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martedì 31 ottobre 2023

L'OCCHIO CHE UCCIDE

1384_L'OCCHIO CHE UCCIDE (Peeping Tom). Regno Unito 1960; Regia di Michael Powell.

In una famosa citazione di Michael Powell a proposito de L’occhio che uccide, il regista esplicita e condensa l’aspetto metalinguistico del film nella semplice espressione “io sono il cinema”. E’ curioso che un autore acclamato da critica e pubblico per tutta la sua carriera, manifesti questo proclama parlando di un film che, al tempo, fu invece la causa del suo declino in termini di popolarità. Naturalmente, Powell – e nel caso anche il suo fido collaboratore Emeric Pressburger, non coinvolto però ne L’occhio che uccide – ‘era cinema’ anche nei suoi precedenti film. Quale che sia stato l’impulso che spinse Powell ad un’espressione tanto esplicita come il suo metalinguistico film, per renderla concreta su schermo si rivolse ad un tipo di storia per lui insolita. E, nel suo approcciarvi in modo personale e atipico, fu talmente sconvolgente che ridefinì il genere thriller grazie ad un film che, a vederlo ancora oggi, rimane disturbante e malsano. Ma non sono tanto le scene per l’epoca efferate degli omicidi a metterci in difficoltà, e nemmeno la paura che leggiamo nei volti delle vittime del racconto filmico. Tutto questo è finzione e in fondo ormai noi siamo assuefatti dalla violenza largamente diffusa nel cinema oltre che nella realtà. Quello che ci turba è la profondità dello sguardo del regista: a pensarci bene, è proprio quello a cui dovrebbe alludere l’occhio che uccide del titolo italiano. Powell, per sancire senza dubbio la sua identificazione col cinema, va alla radice; ma non tanto del media, del cinema stesso, ma dell’animo umano, della sua anima. Naturalmente gli animi degli autori cinematografici, i loro sentimenti, le loro speranze, i loro timori, sono presenti in tutti i film; in misura adeguata al loro valore, altrettanto naturalmente. 

I generi, con i loro codici e i loro cliché, fanno da filtro, permettendo all’autore di non mettersi troppo a nudo di fronte al suo pubblico. Il messaggio arriva comunque, ma necessita di un minimo di rielaborazione, concedendo un po’ di legittimo pudore all’artista e agli interpreti. Un processo comprensibile, in fondo gli autori sono umani, con debolezze e incertezze come tutti noi; ma, con l’andar del tempo, si rischia che l’infrastruttura costruita per questi motivi, finisca per soffocare la vera natura del cinema. Powell, per scardinare questo sistema, si rivolge al sentimento più potente tra quelli spontanei: la paura. E, nello specifico, la paura di morire è la nostra paura più grande. Nel documentario che Mark Lewis (Carl Boehm) sta girando, vuole filmare proprio quella, la paura di una donna che sta per essere uccisa. 

Ma siccome non è tanto la morte in sé, a spaventarci, essendo un concetto a noi incomprensibile, Mark pone uno specchio sul punteruolo del treppiede con cui uccide le sue vittime. Esse vedranno, quindi, il proprio volto impaurito per l’imminente morte: nel cortocircuito che se ne ricava, la vittima inorridita dalla sua stessa paura di morire, l’assoluta paura verrà cristallizzata nella cinepresa di Mark. Questo sentimento naturale, il più potente tra quelli istintivi, raggiunge quindi la massima espressione, autoalimentandosi. Il riferimento del titolo del film originale, Peeping Tom è però assai meno grave, visto che il significato della definizione è qualcosa tipo guardone, voyeur. In effetti Mark è anche attratto dalle scene di sesso o dalle nudità femminili e, se anche si può forse definire questo un comportamento poco opportuno, moralmente non è certo grave come uccidere la gente e osservarne perversamente la fine. 

Per motivare narrativamente i disturbi del protagonista, Powell e Leo Marks (autore di soggetto e sceneggiatura) ricorrono alla psicanalisi, mostrando l’infanzia del piccolo Mark tormentato dal padre che lo filmava nel sonno, al funerale della madre o dopo avergli gettato lucertole nel letto. Ma questi aspetti sono secondari, tutto sommato, perché ognuno dei nostri comportamenti o delle nostre inclinazioni può e sarà anche influenzato dalle nostre esperienze infantili e formative. La cosa interessante è che l’attrazione per filmare la sofferenza, che determina le necessità assassine di Mark, ha la stessa matrice del voyerismo per il sesso. Non c’è tecnicamente una differenza tra la perversione nel vedere un atto violento che contraddistingue il protagonista e quella che spinge il distino signore che, nel film, compra le fotografie pornografiche. Si tratta sempre di desideri morbosi, che sono molto più diffusi di quel che ci piace pensare, e di quel che certamente si voleva credere nel 1960, anno di uscita del film. L’aspetto che utilizza Powell, di questi sentimenti estremi, è che attraverso il loro manifestarsi si vede distintamente l’anima, o almeno una parte di essa, dei personaggi: notevole, infatti, la performance di Carl Bohem, davvero convincente e umanissimo nel mostrare tutte le sue perversioni che altro non sono che umane debolezze. La comprensione umana per il protagonista non lo assolve dalla condanna morale, peraltro, e in questo senso c’è la presenza dell’ispettore Cregg (Jack Watson) a ricordarcelo. Ma L’occhio che uccide lascia la pista giallo-investigativa decisamente in un angolo, tanto che noi sappiamo sin da subito chi è il colpevole e anche la polizia non ci mette poi molto a capirlo. 

Del resto, con una fotografia dagli sgargianti colori innaturali, il film di Powell non vuole certo essere un testo realistico. A questo proposito, va detto che il regista, che pure rimane formidabile nella messa in scena, coglie costantemente immagini che sembrano rubate, come se stessimo noi stessi guardando da un pertugio, da un buco della serratura. In fondo, lo spettatore cinematografico è il voyeur per eccellenza; e Mark, prima di essere regista è soprattutto spettatore, chiudendo in questo modo il cerchio metalinguistico. Il cinema, quindi, è questo: cogliere l’emozione, catturare l’essenza della vita. E il fatto che il protagonista del film sia un maniaco, è semplicemente perché attraverso il suo operato, il suo filmare il terrore profondo negli occhi delle vittime, questo possa risaltare in modo eclatante. Lo si è detto, la paura è il sentimento istintivo più forte. Ma sorge un limite: “tutto quello che riprendo è perduto” ad un certo punto sentenzia Mark. Da un certo punto di vista è ovvio, le vittime sono davvero perdute. Dall’altro il filmato registrato sembrerebbe smentire questa affermazione. Ma è l’arte ad essere immortale e una registrazione così sterile, paragonabile a quella degli snuff movie, lascia ben poco di sé ai posteri. Solo la paura di morire, una perdita, una mancanza, quindi. Ma Powell, non vuole certo connotare negativamente il suo film perché vorrebbe dire connotare negativamente il cinema. Certo, ci sono i guardoni, le ragazze disposte a spogliarsi – a mostrare la propria intimità, solo per fare soldi – e c’è perfino la sciatteria del cinema stesso – le scene delle riprese al film dove lavora anche Mark – ma questo panorama, che al di là delle opinioni non è che si possa definire troppo edificante, serve innanzitutto per contestualizzare il protagonista. 

Che non è, quindi, un alieno piovuto dal cielo ma il frutto, deviato fin che si vuole, ma figlio della società a cui appartiene e a cui apparteniamo tutti. Ma, soprattutto, questo mondo desolato serve per dare ancora più risalto alla figura di Helen (Anna Massey) ragazza che si innamora di Mark e che con il suo ingenuo amore potrebbe anche riuscire salvarlo. Sua madre (Maxime Audley), cieca, proprio perché non vittima del desiderio voyeuristico ha la capacità di vedere davvero, di capire, e comprende per prima che Mark ha qualcosa che non va. Il suo è uno sguardo distaccato dalla vista e quindi obiettivo, ma non è che si può scegliere di essere ciechi per vedere. Bisogna essere in grado di vincere le difficoltà dello sguardo e non rifuggirlo. Helen, ormai innamorata, prova quindi a superare le paure della madre e anche le sue, e vuole vedere, cerca in tutti i modi di vedere quello che filma Mark. Del resto lei stessa ha bisogno dell’espressione impossibile nei volti della gente per illustrare il suo libro. Ma a differenza di quello del protagonista, lo sguardo di Helen sul mondo è pieno d’amore, per Mark, per la vita, per i volti delle persone. E il cinema, e il cinema di Michael Powell, più che nell’occhio assassino di Mark/Carl Bohem, lo si può trovare in quelli di Helen, semplice ragazza innamorata della vita. 

 





Moira Shearer




Brenda Bruce 





Pamela Green 





Galleria di manifesti 









domenica 29 ottobre 2023

IL DELITTO DI THERESE DESQUEYROUS

1383_IL SEGRETO DI THERESE DESQUEYROUS (Thérèse Desqueyrous). Francia 1962; Regia di Georges Franju.

Dopo i cortometraggi nei quali coesistevano immagini crudamente realistiche ad altre di matrice surrealista e i primi tre veri e propri film, nei quali si era anche confrontato con il cinema di genere come l’horror e il giallo, Georges Franju si prende lo spinoso compito di portare sul grande schermo un soggetto più intimistico. La fonte d’ispirazione non è un testo qualunque: Thérèse Desqueyroux di François Mauriac era un romanzo per niente semplice da approcciare perché l’avversione alla borghesia, accusata dall’autore duramente per il suo essere superficiale e tesa ad evitare ogni forma di scandalo per restare al potere, arrivava chiara e lampante al lettore ma solo attraverso lo scrutare in profondità dell’animo della protagonista a cui era dedicato il titolo dell’opera. Non era, quindi, un soggetto con una trama avvincente o un canovaccio forte a cui ancorarsi in modo agevole, il romanzo di Mauriac; quella che andava colta era la sensibilità di Thérèse, un personaggio complesso e in parte sfuggente. “Non ho mai saputo dove sarei stata condotta... da questo potere squilibrato dentro di me... e fuori di me” riflette in principio del film la protagonista, ammettendo lei stessa di non essere certo un soggetto di facile decifrazione. In aiuto al lavoro di Franju, che darà un risultato clamoroso, arriva la superba interpretazione di Emmanuelle Riva che per il ruolo di Thérèse vinse una strameritata Coppa Volpi a Venezia. Ma tutto il film è calibrato con maestria: dalla prestazione assai più prosaica di Philippe Noiret nel ruolo del marito Bernard, alla splendida fotografia in rigoroso bianco e nero di Raymond Heil e Christian Matras, alle musiche di Michael Jarre. 

Concentrato sull’adesione al soggetto, Franju tiene sotto controllo la sua vena surrealista, che si intravvede comunque in più d’un passaggio. Dagli uccelli intrappolati nella rete, al volto di Thérèse incorniciato – imprigionato – dalla lussureggiante vegetazione delle Landes, alla resa docilmente inquietante degli altissimi pini della tenuta. L’eterea Édith Scob – nel ruolo di Anne con la sua infantile infatuazione per Azevedo (Sami Frey) – contribuisce a sfumare la storia, a renderla ambigua. Cosa lega le due ragazze della vicenda, Thérèse e Anne? Attrazione? Amicizia? Rivalità? Invidia? Ben presente in avvio, Anne scivola poi fuori dalla trama che, come detto, verte sulla personalità della vera protagonista e la distribuzione italiana nell’intitolare l’opera Il delitto di Thérèse Desqueyroux è un po’ fuorviante perché, almeno al cinema, il delitto lascia intendere qualcosa di grave, generalmente un omicidio. 

Che è poi quello che Thérèse prova a mettere in pratica avvelenando il marito, ad essere onesti, ma senza riuscirci. E sarà la testimonianza dello stesso Bernard in tribunale a scagionare definitivamente la donna ma certo non perché l’uomo non avesse capito le reali intenzioni della moglie. Il punto è che una famiglia rispettabile come i Desqueyroux non può permettersi uno scandalo; la critica alla borghesia del testo di Mauriac è condivisa da Franju che in pratica riprende il discorso del suo precedente La fossa dei disperati che, sotto questo aspetto, ha più di un’attinenza con questo Il delitto di Thérèse Desqueyroux. Ma formalmente quest’ultimo lavoro è superiore oltre a raffinare ulteriormente la tipica vena critica di Franju. Nel precedente Piena luce sull’assassino il regista aveva mostrato come nel mondo borghese l’individuo potesse arrivare ad uccidere pur di affermarsi ma Il delitto di Thérèse Desqueyroux rivela in modo assai più sottile la spietata filosofia della classe sociale dominante del XX secolo. Come il libro, il film è vissuto tramite la sensibilità della protagonista e un efficace flashback permette di impostare tutta la vicenda attraverso la voce narrante di Thérèse; Franju, che ha particolare predisposizione alle fasi meno dirette del racconto – sogni, visioni, ricordi – orchestra magistralmente il testo in modo assai funzionale. La vena intima del romanzo è quindi pienamente rispettata; da una parte l’abilità del regista in questo tipo di racconto, dall’altra la straordinaria capacità espressiva di Emmanuelle Riva, muovono sempre l’emotività della narrazione anche in quelle fasi in cui di azione ce n’è davvero poca. Nonostante l’esiguità della trama, Il delitto di Thérèse Desqueyroux è quindi un film appassionante: un crime-movie con venature noir depotenziato sul piano dell’azione ma che compensa queste lacune con il vissuto interiore della protagonista. 

L’aspetto forse più interessante ne Il delitto di Thérèse Desqueyroux è che Thérèse racchiude in sé stessa i ruoli di colpevole e vittima: scherzando, si potrebbe ipotizzare una sorta di parallelo con la Jeanne Fontaine de Il sospetto (1941, di Alfred Hitchcock) con qualche sprazzo del Cary Grant dello stesso film. Ma ciò che Thérèse non è mai è carnefice, ruolo in cui ben si presta Bernard nonostante l’aspetto pacioso in principio e quello accomodante alla fine. In mezzo, l’uomo è il classico tipo comune – borghese, verrebbe da dire – per il quale il matrimonio è unicamente un passaggio obbligato della vita. Per tutta la parte prima dell’avvelenamento, secondo Bernard Thérèse è unicamente una moglie: buona per presenziare alle ricorrenze, mettere al mondo i figli, parlare del più e del meno, farci del sesso la notte. Quest’ultimo aspetto è interessante perché chiarisce meglio le cose: sin dalla prima notte di nozze Bernard non cerca minimamente di trovare una qualche sintonia con Thérèse, limitandosi a trarre il proprio piacere dal rapporto sessuale. Figurativamente la scena è resa in tutto il suo squallore da Franju; la donna, ripensandoci, si lascia scappare l’aggettivo orribile, per quella sua prima esperienza col marito e, in effetti, sembra una valutazione condivisibile. Poi, però, riflette meglio: non così orribile si corregge. Perché, in fondo, il Bernard ottuso ed egoista, quello che amaramente Thérèse scopre di aver sposato, non è il peggior Bernard della storia. Almeno ha un’ombra di sincerità, nel suo agire. Già quello successivo, freddo e scostante, indispettito dall’essere stato mezzo avvelenato eppure tutto proteso ad evitare lo scandalo al punto di testimoniare a processo a suo favore, è più ipocrita. E davvero orribile: un uomo che arriverà a recludere la moglie nella casa di campagna, senza poter avere contatti con il mondo. Ma ancora più orrendo sarà quello falsamente conciliante del finale, quello che lascia libera Thérèse a Parigi, arrivando a pagarle vitto e alloggio. E’ qui che il discorso di Franju si fa più interessante: pur di conservare al meglio l’immagine famigliare, Bernard arriva a perdonare la moglie, a ridarle la libertà, a pagarne le spese per vivere nella capitale, tutto purché non appaia patita o sofferente nelle occasioni in cui sarà chiamata a presenziare. Il borghese è disposto a tutto, pur di salvare l’apparenza: anche a comportarsi da gentiluomo. Per un po’ di umanità, quella che l’uomo mai riuscirà a mostrare per la povera Thérèse, rivolgersi altrove. 



Emanuelle Riva 




Edith Scob



Galleria di manifesti 







venerdì 27 ottobre 2023

ENIGMA FRANJU

ENIGMA FRANJU

IL CINEMA DI GEORGES FRANJU






OCCHI SENZA VOLTO

1382_OCCHI SENZA VOLTO (Les yeux sans visage). Francia 1960; Regia di Georges Franju.

Claire Clouzot, nel suo studio sul cinema francese, definì quello di Georges Franju come "un realismo fantastico struggente ereditato dal surrealismo e dal cinema scientifico di Jean Painlevé e influenzato dall'espressionismo di Lang e Murnau". Occhi senza volto è il suo capolavoro, l’opera che meglio di ogni altra riesce ad esprimere il suo stile efficacemente definito dal citato contradditorio realismo fantastico. Lo stesso Franju, per altro, pare abbia specificato questa maniera singolare di vedere le cose, in particolar modo la modernità e il progresso, come necessario, visto che ormai siamo abituati ad accettare come normali cose che invece dovrebbero stranirci. L’atmosfera onirica che pervade Occhi senza volto è quella della nostra vita di tutti i giorni, nella quale i nostri occhi sintetizzano l’assurdità della nostra realtà quotidiana rendendocela sopportabile ma nascondendocene le aberrazioni e le insidie. Non a caso, nel film, la polizia non si rende conto della gravità della situazione, nonostante gli input ricevuti, arrivando incoscientemente a mettere in serio pericolo la vita di Paulette (Béatrice Altariba). In tono forse minore, il surrealismo, corrente che come detto influenzò l’opera di Franju, è presente anche in Occhi senza volto, ad esempio nella composizione di una scena coi forti rumori di un aereo (i successi tecnologici ma al tempo stesso gli orrori della guerra non molto lontana nel tempo) e della campana di una chiesa (il monito della religione), mentre i due protagonisti seppelliscono il cadavere di una giovane vittima dei loro terribili esperimenti scientifici (la medicina, in chiave sinistramente ambivalente). 

L’orrore, infatti, arriva fino a noi da quella realtà medico-scientifica che nel 1960 cominciava ad essere considerata uno dei simboli del progresso: il bisturi, le luci chirurgiche e tutta l’enfasi con cui si mette l’accento su ogni elemento tecnico nella sala operatoria, non ultimo la fredda competenza del dottor Génessier (Pierre Brasseur). In un certo senso Alida Valli quasi quarant’enne che interpreta la sua assistente Louise riesce ad insinuare il dubbio che anche la bellezza considerata classica possa essere inquietante. Alle altre presenze femminili della storia il compito di introdurre il punto di vista dello spettatore: Edna (Juliette Maynel), attirata con l’inganno da Louise e addormentata col cloroformio dal dottore, si risveglierà in un vero e proprio incubo dal quale l’unico modo per uscire sarà gettarsi da una finestra. Chi invece sembra costantemente vivere in una condizione onirica è la figlia del dottor Génessier, Christiane (Edith Schob): sfigurata in seguito ad un incidente automobilistico causato dal padre, viene da questi fatta passare per morta in modo da poterla riportare in vita sotto un’altra identità. L’ambizione di Génessier è infatti quella di trapiantare un intero nuovo volto sulla faccia rovinata della figlia e per far questo non esita a rapire povere ragazze che subiranno l’atroce condanna di donare il viso alla nobile causa della medicina o più propriamente alle folli aspirazioni del dottore. L’aspetto interessante della storia è che viene mostrato come il male non sia estraneo all’umanità ma anzi si annidi spesso nei suoi aspetti considerati più lodevoli. Così come uno stimato chirurgo può essere considerato alla stregua di un volgare scienziato pazzo anche un amorevole padre può rivelarsi il peggiore degli aguzzini. Il finale non può certo definirsi lieto – è anzi particolarmente atroce la fine di Génessier sbranato dai suoi stessi cani cavie dei suoi esperimenti – ma in ogni caso si segnala per il risveglio, una presa di coscienza, da parte di Christiane, che ha il merito di mettere in moto il meccanismo narrativo per chiudere la vicenda.
Che poi era anche un po’ l’auspicio che Franju si augurava producesse il suo film: vanamente, visto che nel 1960 la voglia di fiducia della gente era probabilmente ancora troppa per rendersi conto dei rischi connessi al progresso. Adesso, però, oltre sessant’anni dopo, qualche dubbio dovremmo anche cominciare ad averlo.  
 





Edith Scob 



 Alida Valli 



Juliette Mayniel 


Béatrice Altariba 


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