127_SFIDA INFERNALE (My darling Clementine). Stati Uniti, 1946; Regia di John Ford.
La sparatoria all’OK corral nella città di Tombstone è uno degli episodi più celebri
dell’epoca del Far West, un evento reso leggendario dalle innumerevoli cronache
che lo hanno raccontato. Il grande regista John Ford ne prende quindi spunto
per dirigere il suo Sfida infernale,
con il quale prova a riscrivere, in modo classico e personale, questo passaggio
cruciale della Storia del West e, più in generale, degli Stati Uniti d’America.
Innanzitutto c’è da rilevare un particolare inaspettato: il titolo originale
del film, My Darling Clementine suona
assai improbabile se, come sembra, si tratta di un’opera che pone la sua
attenzione su un violento scontro a fuoco. In effetti, i solerti addetti alla
distribuzione sul territorio italiano hanno pensato bene di correggere l’anomalia scelta da Ford, e
hanno optato per una definizione, Sfida
infernale, in apparenza più consona al tema dell’opera. Naturalmente
l’errore c’è stato, ma non è quello di Ford, ma di chi ha messo becco dove non
avrebbe dovuto, falsando, in fin dei conti, parte del lavoro di preparazione dello spettatore previsto dal regista. Perché Ford, che è regista
di polso, è onesto fin dal principio, dalla presentazione
dei suoi film: My Darling Clementine
non è un’opera precisamente imperniata sulla sfida tra gli Earp e i Clanton, le
due bande che si scontrarono all’OK corrall, ma piuttosto la storia di come una
cittadina (Tombstone) simbolicamente si sia evoluta, si sia civilizzata, in
seguito e grazie a quell’evento. E, in quest’ottica, la figura della ragazza
venuta dall’est, la Clementine del titolo,
che nel finale diviene la maestrina del paese, è più importante di una banale
sparatoria.
Certo, la sparatoria non è poi così banale, visto che viene
presa a modello per rappresentare come l’eliminazione della barbarie sia
necessaria a permettere lo sviluppo civile; ma è un fatto che, anche a livello
di minutaggio, Ford non dedichi poi molto tempo allo scontro a fuoco. Ma
indubbiamente l’evento clou del lungometraggio, almeno a livello spettacolare,
è la celeberrima sparatoria: c’è così quindi una sorta di contrasto già alla
base dell’opera, perché poi questo film il regista lo dedica ad una ragazza, che sin dal titolo è vezzeggiata (darling =
tesoro) e che ha un nome che è un diminutivo del termine clemente, ovvero benevolo, incline al perdono. E la ragazza,
interpretata da una Cathy Down posata e rassicurante, è davvero dolce e
comprensiva; e si farà poi ambasciatrice, come si è detto, di cultura e civiltà
assumendo il ruolo di maestra. Alla contrapposizione con la violenza della
sparatoria (titolo originale del film vs evento
che funge da richiamo), ne fa eco un’altra, più specificamente rivolta alla
ragazza. Alla compostezza della giovane venuta dall’est si contrappone
Chihuahua (una conturbante Linda Darnell), prostituta messicana (o pellerossa),
che le contende l’amore di Doc Holliday (un soffertissimo Victor Mature). Perché l’operazione di Ford è quella di espandere il confronto tra le due bande
nell’OK corrall a tema generale dell’opera,
mostrando il conflitto in atto come una sorta di reazione dalla quale scaturirà
la società americana.
Ma andiamo con ordine: il film si apre con l’arrivo
nella zona della Monument Valley di una mandria di bovini guidata dai quattro fratelli
Earp: un araldico Henry Fonda è Wyatt; Ward Bond, un habitué dei film di Ford, è
Morgan; Tim Holt è il comprimario Virgil; Don Garner è il giovanissimo James. Gli
Earp lungo la pista si incontrano con il vecchio Clanton (il mitico Walter
Brennan, qui davvero incattivito), accompagnato dal figlio Ike (Grant Withers).
Il vecchio Clanton si offre di rilevare la mandria, ma Wyatt non si dimostra
interessato a vendere: pur se il dialogo si mantiene nei canoni di una normale
trattativa, Ford è magistrale nell’infondere una tensione latente che sembra
sempre sul punto di esplodere. Si capisce subito che i Clanton non sono
abituati a ricevere ne tantomeno a tollerare rifiuti alle loro offerte.
Nel proseguo del film la definizione dei due gruppi
famigliari proseguirà nel solco già impostato in questo primo incontro: gli
Earp sono gente a modo; i Clanton sono gentaglia senza scrupoli che approfitta
della mancanza della legge nei dintorni di Tombstone per fare il bello e il
cattivo tempo. Al di là della trama, ovviamente molto ben congeniata, con il
furto del bestiame, la connessa uccisione di James Earp e l’efficace
stratagemma del medaglione che permette di provare la colpevolezza dei Clanton,
appare chiaro che, nell’ottica fordiana,
i fratelli Earp devono eliminare i Clanton che incarnano la barbarie ancora
presente nel far west e permettere
così la nascita di una società civile. Lo scontro Earp contro Clanton smette i termini di una contesa famigliare,
per divenire il manifesto della necessità di eliminare la violenza, la
prepotenza, la sopraffazione dal west, e quindi dall’America. Purtroppo, sembra dirci Ford, per farlo
occorrono uomini che sappiano usare a loro volta la violenza; gente in gamba,
che sappia il fatto proprio e che si metta al servizio della comunità. Come il
Wyatt Earp interpretato magistralmente da un Henry Fonda perfettamente calato
nella parte. Un personaggio fondamentale per permettere la costruzione di una
società civile, ma la stessa società non sembra poi riservargli un ruolo: il
suo posto è certamente quello nella galleria degli eroi fordiani. Perlomeno stando al finale, quando il nostro se ne va,
lasciando a Tombstone la timida ma determinata Clementine, promettendole sì di
tornare, ma con una promessa che somiglia un po’ troppo a quella di un marinaio.
Ma ad incarnare perfettamente il senso di questo contrasto tra la natura
violenta del west e la civiltà proveniente dall’est, è più di tutti il
personaggio di Doc Holliday. Egli è un dottore, un uomo di scienza e di cultura
che nell’est dedicava la sua vita ad aiutare il prossimo, ma la sua venuta
all’ovest lo ha trasformato non solo in un pistolero avvezzo all’alcool e al
gioco d’azzardo, ma addirittura in una sorta di boss della turbolenta cittadina
di frontiera. La bottiglia di whiskey posta proprio davanti al diploma di laurea
incorniciato, rappresenta al meglio la sua involuzione; la malattia che lo
affligge diventa a sua volta emblematica del suo degrado fisico oltre che
morale. Nel film gli arrivi rilevanti a Tombstone sono quindi tre: Doc, gli
Earp e Clementine. Doc arriva dall’est, ma non si pone come ambasciatore della
civiltà, anzi, è lui stesso a farsi corrompere dal selvaggio west. Solo quando
vede l’attore recitare Shakespeare, riaffiora in lui la sua indole nobile, a cui dovrà far ricorso anche nel
momento di operare Chihuahua, ferita a morte. Il tentativo non avrà successo: primo perché la donna è una figura
perdente nell’ottica di Ford (rappresenta il vecchio west e non l’imminente
civilizzazione), e quindi è naturale
che muoia; e poi, sempre in senso fordiano,
perché Doc è perdente a sua volta, e può solo venir buono per aiutare Wyatt nel
repulisti che va in scena all’OK corrall.
Wyatt e i suoi fratelli arrivano invece non dall’est, ma da un altro ovest: sono uomini del west, e pur
non essendo uomini di civiltà, sono
indispensabili per permettere lo sviluppo, perché si servono di quella violenza
senza la quale non si può eliminare il male,
la barbarie, ovvero i Clayton, da Tombstone. La funzionalità in questo senso di
Wyatt Earp è esemplare: egli sa sempre cosa fare, è deciso, risoluto, sbriga i
problemi senza perdersi in chiacchere. Ma pur essendo un noto esponente del
west, è un uomo rispettoso della legalità: lui stesso fa notare a Doc come
questi abbia un concetto di ordine civico
un po’ troppo parziale, sia quando scaccia dalla città in modo brutale il baro,
sia quando pretenderebbe autoritariamente di rispedire all’est Clementine, per
motivi strettamente personali. A differenza di Wyatt, che è invece fortemente
incline ad una società non solo legale, ma anche civile e moderna: la prima
cosa che fa è andare dal barbiere, cedendo progressivamente alle lusinghe di
quest’ultimo circa l’uso del profumo. Poi va alla funzione, partecipa al ballo,
tutto impomatato passeggia sotto i portici a braccetto con Clementine. Notare
come sia proprio la scena del ballo a mostrarcelo un po’ impacciato, forse
perché si trova fuori dal suo contesto naturale. Il regista è molto bravo, in
questo passaggio, perché non utilizza il campo-controcampo, come sarebbe
naturale in una scena romantica dove la partecipazione emotiva dello spettatore
è in genere utile allo scopo.
No, Ford non vuole farci vivere la scena da un
punto di vista sentimentale, ma vuole sottolineare l’imbarazzo tra i due, che
man mano aumenta in Wyatt tende a scemare in Clementine: la ripresa dei due
personaggi affiancati permette di cogliere tutte le sfumature emotive che
avvengono contemporaneamente, e pone lo spettatore come osservatore neutrale e
quindi più divertito per la lieve goffaggine dell’eroe, che partecipe su un
piano sentimentale. Wyatt è quindi cruciale per lo sviluppo di Tombstone: con
lui la città si dota non solo della legge (lo sceriffo diviene lo stesso Earp),
ma anche di una chiesa e di una maestra (quindi di una scuola), progressi che
sono permessi dalla rottura del binomio Doc/Clayton che, pur se non in accordo,
opprimeva la città sotto l’egida della violenza. Ma il vero arrivo
rivoluzionario è ovviamente quello di Clementine, che porta la vera cultura, in
quanto maestra, a Tombstone. La ragazza prova a redimere Doc (ormai fatalmente corrotto dalla violenza selvaggia
del west) ma non riesce nel suo intento; in seguito prova almeno a coinvolgere
nella civilizzazione quella componente violenta ma portatrice di valore sani,
(lealtà, senso dell’onore e del dovere) rappresentata dalla figura di Wyatt.
L’uomo è tentato di accettare questo destino, ma comunque decide di andarsene;
la rinuncia non è esplicita, ma in ogni caso quello a cui assistiamo non è
certo un lieto fine, e questo al cinema vuol dire qualcosa.
Film formalmente ineccepibile, con sequenze girate con
sublime maestria e raffinato calcolo, nella cui colonna sonora spicca la
celeberrima canzone Oh My Darling Clementine, Sfida
infernale è, oltre tutto quanto detto, soprattutto un’opera divertente e
appassionante.
Uno dei massimi capolavori della settima arte senza tema di
smentita.
Linda Darnell
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