573_POSTA GROSSA A DODGE CITY (A big hand for the Little Lady); Stati Uniti, 1966. Regia di Fielder Cook.
Curiosissimo western che ha i toni da commedia, Posta grossa a Dodge City del non
indimenticabile regista Fielder Cook, sorprende almeno tre volte. Ma, prima di
queste tre liete sorprese, che bisogna ammettere sono un bel gruzzolo
nell’ottica della valutazione del film, la pellicola lascia già abbastanza
spiazzati, anche se non propriamente nel senso positivo del termine. Le facce
con gli occhi strabuzzati, le espressioni eccessivamente stupefatte: lì per lì
non è che riescano tanto convincenti le interpretazioni così caricate degli attori. Poi diventa chiaro
il tema farsesco dell’opera e, soprattutto, prende piede la partita a poker che,
almeno un poco alimenta la tensione competitiva, anche se non eccessivamente.
Per altro, una volta che ci si cala nell’ottica giusta, gli attori sono
apprezzabili nella loro ‘recita teatrale’: Henry Fonda stupisce, nella fase
iniziale del suo ruolo (è Meredith), anche se ora della fine si rivelerà in linea con
il suo curriculum; e pure Joanne Woodward (Mary) è convincente, chiamata anche
lei in una parte a doppia faccia; Jason Robards (Drummond) fa il suo, ed è
protagonista di un curioso pre-finale; Robert Middleton (Wilcox) è invece strepitoso
nella sua tipica interpretazione; bene anche Burgess Meredith (il dottore),
Charles Bickford (Benson) e Kevin McCarthy (Aldo). La storia è incentrata
sull’annuale partita di poker che cinque facoltosi abitanti di Dodge City
disputano; Meredith, Mary e il figlioletto, sono coloni che passano di lì per
caso, e l’uomo, nonostante la moglie lo scongiuri di lasciar perdere, si lascia
coinvolgere dal gioco.
La cosa non è così istantanea, perché la partita è
aperta ai soli abituali cinque giocatori e la vicenda si inerpica in una serie
di sviluppi per giustificare il fatto che poi Meredith venga accettato. E qui
arriva la prima sorpresa: perché la storia tiene.
Forse complice il tema della partita a carte o il clima rallegrato dalle risate
di Wilcox o dalle stoccate di Drummond, fatto sta che non ci si annoia, questo
è certo. Poi, dalla partita esce di scena Meredith, poiché gli viene un attacco
cardiaco e, per quanto questa sia una situazione praticamente inedita nel
western, non è questo il secondo coniglio che Cook pesca dal cilindro.
Fuori
gioco Meredith, per non perdere l’intera posta (tutto i loro risparmi, che
l’uomo ha sciaguratamente puntato) Mary prende il posto del marito. Passaggio
curioso, anche per via dell’aspetto a dir poco gradevole della Woodward;
comunque sia, la donna, per far fronte all’escalation delle puntate, decide di
rivolgersi alla banca cittadina. Di passaggio per Doge City, senza alcuna
garanzia e senza essere conosciuta in paese, si reca a chiedere un prestito: la
scena comicamente assurda è rimarcata dalla fila indiana di Mary e dei suoi
compagni di gioco che si recano alla banca. Ma la sorpresa, la seconda delle
tre di cui si accennava, è che la donna, contrariamente a quanto supposto, una
garanzia da proporre al banchiere la trova: la mano di carte che ha ereditato
dal marito, quando a questi è venuto il colpo. Bella pensata, ma non sembra
bastare, né al banchiere e nemmeno al regista. E allora la terza sorpresa è
ancora più spiazzante e manda all’aria tutta l’idea che ci siamo fatti
guardando il film: quasi nulla di quanto abbiamo visto è come ci è apparso. La cosa buffa è che la ragazza ci fa un figurone, tanto da sconvolgere anche un cinico come Drummond, che finalmente torna a casa, dove era atteso da ore per il matrimonio della figlia.
L’uomo appena arrivato si apparta con colui che
doveva divenire suo genero, gli dà una mancia, gli consiglia di lasciar perdere
sua figlia e lo sprona a cercarsi una donna vera. Una come Mary, insomma.
L’unico barlume di positività nella storia: valori sani, ingegno, forza
d’animo, faccia tosta, una perfetta icona del sogno americano. Che in realtà è
un bluff. La donna, lungi dall’essere la brava ragazza intesa dai compagni del
poker, è una giocatrice d’azzardo di rango superiore ai cinque giocatori e, coi
complici, ha messo nel sacco tutti, spettatori compresi. In un dialogo, nel finale, Meredith e Mary difendono la ‘legittimità’ del bluff e sembrano anche convincere il banchiere a cui era scappata la parola imbroglio.
Ma è una teoria che fa un po’ acqua: un bluff è qualcosa
di contemplato dal gioco mentre quello a cui assistiamo assomiglia di più ad
una truffa. Certo, pare che la cosa sia motivata da una precedente ingiustizia ma, in ogni caso, la tresca non sembra troppo pulita, del resto viene tenuta
opportunamente segreta. E, in questo senso, la storia che i bluff non si
possano ‘vedere’, visto che non si è pagata la posta per poterlo fare, come fa
notare uno dei giocatori beffati, non è una scusa sufficiente per giustificare
la clandestinità con cui i quattro imbroglioni si tutelano da eventuali
rivendicazioni. Insomma, forse possiamo anche noi essere accondiscendenti per i
bellissimi occhi della Woodward, ma viene onestamente difficile parteggiare per
un banchiere del far west.
Joanne Woodward
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