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mercoledì 7 febbraio 2024

EMANUELLE E GLI ULTIMI CANNIBALI

1434_EMANUELLE E GLI ULTIMI CANNIBALI . Italia 1977; Regia di Joe D'Amato.

Il regista Joe D’Amato, al secolo Aristide Massaccesi, è, spesso additato come il cineasta italiano più prolifico di sempre, tra film diretti e di cui ha curato la fotografia. Il suo motto è riassumibile nella sua dichiarazione: «Quello che noi abbiamo sempre cercato di fare è stato dare al pubblico quello che il pubblico voleva. Con passione ed entusiasmo. E senza un filo d'ipocrisia» [Wikipedia, “Joe D’Amato”]. Questi due elementi possono fungere da coordinate per approcciare uno a caso tra i tanti film di Joe D’Amato, senza rischiare di esagerare nella valutazione severa, sul piano artistico, e nemmeno avventurarsi in un’audace operazione di rivalutazione infondata, come ultimamente spesso capita in troppi casi. Anche Emanuelle e gli ultimi cannibali può quindi essere letto in quest’ottica: un film svelto –d’altronde D’Amato girava più film contemporaneamente e non aveva tempo da perdere– e puntuale nell’andare incontro nelle esigenze del pubblico, almeno di un certo tipo di pubblico, chiaro. Sotto questo aspetto, non si può negare la capacità del regista romano di cogliere al volo le sensazioni del momento: come evidenziato già dal titolo, in Emanuelle e gli ultimi cannibali, Emanuelle (la meravigliosa Laura Gemser), protagonista di una serie di film erotico-pornografici, è alle prese, questa volta, con i cannibali. Se Emanuelle era all’apice del successo, come testimoniano i quattro film usciti in un paio d’anni, il genere cannibal italiano era appena giunto in rampa di lancio ma si apprestava a vivere il suo momento di massimo splendore. Il paese del sesso selvaggio (regia di Umberto Lenzi), considerato il capostipite del filone, era uscito ben cinque anni prima, nel 1972, ma a far esplodere la cannibal-mania era stato, a febbraio del 1977, Ultimo mondo cannibale di Ruggero Deodato. Ad ottobre di quello stesso anno, D’Amato aveva già bell’e pronto il suo film con la protagonista del momento –almeno nel suo ambito, l’esotica Laura Gemser era una vera star– che, stando al trailer, se ne sarebbe andata addirittura in Amazzonia ad incontrare una tribù di indios antropofagi. In realtà, nonostante i titoli di coda ringrazino addirittura le autorità di Tapurucuarà per la gentile collaborazione, gli esterni del film furono girati nel Lazio, per quanto reso “giungla amazzonica” sufficientemente credibile dall’abilità di D’Amato. Oltre ad alcune scene negli studi romani, il film si avvalse di alcune location newyorkesi, che il regista utilizzò più che altro come sfondo ai suoi ripetuti passaggi erotico pornografici. 

In effetti tutte le donne del cast sono esplorate nel dettaglio dalla macchina da presa di D’Amato, a partire dalla Gemser, davvero perfetta sotto questo profilo, ma anche Nieves Navarro –è Susan Scott– Monica Zanchi –è Isabel Wilkes– Cindy Leadbetter –è la ragazza sopravvissuta ai cannibali– e perfino Anne Marie Clementi –che nel film interpreta Suor Angela– devono pagare dazio ed esibire le proprie intime grazie. Agli attori maschi questa attenzione è risparmiata, probabilmente per questioni legate alla censura, con cui il cinema erotico doveva costantemente scontrarsi. Ragion per cui, regista, collaboratori e produttori dovevano stare attenti, farsi scaltri e badare al sodo: erano, in un certo senso, le regole del gioco di quel tipo di cinema. 

Ad esempio, la “faccia tosta” di D’Amato non si limita al bluff sulla presunta complicità delle fantomatiche autorità amazzoniche ma si spinge ad una dichiarazione di autenticità del racconto, che sarebbe –almeno stando alla didascalia iniziale– il fedele resoconto della giornalista Jennifer O’Sullivan. Da questo punto di vista, nonostante quelli di D’Amato siano unicamente espedienti di grana grossa, si può cogliere un riferimento che è alla base di tutto il genere cannibal italiano, ovvero quello ai Mondo-Movie. Gli pseudo-documentari che imperversarono nella penisola dagli arbori degli anni Sessanta, fondavano la loro riuscita, a fronte delle bizzarrie esotiche mostrate sullo schermo, sulla credibilità della messa in scena. In effetti, il cannibalismo è un’anomalia quasi sradicata nella cultura umana e per riportarla al centro dell’attenzione, anche in un film come Emanuelle e gli ultimi cannibali, occorre un certo sforzo narrativo. Nel suo film, D’Amato, oltre alla citata didascalia, per dare credibilità alla sua storia, utilizza la professione dei protagonisti, con Emanuelle che è giornalista e Mark Lester (Gabriele Tinti) addirittura professore antropologo. Proprio quest’ultimo, durante il primo incontro con l’avvenente reporter, per illustrare il tema, non argomenta facendo ricorso ai suoi studi accademici, ma sfodera un filmino che sembra in tutto e per tutto un Mondo-movie. Non che ci fosse bisogno di convincere Emanuelle: in un film di D’Amato, se i protagonisti “devono” andare in Amazzonia, ci andranno in ogni caso e senza perdere troppo tempo. E se i due in questione sono Laura Gemser e Gabriele Tinti, finiranno a letto in modo altrettanto automatico. 

E non saranno i soli: memorabile la scena in cui Susan, nel bel mezzo di una spedizione scientifica, si eccita guardando lo scultoreo fisico di Salvador (Percy Hogan), e lo invita ad una scappatella nella giungla. Quando il marito di lei, Donald McKenzie (Donald O’Brien) si accorge che la consorte non è nel giaciglio notturno, si mette alla sua ricerca, sotto gli occhi divertiti di Emanuelle e Mark. Il passaggio è l’occasione per esplicitare la natura voyeuristica dell’opera, con il povero Donald costretto a spiare tra le frasche moglie e occasionale amante consumare l’adulterio; il presunto cacciatore, in realtà alla ricerca di diamanti più che di prede animali, confermerà anche in seguito l’indole di guardone concentrandosi, con particolare attenzione, sul posteriore di Isabel. L’aspetto erotico, nel film di D’Amato, è straripante come del resto era lecito attendersi da un nuovo capitolo della saga con la cosiddetta Emanuelle nera e Emanuelle e gli ultimi cannibali non delude le aspettative. Tuttavia si può osservare una certa ironia complice, da parte del regista, che non è certo tipo da prendersi sul serio. Diversamente ci sarebbe da intendere la scena in cui Emanuelle accarezza il pube della ragazza del manicomio, come sorta di terapia per empatizzare con il paziente. La ragazza in questione, davvero sfortunata, era sopravvissuta ai cannibali per finire poi rinchiusa in un istituto psichiatrico ben poco accogliente. Questo aspetto delle condizioni in cui versano le pazienti del manicomio è sottolineato, in seguito, da Emanuelle, quando cerca di motivare la violenta crisi della giovane, nella quale stacca un seno a morsi ad un’infermiera, e viene, di conseguenza, legata e immobilizzata al letto. 

Un certo approccio sociale fa spesso capolino, nelle trame di D’Amato, sebbene non si debba pretendere niente di particolarmente profondo. Piuttosto, è l’ironia l’arma che l’autore utilizza con destrezza, senza strafare ma dosandola con intelligenza. Ad esempio, nel citato incontro tra la giornalista protagonista ed il professor Lester, i due, per parlare di antropofagia, vanno a pranzo. Questo parallelo tra il mangiare e il tema cannibalico è ripetuto in un pasto nella giungla, con Isabel che, a furia di sentire parlare di carne umana come cibo, quasi a scanso di equivoci, chiede che la cacciagione sia più cotta. Il linguaggio metaforico è utilizzato ripetutamente da D’Amato, anche per i suoi momenti erotici: il citato rapporto occasionale tra Susan e Salvador, inizia con la donna che si masturba guardando l’uomo che pulisce accuratamente la canna del fucile. Tornando all’ironia, posto che anche la scena appena citata non ne sia intrisa, questa è presente anche nei dialoghi, dall’augurio “in bocca al cannibale”, al fatto che i cannibali tengano in vita i prigionieri come metodo di conservazione della carne fresca. Sono fugaci momenti che provano ad alleggerire il tono della pellicola, dando al contempo un po’ di brio al racconto. In effetti, Emanuelle e gli ultimi cannibali non brilla per ritmo o capacità di coinvolgimento dello spettatore, ad essere onesti, ma ha alcuni passaggi pesanti e al contempo efficaci dal punto di vista visivo. 

Come detto, D’Amato non perde tempo e la sua trama fila dritta spedita, fatto salvo le numerose pause erotiche nelle quali il regista prova un po’ a manovrare la macchina da presa, pur senza eccessi virtuosistici fuoriluogo. La musica di Nico Fidenco, in questi frangenti, assurge a co-protagonista, con la canzone Make love on the wing, cantata con trasporto da Ulla Linder, che alimenta il clima sensuale delle scene erotiche. Nonostante ciò, nel complesso, è comunque la deriva cannibalistica a prendere il sopravvento, del resto, il citato incipit con l’aggressione subita dall’infermiera nella struttura psichiatrica, a cui, come detto, viene amputato a morsi un seno, è una chiara dichiarazione d’intenti. Ma è nel finale che il film deraglia completamente dai suoi binari erotico-pornografici per divenire un vero e proprio cannibal: capezzoli e vagine tagliate a Suor Angela e Susan, il povero Donald che finisce tranciato a metà grazie ad una versione amazzonica del tiro alla fune. Isabel, catturata dagli indios, ritorna sulla scena in una gabbia di legno, e viene posseduta dall’intera tribù ma è infine salvata dall’intervento di Emanuelle e Mark, grazie ad un astuto stratagemma. Il canotto che porta in salvo i tre sopravvissuti, tuttavia, non assomiglia affatto ad un lieto fine, ma piuttosto una fuga precipitosa della civiltà di fronte alla prepotenza della Natura.
Ma non tanto quella della giungla, piante o animali che siano: a far davvero paura è quella umana. 













   Laura Gemser 



Nieves Navarro AKA Susan Scott



Monica Zanchi 

Galleria 






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