511_IL FIGLIO DI SAUL (Saul Fia); Ungheria, 2015. Regia di Làszlò Nemes.
E’ sempre arduo l’approccio ad un film sull’Olocausto: è una
tragedia immane, quindi difficile da maneggiare,
sia per lo spettatore, ma ancor più per il regista. La componente storica è di
una tale portata, che diventa complicato sovrapporvi un trama, un canovaccio,
per rendere seguibile la pellicola; a meno di non fare un documentario storico, ma anche lì bisognerebbe capire se il
mostrare semplicemente immagini può bastare a rendere efficacemente l’immensità
dell’orrore dei lager. In ogni caso Il
figlio di Saul non è certo un documentario storico. Il film, opera prima
del regista Làszlò Nemes, è anzi qualcosa di diametralmente opposto: se un
documentario dovrebbe dare una visione oggettiva, distaccata, quello di Nemes è
un viaggio fianco fianco al protagonista, il Saul (Géza Röhrig, molto efficace
nella parte) del titolo; anzi, più che a fianco, il film ce lo fa tallonare da
vicinissimo, attaccati alle sue spalle o, in alternativa, proprio guardandolo
sull’inespressivo volto, ma sempre a distanza ravvicinata. La scelta del
formato 4:3 non ci lascia nessuno scampo: siamo a faccia faccia con Saul. L’idea
di Nemes è, cinematograficamente, geniale: per mostrare quello che non è
mostrabile, sceglie di puntare principalmente la macchina da presa non sui
forni o sui corpi degli ebrei uccisi, ma sul volto di un testimone oculare.
L’indifferenza apatica di Saul, la sua disumanizzazione, è resa magistralmente
dalla messa in scena del regista, che non ci concede nessuna tregua, proprio
come non erano concesse ai membri del Sonderkommando,
sorta di collaborazionisti ebrei operanti nei lager di cui il protagonista fa
parte.
Non c’è nessuna storia da raccontare, in questo film; come Saul siamo
costretti in un autentico inferno, e non c’è nessuna speranza, nessun fine da
perseguire. Il tentativo di rivolta, che potrebbe avere un senso narrativo,
viene vissuto con totale indifferenza da Saul, che ha però un sussulto quando
si impone di dare degna sepoltura al corpo di ragazzo in un primo momento
scampato alle camere a gas (e poi finito da un dottore nazista). Quel ragazzo
per Saul diventa suo figlio, in un tentativo estremo di riprendersi un po’ di
umanità, e un funerale un minimo degno di questo nome diventa più importante di
qualsiasi ribellione armata.
L’apparente non-senso
di quella scelta, sacrificare tutto per una cerimonia funebre, e quindi di
scarso significato pratico, vale ancora oggi come monito: misurare tutto in
termini di convenienza, può farci
perdere la nostra umanità. E questo, alla fin fine, sarebbe assai meno conveniente di quanto ci possano
apparire anche quelle spiacevoli conseguenze di alcune scelte che il nostro
senso etico/morale dovrebbe sempre imporci. L’Olocausto, con i registri di
Adolf Eichmann ben documentati e i conti in perfetto ordine, le teorie sulla
soluzione finale, nella loro distorta ottica anche deduttive se non
propriamente logiche, ma lo stesso fenomeno delle idee naziste, sviluppatesi
nella culla della cultura legata alla ragion pura, sono tutti elementi che
devono tenerci sempre in guardia.
La ragione, (e tutti i suoi derivati, buon senso,
convenienza, e perfino una sua deviazione come l’opportunismo), deve essere
sempre soggetta all’etica.
E’ un insegnamento validissimo nel nostro quotidiano. Certo, i tempi odierni, per
quanto complicati non possono competere con quelli vissuti da Saul ma, di
fronte a quello a cui assistiamo, la nostra indifferenza ha un velo che ricorda
la sua prima della cruciale e salvifica scelta.
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