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giovedì 9 gennaio 2020

IL VEDOVO

497_IL VEDOVO ; Italia, 1959. Regia di Dino Risi.

Alberto Sordi nel cinema italiano è praticamente un personaggio al di là del ruolo interpretato in questo o quel film: per la precisione l’Albertone nazionale è l’italiano medio, quello nel quale moltissimi abitanti dello stivale si immedesimano all’istante, nonostante, nelle sue interpretazioni, non sia praticamente mai un modello di virtù. Ma forse è proprio per questo che piace agli italiani: perché permette una immedesimazione senza sforzo, senza pericolosi e scomodi esami di coscienza a cui sottoporsi nel momento in cui ci si pensa nei panni del personaggio. Si vede cosa combina Sordi e si pensa: che bello, anch’io lo faccio! trovando così una conferma che ha il sapore di alibi per la nostra coscienza. L’italico maschio ha poi una reputazione internazionale da difendere, che onestamente spesso cozza con i risultati pratici, e quindi non poteva che issare il nostro Albertone a paladino del rapporto con le donne: ecco che dopo Il seduttore del 1954, Lo scapolo del 1955, Il marito del 1958, arriva Il vedovo, per la regia di Dino Risi. Il film è una commedia nera, e già questo la rende un po’ più interessante del solito, nella quale è impietosamente mostrata l’Italia dell'epoca con tutti i suoi limiti, nonostante si avvertano i primi segnali di ripresa industriale del dopoguerra. La storia è ambientata a Milano, dove veniamo introdotti dall’immagine della Torre Velasca, residenza milanese dei protagonisti del film; ed è un punto di riferimento quanto mai opportuno. Oltre ad essere uno dei simboli della rinascita della metropoli lombarda e dell’intera Italia, lo stile brutalista dell’edificio coglie infatti perfettamente lo spirito del tempo e del film. 

La nuda struttura in cemento e vetro, solida e senza troppi fronzoli, esprime sotto il profilo architettonico la nuova elite economica: persone capaci in campo industriale, finanziario o commerciale, come la Signora Elvira Almiraghi, interpretata da una ineguagliabile Franca Valeri. A fianco di questi individui ce ne sono altri a rimorchio: gente incapace, che si arrabatta, con gli imbrogli, le speculazioni, le conoscenze. Sono, in qualche modo, residui del vecchio tempo, di quel tempo in cui si stava meglio quando si stava peggio: lo dice lo stesso Alberto Nardi (Alberto Sordi) che del duce non si può parlare liberamente; ma il Marchese Stucchi (Livio Lorenzon), capitano sotto le armi di Alberto e ora declassato a suo tuttofare, o il tecnico Fritzmayer (Enzo Petito) addirittura un pedofilo tedesco, sembrano davvero scorie del periodo fascista. 

Del resto la fabbrica Nardi, a partire dalla sua iconografia, sembra un’industria del Ventennio: e non a caso in regime di libera concorrenza è in forte passivo. Questi due mondi sono in perenne contrasto, proprio come Elvira (da Milano) è in eterno conflitto con il marito Alberto (da Roma). Non c’è quindi praticamente possibilità di rapporti umani di stampo sentimentale, se da una parte abbiamo la fredda efficienza e dall’altro l’opportunistico tentativo di celare inefficienza. Un quadro desolante dal punto di vista umano, dover tutti i personaggi agiscono sostanzialmente per convenienza.
Sordi, si sa, è sempre e comunque costantemente fuori qualsiasi registro o forma di controllo, ma piace proprio per questa sua anarchia interpretativa, a vantaggio dei suoi tantissimi fan. Il resto del film in sé si lascia godere, anche grazie alla strepitosa interpretazione della Valeri, che appella con un quanto mai emblematico cretinetti il marito: una definizione che liquida il personaggio in modo calzante, a metà tra il disprezzo e il compatimento.
Il finale con il colpo di scena che ribalta i piani di Alberto è perfino troppo prevedibile.
Ma sacrosanto.





Franca Valeri


Leonora Ruffo




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