Translate

venerdì 31 marzo 2023

TUTTO TOTO' - IL TUTTOFARE

1249_TUTTO TOTO' - IL TUTTOFARE Italia, 1967; Regia di Daniele D'Anza.

Il secondo episodio della serie Tutto Totò conferma l’impressione positiva dell’esordio, seppure non è che ci sia da spellarsi le mani per gli applausi. Come noto, ai tempi, il Principe della Risata era ormai tristemente vicino al capolinea, tuttavia non si risparmiò pur se una certa fatica è avvertibile nelle sue pur apprezzabili performance. D’Anza in regia è molto professionale e asseconda la verve del comico napoletano e la sua capacità di dare ritmo alla narrazione si percepisce anche in questo caso. L’idea di fondo di questa serie di film televisivi era quella di rispolverare non solo le celebri gag cinematografiche di Totò ma anche quelle dei tempi dell’avanspettacolo o del varietà. Il tuttofare si apre con una classica scenetta in cui l’attore napoletano si guadagna l’appellativo che dà il titolo al film: siamo in un Ufficio di Collocamento e Totò risponde praticamente a qualsiasi tipo di richiesta d’impiego. Gli equivoci dialettici a cui sono sottoposti i due impiegati tengono banco finché la scena si trasferisce nel salone di bellezza di Camillo (Mario Castellani). Qui Totò ripresenta lo sketch Parrucchiere per Signora che risale ai tempi dello Spettacolo di Rivista Bada che ti mangio! Quello di Camillo non è però un semplice parrucchiere ma, come detto, un autentico centro estetico per clientela facoltosa. Il nostro protagonista si chiama Rosario Di Gennaro e vorrebbe adeguarsi all’ambiente facendosi chiamare Rio de Janeiro ma Camillo gli affibbia Lallo come assai meno evocativo nome d’arte. La simpatia di Totò è sempre la stessa e, nonostante la verve un po’ logora, è davvero difficile non ridere quando Lallo combina i suoi pasticci a danno delle clienti del negozio. Tra le quali val la pena ricordare la contessa Giuly interpretata dalla sensuale Gisella Sofio, un’attrice adattissima alla parte dell’affascinante e aristocratica nobildonna. 
In definitiva niente di trascendentale ma un film divertente questo sì.  


Gisella Soffio 


Altra copertina 

giovedì 30 marzo 2023

ARIZONA

1248_ARIZONA Stati Uniti 1940. Regia di Wesley Ruggles.

Sul finire degli anni Trenata la Columbia Pictures mise in cantiere una sorta di serie di film che avessero come argomento i grandi Stati degli USA: un modo consapevole per celebrare l’ascesa della nazione attraverso il cinema. Il primo film vide la luce dei proiettori nel 1940 e fu Arizona per la regia di Wesley Ruggles: si trattò giustamente di un western, genere che di lì a qualche anno avrebbe assunto in modo esplicito la funzione epica per il popolo statunitense. Era anche ovvio che il tema riguardasse un paese del sudovest, in quanto era con la conquista del west che la nazione poté finalmente dirsi realizzata in pieno. Il western era quindi il genere scelto in modo inevitabile; al tempo i film dei cowboy vertevano perlopiù sulle gesta dei fuorilegge e questa sponda violenta era bilanciata da un’importante deriva romantica. Ruggles, per celebrare la nascita dell’Arizona, non sconfessò del tutto i cliché imperanti, in quanto il protagonista principale, con il nome bene in vista sui cartelloni e sui titoli di testa, era una donna, Jean Arthur. Ma il romanticismo tipico dei western del periodo, che pure affiora melenso in più di una circostanza, non è il tema principale, anche perché la Arthur (è Phoebe Titus) non era una ragazza – di quarant’anni – propriamente avvenente. Nel film recita un po’ a fare il maschiaccio cosa che, ad onor del vero, le riesce anche meglio delle scene in cui si mette in ghingheri per il suo spasimante, un giovanissimo William Holden (nel ruolo di Peter). L’idea alla base del film è che lo stato dell’Arizona possa dirsi finalmente nato quando la prima donna americana – bianca, beninteso; messicane e native non contano – si fosse sposata, avesse insomma ‘messo su’ famiglia. 

Sul finire del racconto il matrimonio è finalmente celebrato anche se il momento decisivo del film è ancora in sospeso: sarà, come da protocollo western, il duello a pistolettate tra il protagonista e il cattivone di turno. Ruggles, fedele al suo intendimento di mettere la donna al centro del progetto Arizona, tiene la camera sul volto della Arthur, carina con l’abito da sposa, mentre si odono i colpi di pistola del duello. Naturalmente il buono vince, non che ci fossero dubbi in proposito. Il film, in sostanza, non è questo granché, penalizzato dallo scarso appeal dei protagonisti: della Arthur si è detto; Holden, al tempo aitante ventiduenne, ne sembra il figlio, sia per l’età che per la riverenza che nutre per la donna che ama. Belli invece i dettagli paesaggisti, con Old Tucson – un sito realizzato per ambientare i western usato in seguito anche per altri film – che fa una notevole impressione. Tra i personaggi va citato almeno Mano (Frank Hill) il capo degli Apache bellicosi mentre tra gli abitanti di Tucson si possono ricordare il citato villain principale – ovvero Carteret (Warren Willian) – il cattivo da commedia – è Lazarus (Porter Hall) – e la domestica di Phoebe – è Teresa (Nina Campana). L’ultimo rilievo è per il presumibile rigore storico con i passaggi di mano tra Unione e Confederati durante la Guerra Civile: lodevole l’intenzione ma non troppo gratificante l’apporto alla riuscita del film. Che è un po’ la cifra complessiva di Arizona.  

 
Jean Arthur 



 Galleria di manifesti 






martedì 28 marzo 2023

LA TERRA

1247_LA TERRA (الأرض , Al-Ard)Egitto 1969. Regia di Youssef Chahine. 

Tratto da un romanzo di Abdel Rahman al-Sharqawi, La terra di Youssef Chahine è un film che non riesce a raggiungere l’epicità promessa. Intendiamoci, il testo è ben strutturato, Chahine in regia sa il fatto suo e anche gli interpreti si disimpegnano bene. Ma il tema storico che viene messo in campo, il tormentato rapporto tra la terra egiziana e i suoi lavoratori, i contadini delle aree rurali, meriterebbe probabilmente un livello maggiore di epicità. I personaggi, anche il saggio Muhammad Abu Swelim (Mahmoud Al Meleji), forse il più carismatico del folto gruppo che si alterna sullo schermo, manca delle stigmate dell’eroe, una figura che un testo impostato come è La terra sembrerebbe richiedere. Il tentativo, almeno a livello schematico, c’è, in questo senso: sono sue le mani insanguinate che, nel finale, stringono la terra mentre il suo corpo straziato è trascinato dalla polizia a cavallo, versione più autoritaria della meno efficiente polizia a cammello vista in precedenza. La scena dà corpo visivo alla canzone che accompagna spesso il racconto, nella quale i contadini sono pronti a dare il proprio sangue per irrigare la terra e combattere così, metaforicamente, la siccità e chi la governa gestendo i tempi e i modi dell’irrigazione tramite i canali. Allo stesso tempo la tragica immagine riprende quella iniziale, dove lo stesso Abu Swelim accarezzava la terra e accudiva delicatamente una pianta di cotone. La ripetizione della scena non cristallizza quindi uno stato di immobilismo, come spesso succede al cinema, quanto un destino tragico e fatale. La scena finale, forte e potente, potrebbe anche riscattare il film, per la sua pregnanza di significato; ma nelle oltre due ore precedenti il racconto si è perso nei mille risvolti della situazione egiziana dell’epoca. 

Certo, probabilmente con un certo rigore storico ma che non giova non tanto alla fruizione, perché il film resta sempre godibile, ma all’idea complessiva che veicola. Seguendo l’intenzione del suo capace autore, è assai probabile, ma il quadro risulta in definitiva poco incisivo e questo nuoce all’aspetto epico che poi le scene finali vorrebbero incarnare. Certo è che l’Egitto degli anni Trenta del XX secolo era un paese non semplice da descrivere: gli inglesi avevano formalmente riconosciuto l’autonomia della nazione africana ma non per questo avevano rinunciato alle proprie pesanti influenze. Di fatto questa situazione aveva visto raddoppiare i centri di comando, le figure autoritarie: i nuovi padroni locali facevano la voce grossa, legittimati dal rappresentare il nuovo potere, dal canto loro i britannici e i loro vassalli non mollavano tanto facilmente la presa. Non a caso ne La terra pullulano i personaggi che incarnano una qualche forma di autorità: c’è il sindaco (Abdel Warith Assir), il feudatario Mahmoud Bey (Ashraf El Selendar), e poi il Primo Ministro, lo sceriffo, i vari sceicchi anche se la potenza più rilevante sembra volutamente tenuta fuori campo. L’influenza inglese è infatti data da intendere più che mostrata, ma si può intuire già dal modo di presentarsi dell’unico vero borghese capitalista della storia, Mahmoud Bey, aspetto e abiti in stile occidentale, e dai suoi intenti. Il feudatario vuole eliminare i contadini, di qui la disposizione di dimezzare i giorni di irrigazione, per poter costruire una strada: dietro la promessa del progresso c’è l’interesse privato visto che l’infrastruttura favorirà sostanzialmente solo la sua magione. Questi aspetti sono i più interessanti del film, sia per la matrice storica che per la costruzione della narrazione. Quello in cui manca il film è nella vicenda privata messa in primo piano per creare la giusta empatia con gli spettatori. In questo la protagonista potrebbe essere Wasifa (Nagwa Ibrahim) ma l’Egitto del 1969 non sembra in grado di accettare una donna come figura centrale di un film – e forse nemmeno Chahine, purtroppo. Di fatto la figlia di Abu Swelim è davvero intrigante solamente nel curioso incipit ma, nello scorrere della storia, non fa altro che affacciarsi sulle vicende senza imprimere mai veramente la sua impronta. 

Anzi, se proprio vogliamo vedere si segnala per un infelice passaggio quando, per difendere il padre, non esita ad accusare il presunto o presumibile promesso sposo,
Abd El Hadi (Ezzat El Alaili). Questi, da parte sua, prova ad incarnare lo spirito ribelle dei contadini, ad esempio quando apre le chiuse dell’irrigazione senza permesso, di qui l’accusa che coinvolge però tutti i contadini, ma gli si può riconoscere giusto un carattere indomito ma ben poco carisma. A certificare questo è proprio la traccia romantica: tanto Abu Swelim che mai gli risponde affermativamente alle ripetute richieste della mano di Wasifa, che la stessa ragazza che si limita a contemplarlo, sembrano mai prenderlo davvero in considerazione. E non è che sia una questione culturale o caratteriale della giovane perché nel citato bizzarro incipit è addirittura lei a prendere una focosa iniziativa sessuale. 

Proprio il segmento narrativo iniziale lascia piuttosto perplessi e può fungere da cartina tornasole dell’intero film: un ragazzino (Muhammad Al Saqqa) ritorna al paese dopo aver finito le scuole elementari al Cairo. E’ benestante, ovviamente, oltre al fatto di recarsi per l’istruzione nella capitale la cosa è simboleggiata dall’arrivo in carrozza trainata da cavalli. Ad aspettarlo trova Wasifa, ragazza che non è certo suo coetanea; lui ha una decina d’anni, lei è una giovane ormai formata. Eppure la storia insiste su una loro precedente intesa, anche piccante in un qualche senso, finché Wasifa prende l’iniziativa nonostante l’evidente imbarazzo del ragazzino. A questo punto il giovinetto fa giusto una sporadica apparizione mentre prende lezioni dal maestro del paese, Mohammad Effendi (Hamdy Ahmed) e poi sparisce dalla storia, seppure manchi ancora un’ora e mezzo abbondante di film. Proprio Mohammad Effendi è un altro personaggio a metà: dovrebbe incendiare la traccia melodrammatica insediando Abd El Hadi nel cuore di Wasifa, ma rimane sostanzialmente alla finestra. Prova, allora, in qualità di personaggio istruito del villaggio, a farsi portavoce delle istanze dei suoi compaesani presso l’autorità politica ma anche in questo caso non sortisce alcun risultato positivo. In effetti, in un dialogo del film, viene sottolineato che i giovani non sembrino in grado di prendere le redini del paese e, a conferma di ciò, il sacrificio finale, che avrebbe voluto essere eroico, ricade sulle spalle dell’attempato Abu Swelim. In sostanza, quello che rimane de La terra è che l’Egitto, come stato, come nazione, come terra, appunto, al momento cruciale della sua Storia moderna non si farà trovare pronto. Gli individui della generazione adatta, uomini e donne giovani e forti, sono personaggi inconcludenti. E non sono in previsione sviluppi positivi. Il futuro, incarnato dal ragazzino, è altresì ancora più impreparato e destinato a sparire presto di scena. Al paese non resta che attaccarsi alla vecchia guardia, disposta anche al sacrificio per la propria terra, per la propria identità di popolo. Un sacrificio che, almeno nei termini mostrati da La terra, sembra purtroppo inutile. 



Nagwa Ibrahim



Galleria di manifesti 




domenica 26 marzo 2023

LA BALLATA DI BUSTER SCRUGGS

1246_LA BALLATA DI BUSTER SCRUGGS (The Ballad of Buster Scruggs)Stati Uniti 2018. Regia di Joel e Ethan Coen.  

Otto anni dopo Il Grinta, Joel ed Ethan Coen tornano a visitare i percorsi del western con un film che, se è possibile, è ancora più metalinguistico del loro cinema abituale. Con oltre trent’anni di carriera e una quindicina abbondante di pellicole, la poetica dei fratelli di Minneapolis è chiara e La Ballata di Buster Scruggs, per quanto possa aver avuto una gestazione non proprio lineare, risponde chiaramente alle aspettative. Che sono quelle di spiazzare puntualmente lo spettatore, sia chiaro, che il cinema dei fratelli Coen è tutto tranne che prevedibile. In ogni caso, il progetto nasce come serie televisiva per Netflix e solo in seguito diviene un film ad episodi, tuttavia il lavoro è svolto con la solita estrema cura formale per cui la cosa è solo una mera curiosità che, se non fosse stata resa nota, nessuno avrebbe potuto intuire. Anche perché i sei segmenti che compongono La Ballata di Buster Scruggs, oltre essere totalmente eterogenei e diversi per temi e sviluppo – ma questo potrebbe essere anche plausibile in una serie un po’ anticonvenzionale – hanno durata diversa. Per la verità quattro di essi potrebbero facilmente venir ricondotti ad una lunghezza simile tra loro, anche se la ventina di minuti sembra troppo breve per poter essere episodi televisivi; uno poi è decisamente più corto e un altro decisamente più lungo. Insomma, l’idea dei Coen sembra quella di approfittare della struttura del film ad episodi per avere una variante in più, la durata, per sorprendere lo spettatore. Ma questo non deve far credere che il lavoro dei due registi sia stato poi meno rigoroso, in quanto le geometrie narrative sono presenti ancora, nella costruzione dei vari racconti, per capirsi si veda la ripetizione rovesciata (‘devo contare?’ chiesto prima dal villain di turno e poi dal protagonista) del duello che vede in seconda istanza il pistolero bianco, in precedenza vincente, ora soccombere di fronte al suo contrario, il pistolero nero; del resto lo specchio è uno degli elementi presenti sulla scena. Il pistolero bianco in questione è Buster Scruggs (Tim Blake Nelson), personaggio al quale è intitolato il film ma che non è certo il più importante e nemmeno il protagonista dell’episodio più importante, semplicemente di quello che apre il lungometraggio. 

Che ha per titolo lo stesso del film, La Ballata di Buster Scruggs, e introduce un character degno dei primissimi western, quelli con Tom Mix, di cui lo stesso Buster potrebbe essere la versione canterina – a là Johnny Guitar per capirci. Peraltro in apertura di capitolo vediamo anche uno scorcio sulla Monument Valley, palese riferimento ai classici fordiani. L’arrivo nella prima locanda, situata in un luogo totalmente improbabile anche per il Far West, ci trasporta in western della fase crepuscolare del genere, ad esempio uno spaghetti della corrente italiana. E’ evidente l’intento di mescolare i vari filoni che, durante i decenni, hanno caratterizzato il western, e i Coen riescono, grazie alla magia della loro narrativa, a rendere plausibile tutto il pastiche. Il secondo capitolo, Vicino ad Algodones è il più breve e non perde tempo a strappare già un mezzo sorriso, che anticipa il tenore del racconto, quando in principio vediamo il cowboy protagonista (James Franco) – in realtà un rapinatore – guardare la banca suo obiettivo. Un tipico sgangherato edificio del far west piazzato in mezzo al nulla di una prateria desertica: che diavolo ci può fare una banca in quel posto solo i Coen possono saperlo. 

Ma La Ballata di Buster Scruggs è un film che si diverte con gli stereotipi del genere enfatizzandoli in maniera volutamente più smaccata che concreta perché di assurdità e cliché strampalati il genere in effetti è pieno già di suo. La bravura dei fratelli registi è che, nonostante le forzature, i racconti non perdono mai la peculiare credibilità narrativa così che lo spettatore se li possa bere senza alcun problema. Il secondo segmento filmico è un capolavoro di sintesi, con l’acido umorismo nero a far da efficiente lubrificante narrativo. In poco più di dieci minuti abbiamo una rapina, un processo sommario – molto sommario, tanto che avviene quando il rapinatore è svenuto e noi ne apprendiamo solo il risultato – il salvataggio da un’impiccagione, l’attacco degli indiani, un ladro di bestiame al lavoro, una nuova cattura, un’impiccagione pubblica. L’ironia sancisce anche il risultato finale: il rapinatore avrebbe dovuto essere impiccato per rapina ma si salva unicamente per finire impiccato come ladro di bestiame. Come dire che tutto il trambusto della vicenda è svincolato dal significato della stessa – considerato che il rapinatore finisce come doveva finire – interpretando in modo perfetto il senso del cinema dei fratelli Coen dove l’accento è sempre posto sul come almeno nella stessa misura che sul perché delle loro storie.

La pagnotta è incentrato su un carrozzone d’artista ambulante, un cliché meno frequente ma comunque presente nell’immaginario western. Protagonisti sono l’impresario (Liam Neeson) e l’artista (Harry Melling) con quest’ultimo che, senza braccia e senza gambe, richiama inevitabilmente Freaks, capolavoro del 1932 di Tod Browning ambientato nel mondo circense. Nonostante i primi due episodi si siano chiusi già con i rispettivi protagonisti finiti al Creatore, questo capitolo – che peraltro non si discosta in questo senso – segna un cambio di passo nell’umore della pellicola, che si fa decisamente più cupo. Certo, l’ironia, la decisione da parte dell’impresario di sostituire il suo artista con un pollo capace – non si saprà come – di fare i conti matematici, è evidente. 

Ciononostante, la scelta di non filmare la scena in cui l’impresario getta nel fondo di un canyon percorso da un fiume il suo artista, è emblematica del fatto che, seppure di scherzo narrativo si tratti, i Coen lo intendono in chiave più seria che farsesca. E’ questo passaggio che cristallizza, secondo i Coen, la vera anima del Sogno Americano: finché dura puoi stare al centro del palco ma quando è scaduto il tuo tempo, finisci in fondo ad un fiume. A ben vedere il senso è simile anche per il primo episodio ma in quel caso si sottolineava la deriva concorrenziale dello spirito americano, con la gara infinita ad essere il migliore che pietà non ha per chi non ce la fa. Il secondo capitolo era invece un breve esempio di come funzionano le regole, in quella strenua competizione che è l’America: la mannaia della Legge cala tanto inesorabile quanto approssimativa, perché nemmeno la Giustizia ha tempo da perdere da quelle parti. In sostanza, il primo capitolo verteva sui protagonisti della contesa, il secondo sul senso dell’arbitraggio, mentre nel terzo l’elemento cruciale è l’impresario, ovvero colui che tira la fila. Il tenore non può che farsi progressivamente più plumbeo: la fine del protagonista nel capitolo iniziale è solo la conseguenza della (crudele) disputa, nel secondo dell’applicazione (sommaria) delle regole, ma nel terzo il nostro è fatto fuori per banale scelta utilitaristica di chi investe. Il Sogno Americano, di cui il western è il canto epico, potrebbe anche aver finito il suo corso. Il successivo capitolo, Il canyon tutto d’oro, si occupa dell’ambiente circostante. 


Del resto il tema ecologico è da sempre connaturato con il genere western: le difficoltà dei coloni che devono piegare ai loro fini le molteplici insidie del selvaggio west e, ancora più nello specifico, lo scontro Civiltà – i bianchi – contro Natura – i nativi, hanno sempre messo in chiara evidenza che la conquista è stata fatta non solo a dispetto dei vecchi abitanti dell’ovest americano ma soprattutto a danno dell’ambiente stesso. La figura che meglio di ogni altra rappresenta colui che sfregia la natura è il cercatore d’oro, nell’episodio in questione interpretato dal mitico Tom Waits. Il cercatore è tratteggiato con una certa simpatia dai Coen che, forse non a caso, lo risparmiano e lo premiano addirittura con la scoperta del filone aurifero. Inoltre, nel racconto specifico, la natura, che si ritira di buon ordine appena appare l’uomo bianco sulla scena, può riprendersi il suo spazio in chiusura, quando il cercatore lascia la vallata. Il canyon tutto d’oro può quindi essere considerato un racconto ottimista, e forse serve a preparare il terreno per il pezzo forte del lungometraggio ma, tutto sommato, le considerazioni che se ne devono inevitabilmente trarre sono sconfortanti. Il cercatore arriva in una vallata che sembra il Paradiso Terrestre ma l’unica cosa che vi scorge è la possibilità di una vena aurifera. L’uomo bianco è quindi totalmente indifferente al valore della Natura, dell’ambiente che lo circonda, se non in funzione della possibilità di arricchirsi in termini economici. In effetti, per anni, e forse ancora oggi, i nostri maestri e professori ci hanno insegnato che tutto dipende dall’economia, che è la vera forza motrice della nostra società. Gli Stati Uniti d’America, probabilmente, sono il risultato supremo di questa concezione filosofica della Storia e del mondo. In parte anche in buona fede: si veda lo sguardo benevolo dei Coen sul cercatore d’oro; peraltro non condiviso, in nessun modo, dagli animali della vallata. 


La giovane che si spaventò
introduce il tema sentimentale; l’episodio è il più corposo, quasi quaranta minuti, e la vicenda della carovana dei coloni ha quindi uno sviluppo maggiore definendo meglio i suoi personaggi. La protagonista è Alice (Zoe Kazan) una ragazza nubile che affronta il viaggio in carovana verso l’Oregon col fratello. Il quale muore di colera quasi subito, lasciando la giovane nei pasticci. Il primo dei quali dimostra subito che la carovana sta portando verso ovest la civiltà con i suoi aspetti più assurdi e gratuiti. In un oceano d’erba, con spazi sterminati, sembra proprio che l’abbaiare di President Pierce, il cagnolino di Alice, sia un problema insormontabile. Uno dei due capo-carovana, Billy Knapp (Bill Heck) si incarica di risolverlo e da questo primo approccio con Alice nasce un’intesa che porterà ad una proposta di matrimonio che viene formulata con garbo e rispetto, considerando i vantaggi da una e dall’altra parte ma senza mai tirare in ballo la fatidica parola amore. La ragazza si dirà incline ad accettare, a sottolineare il tono formale e burocratico dell’accordo: anche in campo sentimentale il Sogno Americano è ben poco onirico e assai concreto, un contratto con tutti i dettagli pianificati. E questa è la regola, nel west; ad ogni evenienza, una risposta. La classica efficienza americana. Peccato che se capita di equivocare o di essere troppo precipitosi, le cose possano andare comunque a ramengo, come occorre purtroppo alla povera ragazza, in uno dei passaggi più pirotecnici dell’intero film. 

L’ultimo capitolo, Le spoglie mortali, rievoca Ombre Rosse (1939, regia di John Ford) e la diligenza, inserendo anche le figure del trapper (Chelcie Ross), dei cacciatori di taglie (Junjo O’Neil e Brendan Gleeson), del gambler (Saul Rubinek) e della dama dell’esercito della salvezza o simili (Tyne Daly). Cominciato nella luce gialla del tramonto, d’altronde nel capitolo precedente era appena tramontata una storia d’amore, l’episodio si tinge progressivamente di scuro, finendo in un tono visivamente cupissimo. I dialoghi sono spassosi e al limite del surreale con il trapper logorroico che discute animatamente con il gambler francese e l’altezzosa signora. Dal canto loro i bounty killer, sembrano incarnare la figura stessa dei Coen: ti incantano con le parole e, mentre sei distratto, mettono a segno il punto. La rivelazione, che rende prezioso tutto quanto La Ballata di Buster Scruggs, è che i registi non si reputano affatto in una condizione di conoscenza superiore in quanto essi stessi sono sostanzialmente semplici spettatori, come esplicitamente detto da uno dei due cacciatori di taglie. Il senso, il famigerato messaggio che è sempre stato ricercato da critici e dagli spettatori più illuminati in ogni film, i Coen ammettono di non conoscerlo loro stessi. E il western, in tutto questo come ne esce? E’ ancora vivo o, come si dice da anni, è ormai morto e sepolto? A giudicare dallo stato del prodotto dei due bounty killer, che viaggia avvolto in un telo sopra il tetto della diligenza, si potrebbe anche considerare morto stecchito. Ma finché c’è in giro gente abile come i Coen, si può star certi che sapranno trasformarlo in qualcosa di valore, proprio come La Ballata di Buster Scruggs. Per mietitori come loro, se mettano mano su qualcosa di vivo o morto non fa distinzione, riescono sempre a cavarci fuori qualcosa. E non da poco.       





Zoe Kazan 



Galleria di manifesti