506_LA LEGGENDA DEL RUBINO MALESE ; Italia, 1985. Regia di Antonio Margheriti.
Indovinello: siamo dalle parti della Malesia, c’è un pirata
che chiamano Tigre e un personaggio chiamato Yanez. No, non è il Sandokan di Sergio Sollima, ma La leggenda del rubino malese di Antonio
Margheriti. A parte questi evidenti omaggi allo sceneggiato con Kabir Bedi, il
film di Margheriti si iscrive principalmente nella scia de I predatori dell’Arca perduta, pellicola del 1981 di Steven
Spielberg che darà luogo ad una nuova corrente di film avventurosi negli anni
80. L’idea di Spielberg era certamente geniale e, oltre ai sequel del
capostipite, si contarono molti altri esempi nel genere, anche illustri come All’inseguimento
della pietra verde di Robert Zemeckis del 1984. La Immagine ,
la casa di produzione italiana di La
leggenda del rubino malese, non
poteva certo competere in fatto di budget con questi prodotti di Hollywood ma
non è tanto questo che va ad incidere sulla completa riuscita del film di
Margheriti. Perché, pur se non si tratta certo di un capolavoro, La leggenda del rubino malese è un film
divertente e appassionante, infarcito da riferimenti metalinguistici che
sottolineano la passione del regista per il suo lavoro; peccato per qualche inciampo
di troppo al di là dei prevedibili limiti di budget. Oggi, infatti, con uno
sguardo benevolo su quei tempi, si può benissimo tollerare un vulcano
posticcio; nel corso degli anni se ne sono visti anche nel cinema di Hollywood,
del resto. E chiudiamo volentieri anche un occhio per qualche approssimazione
nell’intreccio narrativo, perché ben mascherata dal ritmo incalzante, del resto
Margheriti ci sa fare. E’ certamente più faticoso accettare la scena del
bambino che discute con un serpente (un cobra
dagli occhiali), o anche l’idea che il pirata della storia, il citato
Tigre, utilizzi l’enorme rubino al centro della ricerca come ornamento del suo
copricapo invece di pensare a venderselo e usare il ricavato per organizzarsi
militarmente. Qualche perplessità anche sulla scelta dell’interprete femminile,
Marina Costa, (che è Maria Janez) la cui presenza scenica non irresistibile non
regge la parte che la storia le riserva. Va un po’ meglio sul versante
maschile, dove Christopher Connelly (nella parte di capitan Yankee) se la cava in
modo più che sufficiente, aiutato dal mestiere di Luciano Pigozzi (nel ruolo di
Gin Fizz).
L’incipit del film è un chiaro tributo a I predatori dell’Arca perduta, con cui la pellicola di Margheriti condivide
anche il periodo d’ambientazione, gli anni ’30 del XX secolo, ma poi il regista
dispensa una serie di omaggi destinati quasi tutti a produzioni italiane, non
solo cinematografiche. Qualche passaggio, specie all’inizio, richiama infatti
il genere cannibal, che ha
furoreggiato per anni nella penisola, c’è poi l’inseguimento delle auto stile poliziotteschi (sebbene in trasferta
esotica) infine Lee Van Cleef (è Warren), dopo le prime scene, si presenta
vestito di nero col cappello da cow boy proprio come nei tanti spaghetti western interpretati. Del
richiamo, anzi, dei vari richiami al Sandokan
si è detto, e già che ci siamo approfittiamone per lasciare il cinema, (visto
che quella di Sollima era una produzione televisiva), per occuparci di un altro
media citato da Margheriti. Il vestiario di capitan Yankee non può non
ricordare Corto Maltese, il fumetto
di Hugo Pratt che viveva spesso le sue avventure in luoghi esotici. Ma in tema
di fumetti, il protagonista del film richiama forse maggiormente il Mister No protagonista di una collana
scritta da Sergio Nolitta (nome d’arte di Sergio Bonelli) per i disegni, tra
gli altri, di Roberto Diso. Del resto molti passaggi narrativi del film hanno
lo spessore tipico di quelli delle
storie con le nuvole parlanti, in genere meno realistici e più confidanti nella
fantasia del lettore rispetto a quanto abitualmente avvenga nelle produzioni
cinematografiche.
Anche ricordando il passaggio del bambino col cobra, ma non
solo, in questo senso Margheriti esagera un po’ ma va detto, ad onor del vero,
che questa è una caratteristica comune a tutto quanto il filone avventuroso
degli anni 80. Anni 80 a
cui il film decide di ascriversi pienamente e non solo per gli inguardabili credits tipici del tempo: Maria Yanez,
nell’ultima scena, decide di tenersi il rubino e non cederlo al museo a cui era
destinato. Anzi, del museo sembra ironicamente nemmeno ricordarsene. Ecco, in
questa capacità opportunistica di dimenticarsi
ogni cosa, scrupoli morali compresi, per cogliere al volo le occasioni, è ben
sintetizzato il decennio del vuoto
pneumatico.
Ed è un peccato che Margheriti ci caschi in pieno.
Nessun commento:
Posta un commento