497_IL VEDOVO ; Italia, 1959. Regia di Dino Risi.
Alberto Sordi nel cinema italiano è praticamente un
personaggio al di là del ruolo interpretato in questo o quel film: per la
precisione l’Albertone nazionale è l’italiano medio, quello nel quale
moltissimi abitanti dello stivale si immedesimano all’istante, nonostante,
nelle sue interpretazioni, non sia praticamente mai un modello di virtù. Ma
forse è proprio per questo che piace agli italiani: perché permette una
immedesimazione senza sforzo, senza pericolosi e scomodi esami di coscienza a
cui sottoporsi nel momento in cui ci si pensa nei panni del personaggio. Si
vede cosa combina Sordi e si pensa: che bello, anch’io lo faccio! trovando così una conferma che ha il sapore di alibi per la nostra coscienza. L’italico maschio ha poi una reputazione internazionale da
difendere, che onestamente spesso cozza con i risultati pratici, e quindi non
poteva che issare il nostro Albertone a paladino del rapporto con le donne: ecco
che dopo Il seduttore del 1954, Lo scapolo del 1955, Il marito del 1958, arriva Il vedovo, per la regia di Dino Risi. Il
film è una commedia nera, e già questo la rende un po’ più interessante del
solito, nella quale è impietosamente mostrata l’Italia dell'epoca con tutti i suoi limiti,
nonostante si avvertano i primi segnali di ripresa industriale del dopoguerra.
La storia è ambientata a Milano, dove veniamo introdotti dall’immagine della
Torre Velasca, residenza milanese dei protagonisti del film; ed è un punto di
riferimento quanto mai opportuno. Oltre ad essere uno dei simboli della
rinascita della metropoli lombarda e dell’intera Italia, lo stile brutalista dell’edificio coglie infatti
perfettamente lo spirito del tempo e del film.
La nuda struttura in cemento e
vetro, solida e senza troppi fronzoli, esprime sotto il profilo architettonico
la nuova elite economica: persone capaci in campo industriale, finanziario o commerciale,
come la Signora Elvira
Almiraghi, interpretata da una ineguagliabile Franca Valeri. A fianco di questi
individui ce ne sono altri a rimorchio: gente incapace, che si arrabatta, con
gli imbrogli, le speculazioni, le conoscenze. Sono, in qualche modo, residui
del vecchio tempo, di quel tempo in cui si
stava meglio quando si stava peggio: lo dice lo stesso Alberto Nardi
(Alberto Sordi) che del duce non si può parlare liberamente; ma il
Marchese Stucchi (Livio Lorenzon), capitano sotto le armi di Alberto e ora
declassato a suo tuttofare, o il tecnico Fritzmayer (Enzo Petito) addirittura
un pedofilo tedesco, sembrano davvero scorie del periodo fascista.
Del resto la
fabbrica Nardi, a partire dalla sua iconografia, sembra un’industria del
Ventennio: e non a caso in regime di libera concorrenza è in forte passivo.
Questi due mondi sono in perenne
contrasto, proprio come Elvira (da Milano) è in eterno conflitto con il marito
Alberto (da Roma). Non c’è quindi praticamente possibilità di rapporti umani di
stampo sentimentale, se da una parte abbiamo la fredda efficienza e dall’altro
l’opportunistico tentativo di celare inefficienza. Un quadro desolante dal
punto di vista umano, dover tutti i personaggi agiscono sostanzialmente per
convenienza.
Sordi, si sa, è sempre e comunque costantemente fuori
qualsiasi registro o forma di controllo, ma piace proprio per questa sua
anarchia interpretativa, a vantaggio dei suoi tantissimi fan. Il resto del film
in sé si lascia godere, anche grazie alla strepitosa interpretazione
della Valeri, che appella con un quanto mai emblematico cretinetti il marito: una definizione che liquida il personaggio in modo calzante, a metà tra
il disprezzo e il compatimento.
Il finale con il colpo di scena che ribalta i piani
di Alberto è perfino troppo prevedibile.
Ma sacrosanto.
Ma sacrosanto.
Franca Valeri
Leonora Ruffo
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