Translate

martedì 28 febbraio 2023

TUTTO TOTO' - IL LATITANTE

1229_TUTTO TOTO' - IL LATITANTE Italia, 1967; Regia di Daniele D'Anza.

Durante gli ultimi mesi della sua vita il grande Totò interpreta un ciclo di film televisivi sul modello degli sceneggiati Rai dell’epoca, nei quali dar sfoggio del proprio repertorio. L’occasione era quella di mettere in scena progetti non andati in porto, come il caso del primo episodio realizzato in regia dal valido Daniele D’Anza. Il Latitante era un soggetto di Sergio Corbucci e Giovanni Grimaldi, che pare dovesse intitolarsi Le Belve, che lascia comunque tutto lo spazio necessario a Totò per i suoi tipici siparietti. Il Principe della Risata è evidentemente in fase calante, si spegnerà nell’aprile di quello stesso 1967, ma tutto sommato tiene botta egregiamente. Per una volta, il suo eccedere non va a discapito dell’opera, limite che qualche volta gli poteva essere imputabile, perché lo sceneggiato imbastito da D’Anza prevede proprio che Totò debba essere l’assoluto mattatore. D’Anza, semmai, sembra troppo circospetto, quasi timoroso, e questo forse potrebbe spiegare la regia effettivamente troppo discreta anche per un prodotto televisivo. Comunque la trama ha una certa sostanza, con Gennaro La Pezza, il personaggio di Totò, che uscito dal carcere si mette a truffare un paio di uomini facoltosi millantando di essere stato loro compagno di scuola e imbastendo una complicata storia, che il nostro riesce a rendere digeribile alla sua maniera, per spillare vitto, alloggio e un po’ di quattrini agli ignari signori. Nel finale ci prova con la persona sbagliata: l’uomo fermato è infatti un ispettore (Gino Cervi) e La Pezza farà così ritorno alla prigione. Negli anni Sessanta, almeno in televisione, il crimine non pagava davvero, nemmeno se c’era Totò.



Galleria di copertine 



domenica 26 febbraio 2023

AVAMPOSTO TELEGRAFICO

1228_AVAMPOSTO TELEGRAFICO (Overland Telegraph). Stati Uniti, 1951; Regia di Lesley Selander.

La carriera di Tim Holt è un piccolo mistero: dopo aver lavorato per conto di registi di primissima categoria tra i quali Orson Welles, Gregory La Cava, John Ford e John Huston, divenne una stella dei western di serie B. In questi filmetti, perlopiù diretti da Lesley Selander – proprio come Avamposto telegrafico – Holt interpreta un personaggio dal suo stesso nome, e questo la dice lunga sul tenore di queste produzioni. Tim Holt, il personaggio dei film western, è una sorta di Tom Mix leggermente aggiornato: Mix era l’eroe dei western muti e l’abbigliamento iconico di Holt in parte lo ricorda. Proprio come i personaggi dei fumetti che si ispireranno nei decenni alle sue gesta, Tim ha un fido scudiero, Chito Rafferty (Richard Martin), messicano di origine irlandese che pensa unicamente a mangiare e a correre dietro alle gonnelle. I film del duo furono una ventina e Avamposto telegrafico è uno degli ultimi. Erano ormai gli anni Cinquanta e le produzioni di serie B si affidavano a cliché consolidati: se il protagonista era preso direttamente dalla preistoria del genere western, alla corrente degli all’epoca recenti anni Quaranta si ispirava il tenore del racconto. Nei tipici western romantici dei 40s, per la verità, il protagonista era un fuorilegge mentre Tim Holt è un eroe a tutto tondo ma, come riferimento a questa corrente, va messa a referto la presenza di ben due ragazze piuttosto intraprendenti. Gail Davis era una specialista dei B-Movie western e in effetti si disimpegna egregiamente a cavallo o con le armi da fuoco. Più elegante Mari Blanchard che nel film è una cantante da saloon che corona il suo sogno di maritarsi. Non con Tim Holt, naturalmente, che gli eroi dei B-movies, come quelli dei fumetti, ben difficilmente si sposano.  



Mari Blanchard 




Gail Davis 



Galleria di manifesti 








venerdì 24 febbraio 2023

NOSFERATU, UNA ESCENITA CRIOLLA

1227_NOSFERATU, UNA ESCENITA CRIOLLA . Cile, 1972; Regia di Hernàn Castellano Giròn.

Definito, non senza una buona dose di ambizione, dallo stesso regista Hernàn Castellano Giròn "un film surreale che rende omaggio a Luis Buñuel e Ingman Bergman, nonché un tributo alla commedia di genere slapstick" Nosferatu, una escenita Criolla [t.l. Nosferatu, una scena creola] è un bizzarro mediometraggio interessante più per la sua storia che per l’effettivo valore artistico. Siamo in Cile, nel 1972, dove il film viene prodotto sotto l’egida della Scuola di Cinema dell’Università Statale. Il colpo di stato dell’anno successivo porta al governo i militari e l’Università viene chiusa, alcuni docenti perseguitati. Il film non è ancora finito ma ritenuto scomodo, diciamo così, e quindi, per salvarlo dalla distruzione, una copia in 16 millimetri viene seppellita nel cortile di casa di uno degli autori. La pellicola tornerà alla luce solo nel 1990 quando, negli Stati Uniti, Castellano Giròn ne terminerà il montaggio e il sonoro. Uno dei problemi che il filmato pare avesse sono alcune presunte allusioni alla Patria e forse anche al partito della Destra; la cosa oggi potrebbe destare un po’ di perplessità, ma la dittatura dell’epoca era particolarmente suscettibile e l’opera presenta un’evidente deriva dissacrante. Alcune scene sono davvero di impatto, per quanto spesso appaiano un po’ troppo estemporanee anche per un ambito surrealista: memorabile quella in cui Nina (Blanca Sagristà) dopo aver letto il Dracula di Bram Stoker, infila un paletto nel cuore al marito (Antonio Roncallo), steso in una vasca da bagno. Ma i personaggi più iconici sono il Nosferatu (Mauricio Saavedra), sorta di Che Guevara cileno, e El Cura Loco [il prete pazzo] interpretato dallo stesso regista. Un piccolo film strampalato e surrealista che, a suo modo, testimonia la potenza del cinema, resistendo con tenacia all’oscurantismo della dittatura.
Un vero Nosferatu.  


mercoledì 22 febbraio 2023

LA DONNA DELLA DOMENICA

1226_LA DONNA DELLA DOMENICA Italia, 1975; Regia di Luigi Comencini.

Negli anni Settanta in Italia furoreggiava il cinema di genere, thriller e gialli in primis, sebbene la commedia non avesse del tutto passato la mano. In ogni caso, uno dei massimi maestri della commedia all’italiana, Luigi Comencini, prova una sorta di innesto, con una storia gialla intinta nell’acredine sarcastica che gli aveva da qualche anno preso la mano. La donna della domenica era già un romanzo giallo di grande successo di Fruttero e Lucentini adattato in sede di sceneggiatura da Age & Scarpelli che lo sintonizzano sul registro adeguato alla regia di Comencini. Tra i collaboratori illustri va segnalato almeno Ennio Morricone alle musiche, sebbene la precisione formale complessiva finisca un po’ svilita dal cinismo mostrato dall’interpretazione del racconto dal regista nato a Salò. Purtroppo qualcosa non riesce a convincere del tutto, nonostante gli interpreti principali trovino la giusta sintonia e i comprimari lascino il segno: tutto secondo copione eppure il quadro è un po’ come la fotografia di Luciano Tovoli: poco incisiva. Il protagonista è il commissario Santamaria e Marcello Mastroianni riesce perfettamente a calarsi nella parte del poliziotto che deve fare il suo lavoro, senza eccessivo zelo ma con sufficiente dose di coscienza, approfittando all’occorrenza delle opportunità extra lavorative. Il film è una mezza commedia e a Mastroianni non serve certo insegnare come si fa. A tenergli testa, e per la verità a vincere a mani basse, una splendida Jacqueline Bisset ci regala una Anna Carla Dosio superficiale, snob, altezzosa ma assolutamente adorabile. 

Chiude il terzetto di attori principali Jean- Louis Trintignant nel ruolo di Massimo Campi, personaggio ambiguo e indefinibile, persino da sé stesso. Anche in questo caso la scelta dell’interprete è perfetta, con l’attore francese che riesce a non disturbare la frivola storia sentimentale tra il commissario e Anna Carla. A far loro da contorno ci sono una serie di macchiette, da Lina Volonghi a Pino Caruso, che, pur nella bravura degli interpreti, rischiano di far scadere eccessivamente nella farsa la vicenda. Ma anche in questo caso, non possono certo essere questi dettagli ad inficiare la funzionalità del film perché non si può che valutare positivamente il contributo del cast nel suo complesso. Quello che in definitiva limita La donna della domenica è, probabilmente, la disillusione del tardo Comencini. Il regista sembra quasi sbagliare per eccesso le dosi del suo film, prendendo un testo praticamente perfetto, raffinandolo ulteriormente con il lavoro in sede di sceneggiatura, sterilizzandolo poi, nella realizzazione, con la precisione degli interpreti nonostante i tanti passaggi volgari. Il che sembrerebbe una contraddizione ma le tante scene pruriginose che vedono protagonista la vittima – l’architetto Garrone (Claudio Gora) – l’arma del delitto – un fallo di pietra – l’attività disinvolta delle prostitute o la ritrosia con cui si affronta la storia omosessuale, sono mostrare quasi con malcelato disgusto – ironico, forse, ma certamente non gradevole. Insomma, il film è anche divertente ma non infiamma lo spettatore perché per primo sembra non entusiasmare il regista che, piuttosto, sembra quasi voler redarguire il pubblico per il fatto di ricercare simili prodotti al cinema. Oltre che stigmatizzare una società, di cui si prende l’élite torinese a titolo di esempio, per il suo essere vuota e banale. Tutto vero e abbastanza condivisibile, eppure Jacqueline Bisset è divina anche in un ruolo antipatico e futile e lei sì, incendia lo schermo ogni volta che vi appare. Troppa bellezza e classe anche per il cinismo e l’acredine di Comencini. Meno Male.      




Jacqueline Bisset 








Lina Volonghi 


Galleria di manifesti 




lunedì 20 febbraio 2023

SHENANDOAH - LA VALLE DELL'ONORE

1225_SHENANDOAH - LA VALLE DELL'ONORE (Shenandoah)Stati Uniti, 1965; Regia di Andrew L. McLaglen.

Figlio del mitico Victor, Andrew V. McLaglen fu buon regista, in prevalenza di solidi film d’avventura. Tra questi molti western, genere del quale dimostrò ampiamente di conoscere le coordinate. Shenandoah, la valle dell’onore è spesso considerato appunto un western, sebbene sia ambientato durante la Guerra Civile Americana nella Virginia che certo è un po’ troppo ad est rispetto al tipico territorio con cui si definisce il Far West. Siamo nel pieno della guerra, durante la seconda Campagna della Valle dello Shenandoah, e i protagonisti della nostra storia, gli Anderson, non vogliono essere immischiati nelle vicende belliche. Il che è più facile a dirsi che a farsi perché la loro fattoria è florida, ricca di cavalli e forza lavoro e man mano il conflitto si fa più incandescente questi diventano beni indispensabili per l’esercito confederato. Ma il vedovo Charlie (un James Stewart stranamente imbolsito), non intende vender cavalli né tantomeno lasciar partire qualcuno dei suoi sei figli maschi in una guerra che non sente minimamente sua. Per la verità più volte, durante lo sviluppo filmico, lascia libertà di scelta ai figli sulla questione ma, sotto questo aspetto, il racconto non convince del tutto. Innanzitutto, fa un po’ specie in un simile contesto – che sembra mettere in contrapposizione famiglia ed esercito – il fatto che gli stessi figli, cinque uomini fatti e un ragazzino di sedici anni, utilizzino spesso il gergo militare per ubbidire al padre, con un formale sissignore. L’impressione che passa è che Charlie si curi del suo interesse mentre si dica indifferente a quello della Virginia, che negli anni si è dimostrata a sua volta indifferente ai suoi bisogni; salvo poi comportarsi un po’ alla stessa stregua riguardo ai suoi figli. 

Il tema dell’incomprensibilità, vero tormentone stucchevole del film, attraversa le due istituzioni: se è goffamente messo in scena nei rapporti uomo-donna che sono alla base della famiglia, è meno banalizzato anche se più vago nei confronti dei motivi scatenanti la guerra. Sì, c’è una certa presa di distanza dalla schiavitù, cardine ideologico del conflitto in questione, ma nemmeno troppa perché diversamente avrebbe voluto dirsi schierarsi da qualche parte e per smuovere Charlie dalla sua apatia politica gli dovranno praticamente rapire il figlio piccolo. Questi è l’unico un po’ definito tra la prole maschile del vedovo: ed è la stessa trama a non mettere mai i giovanotti in questione in particolare risalto, finendo per farne figure anonime. Il fatto poi che l’attore più famoso tra essi sia probabilmente Patrick Wayne (è James), sembra un ulteriore conferma di una voluta ricerca di anonimato per questi personaggi: il figlio di John Wayne può essere infatti l’emblema di una persona schiacciata totalmente dall’ombra del padre. Insomma, nonostante ci sia, verso la fine, un ulteriore passaggio in cui il padre Charlie cerchi di lasciare in modo più esplicito libertà d’azione ai figli, durante la ricerca di Robert (Philliph Alford), il citato ultimogenito catturato dai nordisti, l’impressione è che la figura paterna sia davvero troppo predominante. Il che non sarebbe neanche un male, in sé; purtroppo Jimmy Stewart non è più quello di un tempo e non regge come dovrebbe mentre lo schermo finisce troppo spesso ingombrato da personaggi senza alcuno spessore. 

A distinguersi in modo inevitabile è la figlia, Jennie (Rosemary Forsyth), in quanto unica femmina della nidiata e forse aiutata dalla buona presenza scenica; in questo senso bene anche la nuora Ann (Katerine Ross), ma niente di imprescindibile, sia chiaro. Il problema del film, che, come detto, verte sulla vana intenzione degli Anderson di tenersi fuori dalla guerra, è che ci sono troppi ingredienti e McLaglen non sembra cuoco all’altezza del compito. Il racconto vuole essere epico, la guerra tra americani, sentimentale, la love story tra Jennie e Sam (Doug McClure), tragico, le morti dei figli di Charlie, leggero, le gag del più piccolo degli Anderson, e nel cercare di far di tutto questo un film coerente il regista finisce troppo spesso per ricorrere ad ovvi cliché. Gli incontri casuali, come quello che salva la vita a Robert sul campo di battaglia, i pretesti narrativi prevedibili, il berretto da sudista trovato dallo stesso ragazzo che si rivela poi cruciale, incanalano la vicenda in modo inevitabile, nonostante i molti elementi in gioco finiscano poi per mantenerla comunque un minimo interessante. Ma non in modo del tutto soddisfacente: Shenandoah, la valle dell’onore, in definitiva, assomiglia ad una barca che va lungo il fiume, assecondando la corrente senza che il timoniere dia segni di avere la personalità necessaria per imprimere una qualche forma di rotta. E, sotto la sua guida, perfino un veterano come Jimmy Stewart finisce per mostrare un po’ la corda. E questo è il peccato più grande del film.  




Rosemary Forsyth 




    Katharine Ross

Galleria di manifesti