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giovedì 31 marzo 2022

RAYA E L'ULTIMO DRAGO

995_RAYA E L'ULTIMO DRAGO (Raya and the Last Dragoon). Stati Uniti 2021;  Regia di Don Hall e Carlos Lòpez Estrada.

L’aspetto forse più interessante di Raya e l’ultimo drago, cinquantanovesimo classico d’animazione targato Disney, è che vi si superano definitivamente alcuni cliché legati al tema della principessa, da sempre uno dei cavalli da battaglia dello studio. Perché Raya, la protagonista del film, ha tutto per essere la tipica principessa Disney: ne ha l’aspetto e l’indole, oltre ad esserlo di fatto in qualità di figlia di Benja, sovrano di Cuore, una delle cinque fazioni in cui si è a suo tempo diviso il regno di Kumandra.  Questo reame di fantasia era un idilliaco paese nel quale vivevano in pace e prosperità uomini e draghi; la situazione era radicalmente cambiata in peggio con l’arrivo dei maligni Drunn, che avevano trasformato in pietra i draghi nella battaglia per la salvezza del regno. Sisu, l’ultimo drago del titolo, era riuscita a salvare gli umani di Kumandra e a scacciare i Drunn, grazie al potere della gemma drago. Ora la gemma drago era custodita da Cuore, una delle fazioni in cui si era divisa Kumandra; la cosa non era stata ben accettata da Coda, Artiglio, Dorso e Zanna, ovvero le altre comunità che avevano anch’esse nomi ispirati a parti di quel drago che le rappresentava tutte. Per sanare questi dissidi e tornare ai tempi di Kumandra, Benja organizza una festa a cui sono invitati tutti i rappresentanti delle cinque tribù. Raya, in qualità di erede al trono di Cuore, è istruita al futuro compito di custodire la gemma drago; alla festa fa amicizia con la coetanea Namaari, a sua volta figlia della sovrana di Zanna. 

Imprudentemente, la nostra protagonista si fida della ragazza appena conosciuta rivelando la posizione della gemma drago: Namaari cerca di appropriarsi del magico gioiello, convinta come tutti che da esso derivi la prosperità di Cuore e dal clamoroso parapiglia che ne esce ecco che ci troviamo in una situazione completamente diversa. Ora la gemma è stata frantumata in cinque pezzi, raccolti uno ciascuno dai rappresentanti delle varie fazioni e, cosa ben peggiore, i Drunn si sono risvegliati trasformando a destra e a manca la gente in pietra; tra questi Benja. Raya decide di fare ammenda per il guaio scatenato mettendosi alla ricerca di Sisu, l’ultimo drago della leggenda; una volta trovata, è la volta dei quattro frammenti di gemma che le mancano per ricomporla. 

Alla fine, recuperato tre dei quattro pezzi mancanti, si troverà ovviamente a tu per tu con Namaari, per disputarsi la possibilità di ricomporre la gemma drago. Sisu, che si rivela personaggio divertente ed interessante, sembra avere un’indole meno diffidente degli umani e consiglia Raya di fidarsi dell’avversaria, nonostante questa, a suo tempo, l’avesse tradita. Il risentimento tra le ragazze è acceso e un po’ la doppiezza di Namaari, un po’ la scarsa fiducia di Raya, la situazione precipita e tutto sembra compromesso. Sarà invece un moto di fiducia immotivato e assolutamente privo di favorevoli premesse, quindi di una vera prova di fiducia, a risolvere positivamente la questione. 

Questo aspetto è molto interessante e importante e, all’interno di una storia sostanzialmente di pura avventura, la eleva al solito livello qualitativo dei recenti film targati Disney. E’ abitudine diffusa, infatti, equivocare sul concetto di fiducia perché si tende a concederla a chi ne è degno; ma allora non è tanto fede quanto semplice costatazione di affidabilità. La vera fiducia si dimostra solo quando le condizioni e le circostanze appaiono totalmente avverse alla sola idea di credere in qualcuno, proprio come decide di fare Raya ascoltando i saggi insegnamenti di Sisu. La fiducia nell’altro, prima di ogni altra cosa, è la molla che tutti dobbiamo armare, solo così si possono superare i problemi e le incomprensioni. Temi classici, ma più che mai attuali, e non così scontati in una storia d’azione; questo si può dire in generale.

Nello specifico, ovvero considerando Raya e l’ultimo drago come nuovo esempio del filone avventuroso dei classici d’animazione Disney, c’è un ulteriore elemento di novità. Il film in questione è d’avventura (il filone maschile tra i classici, per capirci) ma la protagonista è una principessa (tipica protagonista della corrente femminile) che come obiettivo ha quello di salvare il suo mondo e non quello di accasarsi (nel film non c’è traccia di principi azzurri). Ennesimo passo avanti in questa evoluzione della figura femminile da parte dello studio di Burbank, come sempre convincente in questo suo aggiornare le proprie coordinate per stare sempre in anticipo sui tempi. Sarebbe anche tutto ma non si può tacere sullo spettacolare impatto grafico: strepitosi, al solito, i titoli di testa, con una grafica meno estrema ma eccellente nel suo evocare la vecchia scuola tradizionale dell’animazione. Del resto la CGI in chiave più sfrontata si prende poi l’adeguato spazio nel racconto con una resa sullo schermo davvero senza pari. Un capolavoro Disney si riconosce anche dalla sua proverbiale messa in scena.   





Raya 


Namaari

martedì 29 marzo 2022

ZOOTROPOLIS

994_ZOOTROPOLIS (Zootopia). Stati Uniti 2016;  Regia di Byron Howard e Rich Moore.

Acclamato da critica e pubblico, Zootropolis, cinquantacinquesimo Classico Disney, è effettivamente un vero capolavoro. La cura maniacale, l’estrema bravura, la competenza professionale, e chi più ne ha più ne metta, dello studio di Burbank è arcinota e capita di sovente di parlare di opere di alto livello, quando ci si accosta ai prodotti di animazione targati Disney. Tuttavia Zootropolis è talmente interessante che si potrebbe dire che sia un’eccezione in un mondo di eccezioni. Intanto, perché alla Disney consacrano la tendenza metalinguistica che spopola al cinema e che, evidentemente, hanno finito per sposare. Non è cosa da poco, nell’ambito della politica produttiva della casa di Topolino perché se storicamente si poteva dire che erano fiabe e favole ad ispirare i classici d’animazione, ancorando la filosofia dello studio alla tradizione centenaria della storia dell’umanità, ora si confermava quel trend già diffuso in altri lidi per cui il cinema, di cui l’animazione altro non è che una branchia, sembra bastare a sé stesso. Questa presa di coscienza era già arrivata a contagiare la Disney ma si concretizza forse in modo ancora più esplicito grazie a Zootropolis. Le citazioni e i rimandi filmici sono tantissimi, da Il Padrino a Breaking Bad, ma quello che stupisce è che il racconto decida di rispettare i codici del genere a cui si ascrive in modo sorprendentemente profondo e coerente. Quasi che questi siano più importanti del messaggio; il che, in un film formalmente per ragazzi, è quasi spiazzante. Tuttavia l’abilità degli autori, Byron Howard e Rich Moore, coadiuvati da Jared Bush, è tale che la funzione educativa dell’opera è tutt’altro che sacrificata, anzi; quello che si evince è che fare cinema istruttivo (cinema per imparare in modo più esplicito di quanto non lo sia sempre) non serva rivolgersi altrove ma si trovi in abbondanza tutto ciò di cui si ha bisogno all’interno della settima arte. E’ chiaro sin da subito che il film si inserisca nel genere crime movie; ci sono anche rimandi noir, ad esempio la cantante Gazelle (a cui presta la voce Shakira), dal ciuffo biondo stile Veronica Lake, o i giochi di luce e ombre ma tutto sommato questa deriva non è così approfondita. 

La differenza può sembrare sottile ma il noir, che cristallizzò i suoi stilemi negli anni 40, ha peculiarità molto precise, e forse un tantino troppo adulte (si pensi, per restare nel campo dell’animazione, a Jessica Rabbit), mentre per crime movie si intende un concetto più lasco (includendo lo stesso noir, per capirci). Storicamente, il cinema americano dedicato al crimine ha quasi sempre come sfondo la città metropolitana: come a dire che, nonostante il progresso e l’evoluzione, era proprio nei centri vitali della civiltà che si accentuavano le situazioni deviate. Zootopia, questo il vero appellativo della città al centro della vicenda (oltre che titolo originale del film), ci dà un indirizzo programmatico sin dal nome: una sorta di zoo utopistico, dove qualunque animale può essere quello che vuole e non essere costretto al ruolo che la natura gli ha imposto. Un vero e proprio Sogno Americano in versione per animali. L’utilizzo degli animali, da sempre nella narrativa, è utile per rendere maggiormente accessibile una storia al pubblico infantile, che prova naturale e istintiva empatia con queste creature. 

Ma Zootropolis ha anche un’ambientazione tipicamente cinematografica che ci dice, attraverso gli spettacolari scenari, che il cinema è ormai talmente importante, all’interno della storia dell’Umanità, che, per raccontare qualcosa, oggi è il riferimento migliore. Attenzione, non si tratta solo di illustrare una storia prendendo a modello il cinema, cosa nella quale i citati paesaggi in Computer Grafica di Zootropolis addirittura si superano, ma di impostare la struttura stessa del film nel suo profondo seguendo i codici cinematografici. Che non siamo propriamente in un classico film alla Disney, lo apprendiamo dalle parole del capitano di polizia Bogo, che dice esplicitamente alla coniglietta Judy, la protagonista della nostra storia, che non ci si trova in una di quelle storie in cui la principessa canta e i suoi sogni diventano realtà. Piuttosto, la vicenda è ricalcata, al di là dei tantissimi rimandi cinematografici sparsi a piene mani, sulla base de Il silenzio degli innocenti (1991, di Jonathan Demme), roba da far tremare i polsi. Ma, d’altra parte, se diciamo che abbiamo una protagonista, giovane, di sesso femminile, (e che in Zootropolis si chiama Judy, nome che riecheggia quello di Jodie Forster, l’attrice del film di Demme), che è un agente delle forze dell’ordine alle primissime armi, coinvolta in un’indagine in cui si deve combattere una violenza tanto aggressiva da divenire cannibale, abbiamo una descrizione che calza per entrambi gli esempi. 

Oltretutto, gli ovini, citati nel film di Demme (The silence of the lamb, questo il titolo originale) hanno un ruolo cruciale anche in Zootropolis, sebbene ribaltato (è pur sempre una sorta di parodia). Come detto Zootropolis è un film che trasuda cinema sin dalla sua architettura narrativa. La struttura circolare di molte storie poliziesche evidenzia simbolicamente da una parte l’impossibilità o la difficoltà (a seconda della prospettiva del racconto) ad uscire dai propri percorsi prestabiliti, dall’altra la necessità di un duro lavoro di ricerca, finendo per girare spesso in tondo allo snodo cruciale (attività per cui, ironicamente, si diceva che ai poliziotti venissero i piedi piatti). Questa struttura è pienamente rispettata dal film, tanto che la scena clou è anticipata dalla recita iniziale con un raffinatissimo multiplo gioco metalinguistico. Ma gli autori ci scherzano anche su, quando il capitano Bogo, in conclusione di tutto, finge di rimandare a dirigere il traffico la protagonista, come aveva fatto già fatto nelle fasi iniziali. 

Ma il rude capo della polizia sta solo scherzando perché la nostra coniglietta si è fatta valere risolvendo il caso e quindi non merita più di andare a fare le multe. In ogni caso abbiamo l’impressione di vedere e rivedere le stesse scene, come se si stesse appunto girando in tondo. Inoltre, il passaggio chiave che risolve la trama è un vero e proprio cliché del cinema giallo ed è oltretutto un’altra ripetizione, che rafforza la circolarità della struttura narrativa. La penna registratore a forma di carota era servita a Judy per costringere la volpe Nick, imbroglione da quattro soldi, a collaborare fornendole indicazioni e aiuto concreto. Sempre con questo stratagemma, in sostanza registrare di nascosto una sorta confessione, l’improvvisata coppia di protagonisti riesce ad incastrare il vero cattivo della storia, la pecora Bellwether, in un primo momento assistente del sindaco di Zootropolis e poi sindaco lei stessa in prima persona. Nel passaggio cruciale, quando Nick sembra essere stato colpito dal siero che risveglia gli istinti animaleschi dei predatori, la vita di Judy appare in pericolo. Ovviamente si tratta solo di capire quale sarà la soluzione narrativa che gli autori sceglieranno di adottare, non potendo certo morire una protagonista di un film per ragazzi come è pur sempre un classico Disney. Ad esempio si sarebbe potuto mostrare come Nick, il personaggio che nella storia compie l’evoluzione positiva dalla più ampia portata, fosse in grado di resistere all’influenza del filtro. 

Un modo per dimostrare come la forza di volontà possa essere superiore a qualsiasi causa perturbante; una soluzione in chiave etica, in un certo senso, che avrebbe fatto appello alla forza morale del personaggio. Gli autori di Zootropolis scelgono invece un profilo più basso, per risolvere il passaggio cruciale, ovvero il ricorso ad un banale espediente dei film gialli. Da un certo punto di vista, si sottolinea l’importanza del cinema (la soluzione è nei suoi codici), dall’altra si evidenzia, anche nel momento della vittoria, la vulnerabilità dell’individuo al cospetto delle insidie della metropoli (dal momento che ha bisogno di un trucco per cavarsela). Scelte mature e di natura pratica, forse poco poetiche nel senso classico del termine, specialmente se prendiamo la tradizione Disney. 

E stupisce anche il pragmatismo con cui gli autori evitano i tantissimi rischi di scivolare nel melenso politicamente corretto di stampo odierno, che una storia che affronta il tema del melting pot, per usare un’efficace definizione in voga anni fa, pone ad ogni risvolto. In fondo le parole di Judy ai giornalisti non sono necessariamente sbagliate, qualcosa nel loro DNA i predatori ce l’avranno anche, per avere quella determinata indole in natura. Divengono semplicemente inopportune se dette ai microfoni di una sala stampa, a corredo di un’indagine in cui alcuni predatori sono stati vittima di un siero che ne ha scatenato l’aggressività. Questo modo di ragionare per preconcetti, di cui perfino Judy è vittima e di cui si scusa in seguito con Nick, trova terreno fertilissimo nell’odierna società, dove ci scontriamo quotidianamente con persone di usi, costumi, idee, abitudini, attitudini, e tante alte cose diverse dalle nostre per cultura e tradizione e viene anche spontaneo non valutare chi ci sta di fronte per quello che è ma di partire già con un’idea precostituita. E contestare questo modo di pensare, il corsivo è d’obbligo perché di fatto si prende una posizione senza alcuna considerazione attinente, è la forma poetica molto concreta che permea Zootropolis. Tanta roba. 




Judy Hopps


Gazelle 

domenica 27 marzo 2022

IL RITORNO DELLO ZAR: L'ORA DELLA FINE

Quando la città dorme presenta:

IL RITORNO DELLO ZAR

UCRAINA-RUSSIA-CINEMA

L'ORA DELLA FINE!

Da aprile. Il programma.  

14 aprile 1_MAIDAN

Documentario del 2014. I fatti di Euromaidan secondo Serhij Loznitsa

#1 MAIDAN - LA STUDENTESSA E L'ORSO

 

 2_INVERNO DI FUOCO: LA LOTTA DELLA LIBERTA’ PER L’UCRAINA

Documentario del 2015. La versione delle proteste di Maidan dalla piattaforma Netflix.

#2 WINTER ON FIRE: UKRAINE'S FIGHT FOR FREEDOM - L'UCRAINA NATA DA EUROMAIDAN

3_ KRYM: PUT NA RODINU (CRIMEA: LA VIA DELLA PATRIA)

Documentario del 2015. L’annessione della Crimea alla Russia vista dal Cremlino in un testo in odore di propaganda.  

 

4_KRYM (CRIMEA)

Dramma sentimentale russo del 2017. Una storia d’amore si infrange sul corso della Storia.  

 

5_CRIMEA: AS IT WAS (CRIMEA: COM’ERA)

Documentario del 2016. Il collettivo ucraino Babylon’ 13 era presente con telecamere e microfoni ai tempi dell’annessione.

 

6_U311 CHERKASY

Film di guerra del 2019. Un racconto bellico ambientato su una nave ucraina quando in  Crimea arrivarono le truppe anonime russe.

 

7_POSTCARDS FROM UKRAINE (CARTOLINE DALL’UCRAINA)

Documentario del 2016. Sieva Diamantakos si spinge fino nel Donbass per mostrarci gli inizi della crisi nell’est Ucraina.

 

8_UCRAINA IN FIAMME (2016)

Documentario del 2016. Il regista Oliver Stone all’opera tra complottismo e verità scomode.

 

9_BREAKING POINT: THE WAR FOR DEMOCRACY IN UKRAINE (PUNTO DI ROTTURA: LA GUERRA PER LA DEMOCRAZIA IN UCRAINA)

Documentario del 2017. Testo che ha il sapore di mera propaganda occidentale.

 

10_THE UKRAINIANS (GLI UCRAINI)

Documentario del 2015. Celebrazione delle gesta dei volontari ucraini in guerra.

 

11_ILOVAISK 2014 - BATALYON DONBAS (ILOVAISK 2014- BATTAGLIONE DONBASS)

Film di guerra del 2019. La battaglia della Caldaia di Ilovaisk, in un racconto bellico non indimenticabile visto dalla prospettiva ucraina.  

 

12_CYBORGS: HEROES NEVER DIE

Film di guerra del 2017. Le gesta degli eroi ucraini che difesero l’aeroporto di Donetsk.

 

13_THE WAR OF CHIMERAS

Documentario del 2017. La difficoltà di comprendere l’assurdità della guerra di una giovane coppia ucraina.

 

14_FROST

Film drammatico del 2017. Un lungometraggio lituano che coglie pienamente lo stato di apatia contemporaneo. Fino all’inevitabile conseguenza.

 

15_DONBASS (2018)

Dramma (o commedia nera?) del 2018. Il regista ucraino Sergei Loznitsa ci racconta senza sconti la tragedia del Donbass.

 

16_CALL SIGN BANDERAS

Film di guerra del 2018. Interessante opera di finzione ucraina con la giusta dose storica e il legittimo grado di partigianeria.  

 

17_REVELAING UKRAINE (RIVELANDO L’UCRAINA)

Documentario del 2019. Oliver Stone torna alla carica sulla questione Ucraina, con altre notizie fuori dal coro occidentale.

 

18_KYIV WAR TRAIN (TRENO KIEV-GUERRA)

 Documentario del 2020. Testo quasi amatoriale per saggiare le opinioni comuni dei viaggiatori che fanno la spola tra Kiev e il Donbass.

 

19_THE EARTH IS BLUE AS AN ORANGE (LA TERRA E’ BLU COME UN’ARANCIA)

Documentario del 2020. Pluripremiata opera metalinguistica di Irina Tsilyk, ci pone più dubbi di quanti pensavamo di riuscire a trovare.

 

20_BAD ROADS (CATTIVE STRADE)

Dramma del 2021. Non è un paese per vecchi, il Donbass. E nemmeno per giovani. Eccellente film di Natalya Vorozhbyt.

 

21_WAR NOTE (NOTE DI GUERRA)

Documentario del 2021. Scene dal fronte ucraino riprese senza curare la forma. A meno che l’effetto mal di testa dello spettatore sia voluto.

 

22_RIFLESSIONE

Dramma del 2021. Nuova prestigiosa opera del regista ucraino Valentyn Vasyanovych, autore di rango assoluto.

 

23_HOMEWARD (VERSO CASA)

Dramma del 2019. Un’intensa storia che vede al centro del racconto un tataro di Crimea.

 

24_NESSUN SEGNO MANIFESTO

Documentario del 2018. Alina Gorla segue il tentativo del maggiore ucraino Oksana Yakubova di superare gli orrori della guerra.

 

25_ATLANTIS

Film di fantascienza del 2018. Capolavoro di Valentyn Vasyanovych. Il futuro post-apocalittico è ora.


A corredo 

CRONACHE DALL'EST. 
Gli approfondimenti dello storico Antonio Gatti.


(L'elenco delle recensioni è ancora in fase di rifinitura. Potrebbero esserci variazioni.)


POCAHONTAS

993_POCAHONTAS . Stati Uniti 1995;  Regia di Mike Gabriel e Eric Goldberg.

Considerato erroneamente il punto di rottura del cosiddetto Rinascimento Disney (il fortunato periodo inaugurato da La Sirenetta che riportò negli anni 90 lo studio ai vertici artistici), Pocahontas è in realtà un assoluto capolavoro e forse proprio la vetta di questo clamoroso moto qualitativo. La forza dirompente di Pocahontas è intrinseca al soggetto e questo è un fatto che vale doppio, essendo sostanzialmente il primo classico disneyano ispirato ad un fatto reale. E che fatto: si parla di Storia con la S maiuscola. Per la verità, almeno in prima istanza quello preso a pretesto sembrerebbe un episodio rilevante soprattutto per gli americani e, del resto, la Disney è americana e ha da sempre incarnato lo spirito del paese. Ma, in realtà, in un certo ambito l’America rappresenta storicamente il mondo perché è lì che più che in qualunque altro posto gli invasori europei (che si sono sostanzialmente cacciati ovunque, il che rende appunto universale questo discorso) hanno dovuto, volenti o nolenti, rendersi conto di quanto avevano combinato nel corso della Storia. La vicenda di Pocahontas è poca roba, nell’arco della Storia dell’Umanità, è ovvio, e oltretutto il film Disney la sintetizza alla bisogna di un film per ragazzi. Ma nella sua semplicità è di una potenza devastante: una semplice ragazza si oppone alla legge della civilizzazione e del progresso, i nomi che sono stati ipocritamente dati alla conquista, e il suo discorso non fa una grinza perché la verità, nel caso specifico come in tutti gli altri esempi del genere, è assai semplice. La violenza e la sopraffazione, sotto qualunque forma, sono sbagliate. 

Nel caso in questione non si tratta di fare un’apologia dei nativi americani che, in modo del tutto onesto, sono mostrati con sguardo nel complesso maturo: hanno certamente dei pregi, nel loro vivere in equilibrio con la natura, ma la vicenda comincia con i Powhathan che rientrano da una missione di guerra contro una tribù rivale, tanto per dire. E se il Capo Powhathan è saggio e paterno, Kocoum, il valoro guerriero che chiede in sposa sua figlia Pocahontas, si lascia facilmente dominare dalla gelosia. Ma va detto che è un sentimento umanamente condivisibile vedendo una sventola come quella che lui ormai crede sia la sua promessa sposa flirtare con un altro. Insomma, gli indiani americani sono visti come uomini, né più né meno. E lo stesso, pur con qualche distinguo, si può fare per gli inglesi: John Smith ha qualche ingenuo pregiudizio ma tutto sommato si rende velocemente conto dell’errore, così come i componenti della ciurma. Ecco, tra gli inglesi (che rappresentano gli europei e, più in generale, il nostro sistema di vita) è da rilevare la figura del Governatore Radcliffe. 

Si è letto, tra le cause della scarsa considerazione che gode il film Pocahontas presso la critica, che a questo classico disneyano manchi un cattivo di spessore. Il che è vero se prendiamo Radcliffe come esempio in sé e per sé: ma il governatore incarna le derive più insane della nostra civiltà, alcune delle quali sono perfino alla base del Sogno Americano, che la Disney ha spesso celebrato. L’ambizione, l’arrivismo, la bramosia, la meschinità, sono tutte componenti che spesso hanno accompagnato la scalata al vertice (sociale, economico, politico, artistico, ecc.) di molti personaggi poi celebrati dalla nostra società come vincenti. Ecco, Radcliffe rende manifeste, in quanto cattivo da quattro soldi, queste tendenze che sono però diffuse e distribuite, probabilmente in diverse dosi, tra tutta quanta l’umanità. Certamente anche tra gli indiani, tanto per restare alla storia in questione, sia chiaro, e l’esempio della gelosia di Kocoum è lì a dimostrarcelo. Il punto su cui riflettere è come è possibile che la nostra civiltà abbia finito per produrre come suo tratto distintivo il privilegio anziché la meritocrazia e la gestione responsabile del potere, una comparazione che si può fare tra il governatore Radcliffe e Capo Powhathan ma che i politici di oggi alimentano quotidianamente se comparati con i grandi del passato. 

Questi aspetti costituiscono le coordinate intrinseche del racconto che poi è sviluppato in modo scarno ed essenziale, aiutato in questo da una eccellente stilizzazione della grafica. E se è vero che la storia raccontata è molto romantica lo è appunto in modo estremo, quasi simbolico, del resto la stilizzazione rende perfino astratto il paesaggio in cui si muovono i personaggi; tuttavia le scenografie sono magnifiche come tradizione Disney impone. Pocahontas è una principessa strepitosa, la cui bellezza originale riesce a coniugare il suo essere profondamente nobile e, allo stesso tempo, selvaggia. Termine da prendere nella sua accezione più autentica, ovvero come proveniente dalla selva, dalla natura; quindi qualcosa a cui tutti, in definitiva, apparteniamo. 

La differenza è che Pocahontas e i nativi americani in generale, ne sono parte in modo puro e non ancora corrotto dalle citate correnti che percorrono la nostra civiltà. Lo specchio di questo discorso è reso manifesto dagli spassosi duetti tra Meeko, il simpatico procione, vero e proprio mariuolo, e Perlin, il sofisticato cane di razza carlino di Radcliffe. La storia d’amore è veloce, si è detto della stilizzazione del racconto in tutti i sui aspetti, ma dirompente e al pubblico, considerato che si tratta di un classico Disney, è risparmiato il finale tragico che è, per la verità, in precedenza apparecchiato alla perfezione. La scelta di non far morire John Smith, oltre che rispettare almeno grosso modo le direttive sommarie degli avvenimenti storici (Smith venne effettivamente rimpatriato in Europa in seguito ad una ferita), ha però una duplice funzione narrativa. Se è vero che il racconto non finisce in tragedia è anche vero che il pathos accumulato dalle concitate scene conclusive rimane sul momento inevaso non liberando lo spettatore dall’emozione in modo improvviso. Abitualmente, nei finali melodrammatici, la tensione è fatta sgorgare copiosa da un colpo di scena spesso tragico: il pubblico piange e si dispera ma, passato il momento, risulta appagato dall’emozione provata. Non in Pocahontas: accompagnando la ragazza sul promontorio, al cospetto della vastità della natura americana e osservando il veliero che riporta John Smith in Europa, le emozioni si diluiscono ma non si esauriscono del tutto. Non è un finale tragico, in fondo John non muore, ma neppure lieto, visto che i due giovani amanti sono costretti alla separazione. Pocahontas vorrebbe seguire John, ma sa che il suo posto è (almeno per il momento) tra la sua gente. Ecco, in questa capacità di reggere questa sospensione emotiva, che è la prova più ardua a cui ci costringe una vita in cui tutto è provvisorio, c’è la grandezza di Pocahontas, l’ennesimo capolavoro Disney.       











Pocahontas 



venerdì 25 marzo 2022

I PREDONI DEL KANSAS

992_I PREDONI DEL KANSAS (Kansas Raiders). Stati Uniti 1950;  Regia di Ray Enright.

Con Il ranch delle tre campane il regista Ray Enright aveva solo in parte affrontato il tema della Guerra Civile Americana; considerato l’importanza dell’evento bellico nella storia del paese, non si poteva certo dire in modo esaustivo. Il western, il genere storico americano, si apprestava a diventarne l’epica ma, negli anni quaranta aveva cercato di risolvere, ovviamente coi propri mezzi e coi propri limiti, i contrasti che ancora infiammavano la memoria degli statunitensi dividendo il paese. Fu forse per questo, per incarnare questi sentimenti, che il western romantico celebrò troppo spesso la figura dei fuorilegge del west, raccontandoli con meriti che andavano oltre le eventuali attenuanti che questi banditi potessero avere per la condotta criminale tenuta. A bilanciare questi intenti, anche solo perpetrati per sfruttare il fascino che la figura di questi banditi esercitava su larga parte della popolazione, Ray Enright tornò a più riprese sull’argomento, andando a definire meglio i ruoli e le responsabilità che questi protagonisti storici avevano avuto. I predoni del Kansas chiarisce sin dal titolo che quelli di Quantrill furono volgari banditi e il narrato del film stesso non potrebbe essere più esplicito in materia. Enright, peraltro, è autore che conosce bene il cinema di genere e, quindi, non parte a testa bassa con una filippica moralistica contro gli scorridori che insanguinarono il Kansas. A protagonista del suo film chiama infatti Jesse James, il noto fuorilegge, interpretato da un giovanissimo Audie Murphy. E, a suo fianco, il fratello Frank (Richard Long), i fratelli Younger, Cole (James Best) e James (Dewey Martin) e, per chiudere in bellezza, Kit Dalton (un Tony Curtis d’inizio carriera). 

In pratica un gruppo composto dai quattro futuri membri della banda James e un ipotetico Dalton scelto in rappresentanza dei famosi fratelli fuorilegge. Il film racconta della loro adesione, dopo che avevano visto le loro terre saccheggiate dai redlegs, i guerriglieri irregolari nordisti, nelle fila dei Predoni del Kansas, le milizie di William Quantrill (Brian Donlevy). Enright fonda il suo racconto sui dubbi che assalgono Jesse James quando questi scopre che gli uomini di Quantrill non sono diversi dai redlegs: il regista si concede più di una licenza poetica, ma il succo del discorso appare abbastanza chiaro. La guerra aveva lacerato il paese ma l’operato degli irregolari non fu una conseguenza della dilagante violenza quanto piuttosto una delle principali cause. Tra le citate licenze poetiche c’è quella della fine di Quantrill a cui Enright concede una morte cavallerescamente eroica: ma che non sminuisce la gravità delle sue malefatte. 

Non è però la sola inesattezza: nel descrivere la sanguinosa scorreria nota come il massacro di Lawrence (fatto storico del 21 agosto 1863) non viene dato il risalto adeguato ai tantissimi civili inermi uccisi deliberatamente mentre è del tutto inventato il conto che Jesse salda a Bloody Bill Anderson (Scott Brady), in quanto il braccio destro di Quantrill fu eliminato dai nordisti solo l’anno successivo. Al di là di questi dettagli, in fondo siamo in un western e non in un documentario, Enright cerca di non sconfessare troppo i cliché del genere andando però a puntualizzare meglio la situazione generale. Purtroppo, per lo spettacolo, questa attenzione a dare la giusta prospettiva di questi eventi va a discapito di una delle caratteristiche tipiche dei western degli anni quaranta di cui il regista americano era particolarmente incline, quella romantica. C’è anche qui una presenza femminile importante, Kate (Marguerite Chapman), ma la storia imbastita, con i tanti passaggi obbligati, non offre la sponda a Enright per svilupparla nel modo a lui consono. E forse solo per questo che dobbiamo ricordare I predoni del Kansas come un film prezioso, tutto sommato come testimonianza dello scrupolo del suo autore, ma inferiore a Frontiere selvagge (1947), Gli avvoltoi (1948) o Il ranch delle tre campane (1949), opere simili di Enright dove i ruoli femminili davano un sapore del tutto particolare al genere western.      








Marguerite Chapam