggeri, i soccorritori. Gente normale che, quando occorre, può tranquillamente (si fa per dire) assurgere al ruolo di eroe: working class heroe, l’eroe della classe lavoratrice. Fai il tuo dovere con coscienza e sarai un eroe. Questo ci hanno insegnato: qua Superman non serve, basta che ognuno faccia la sua parte.
Questa è la parte migliore del mondo, della nostra società. Quelli che sanno fare qualcosa e che lo fanno, nella realtà di tutti i giorni. Prendendo decisioni sulla propria pelle, facendo i conti con la propria coscienza. Il fattore umano, la famigerata X di cui alla fine deve prendere coscienza la donna membro della commissione.
La parte peggiore è invece quella che si contrappone a quella migliore: tecnocrazie e burocrazie informatizzate, che usano le macchine, i computer, per manipolare la realtà a piacimento. Inseriscono i dati negli elaboratori al proprio comodo, ostentando poi come dogmi sacri e insindacabili i risultati dei processi del calcolo informatico. Il culto dell’algoritmo ha raggiunto i vertici della società e, prima fra tutte, governa naturalmente l’economia. 


D’altra parte, se il comandante si pone come obiettivo salvare tutte le 155 vite umane imbarcate sul suo volo, i membri della commissione si interrogano sul fatto che i danni sostenuti nell’ammaraggio potevano essere risparmiati con un ritorno all’aeroporto. Chi guarda il conto delle vite umane e chi invece il danno economico: questa è la sintesi della disfida filosofica ma che riguarda la nostra vita concreta.
Sullo sfondo di questa battaglia tra la parte migliore e quella peggiore, c’è la stampa. La stampa salta da una parte all’altra, ora incensa l’eroe, ora lo mette in discussione. Ma è realmente efficace solo quando recita il suo ruolo di buffone di corte, come nella scena al David Letterman Show.
Emblematicamente, nel film, le scene più importanti, emozionanti, sono quelle che i protagonisti rivivono, nella loro mente, a occhi aperti o in sogno, oppure ascoltando le registrazioni. Comunque cose frutto di esperienza, cose concrete. All’opposto tutte le riprese video dei reportage dei media rimangono invece, clamorosamente, sullo sfondo, inefficaci, incapaci di cogliere l’essenza delle cose. Futili come chiacchere da bar, dove, nel film, efficacemente viene posta una tv che parla dell’accaduto.
Il finale del film, volendo, è anche consolatorio. Apparentemente un lieto fine, potremmo dire; ma la vittoria in tribunale porta con sé comunque i germi di un futuro tutt’altro che roseo: i 35 secondi con cui si stabilisce, a posteriori, il tempo di reazione del pilota sono solo apparentemente la chiave di salvezza per il fattore umano, che ne esce compresso in quell’esiguo tempo. Ma poi, chi stabilisce che siano 35 secondi? Qualcuno non presente in aula. Altro passaggio filmico di rara efficacia.
Alla parte migliore della società, a quelli marchiati dalla X del fattore umano, non resta che trovarsi in gruppo a raccontarsi la propria esperienza, come si vede nelle scene finali del film.
Un po’ come nei circoli degli ex-alcolisti, è vero; ma raccontarci l’un l’altro la propria esperienza, come in fondo fa il cinema, è la nostra speranza di salvezza.
Il nostro fattore umano. 





Laura Linney


Anna Gunn


Molly Hagan


martedì 21 settembre 2021

IL GIARDINO DEI FINZI CONTINI

895_IL GIARDINO DEI FINZI CONTINI; Italia, 1970; Regia di Vittorio De Sica.

Il giardino dei Finzi Contini è un film di Vittorio De Sica tratto dall’omonimo romanzo di Giorgio Bassani; il quale, dopo aver partecipato alla stesura della sceneggiatura, ritira la sua firma, non riconoscendo, nella messa in scena prevista, il suo lavoro letterario. Rimanendo così sul testo filmico, sorprende un po’ la evidente ricerca calligrafica di De Sica, palpabile sin dalle prime inquadrature. La pellicola regala immagini soffuse, ovattate, come se l’autore fosse alla ricerca di una poesia rispondente ai più canonici cliché. Anche gli attori scelti danno l’impressione di suffragare quest’idea: Lino Capolicchio nei panni di Giorgio e Domenique Sanda in quelli di Micol Finzi Contini hanno i volti rosei e puliti di innocenti ragazzetti di campagna. Forse De Sica si fa prendere un po’ la mano in quest’ottica naif, perché l’entrata in scena del gruppo di giovani in bicicletta, che ci introduce nel film, sembra quella di una recita in un teatro di periferia e non quella di una pellicola che ha vinto l’Oscar come migliore film straniero. A questi personaggi angelicamente ambigui nella loro indeterminatezza, si aggiunge un altro tipo di ambiguità, quella di Alberto Finzi Contini interpretato da Helmut Berger: la sua omosessualità e la sua salute cagionevole sono ulteriori elementi che rinforzano l’impressione di trovarci di fronte ad un mondo chiuso su sé stesso, estraniato dalle grave e prosaica realtà degli anni Trenta italiani. La presenza di Fabio Testi (nella parte di Malnate) potrebbe essere un elemento di rottura: al contrario degli altri interpreti ha una presenza scenica prorompente (ma non una corrispondete capacità recitativa) e non ha caso Micol se ne invaghisce. Purtroppo anche il Testi, attore più incline al fotoromanzo che al cinema, contribuisce a dare l’impressione di una ricerca di sentimentalismo poetico un po’ troppo a buon mercato. Forse l’idea di De Sica era creare un universo sfumato in cui i protagonisti facessero fatica, proprio per il loro vivere fuori dal mondo, a comprendere quello che gli stava accadendo. Un po’ come, all’interno del racconto filmico, i benestanti ebrei (i Finzi Contini) non arrivavano nemmeno a concepire che potessero essere deportati, dall’alto della loro condizione di agiati borghesi. In questo senso il film è funzionale, quello che non sembra tornare è la nostalgia che pervade quello sguardo verso un mondo calligrafico, di maniera, estraneo alla realtà, di cui non si riesce proprio a sentire la mancanza.







Dominique Sanda