592_I PILASTRI DEL CIELO (Pillars of the Sky); Stati Uniti, 1956. Regia di George Marshall.
Western che non realizza del tutto gli spunti potenziali che
pure lascia facilmente intendere, I
pilastri del cielo è una sorta di ibrido. George Marshall, regista di
solido mestiere, ci ricava un B-movie in
confezione de-luxe, con una
fotografia in technicolor dai toni
caldi tipicamente western, un sontuoso cinemascope
e una musica che, se manca del motivo ad effetto, ha però l’enfasi delle
colonne sonore dei classici del genere. Chissà, forse nelle mani di un regista
di maggiore spessore ci si sarebbe potuto cavare qualcosa di più epico. Marshall,
professionale nelle scene d’azione e nell’attenzione complessiva alla riuscita
della narrazione, purtroppo non riesce a dare il giusto peso a scene come la
morte del sergente Lloyd (Lee Marvin), o al triangolo amoroso composto dal
protagonista, il sergente Emmet (Jeff Chandler), e dal suo rivale, il capitano
Gaxton (Keith Andes), che si contendono Calla (la bellissima Dorothy Malone). Proprio
nella gestione del personaggio della Malone, che peraltro non fornisce una
prestazione all’altezza della sua fama, la storia manca un po’ di mordente e
alla fine rimane un po’ troppo sullo sfondo. Forse l’unico passaggio di un
certo peso che funziona davvero è quello nel finale in cui il dottor Holden
(Ward Bond) viene ucciso a sangue freddo da Kamiakin, capo degli indiani
ribelli. Il sacrificio di Holden, che oltre alla professione medica era anche
il predicatore che aveva convertito molti indiani della zona, sancisce la fine
della rivolta. L’azione di Kamiakin suscita infatti lo sdegno degli altri capi nativi
e uno di essi uccide a sua volta il leader della ribellione indiana. La trama
prevede quindi una serie di passaggi incisivi, almeno potenzialmente, e
Marshall,proprio sotto questo aspetto, non riesce a far decollare del tutto il suo
film.
Ma non per questo il progetto naufraga: il regista tiene in piedi bene la
storia che, oltre ai citati momenti caldi, ha anche un’impostazione
interessante ed assai originale. Innanzitutto l’inusuale ambientazione
nell’Oregon del 1868, vede al centro della scena una rivolta indiana che
coinvolge alcune tribù in genere trascurate da Hollywood: oltre ai noti Nez Percé (che altri non sono che i Nasi Forati del grande Capo Giuseppe), troviamo
infatti Cœurs d’Alène, Walla-Wallas, Umatillas, Yakama and Palouses. Gli indiani stanno dalla parte
della ragione, cosa che accade spessissimo (per non dire quasi sempre) nel
cinema americano, checché se ne dica; ma qui c’è una variabile, sono quasi
tutti convertiti al cristianesimo. E nella religione, anche grazie al
sacrificio del dottor Holden, Marshall sembra intendere l’unica via di uscita
per sanare il conflitto di civiltà tra bianchi e indiani.
A capo della comunità
religiosa c’era infatti un uomo di scienza, il dottor Holden, appunto, e alla
sua morte come sostituto viene designato il sergente Emmet. Come dire che sia
la ragione, (il dottore e la sua scienza) che la forza (il sergente è un
militare) devono prodigarsi affinché prevalga l’amore fraterno che la religione
cristiana predica. A livello profetico il film può sembrare quindi un po’
ingenuo, nel suo far affidamento alla volontà delle persone di convivere
pacificamente ma, se lo vediamo in un’altra ottica, risulta chiara la denuncia
all’operato dei bianchi durante la conquista. Nella stessa cultura dei
conquistatori c’erano infatti le ragioni e le convinzioni per evitare tragedie,
ingiustizie e spargimenti di sangue, ma in buona sostanza si preferì
opportunisticamente ignorarle. Triste consolazione, perlomeno da un punto di
vista terreno, per i nativi: così come sembra fare un po’ riferimento anche il
titolo, per loro un posto in cielo è però assicurato.
Dorothy Malone
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