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sabato 11 gennaio 2020

IO SONO UN CAMPIONE

499_IO SONO UN CAMPIONE (This Sporting Life); Regno Unito, 1963. Regia di Lindsay Anderson.

This sporting life, questo il titolo originale di Io sono un campione, primo lungometraggio di Lindsay Anderson, è considerato uno dei vertici del Free Cinema ma, almeno stando alle parole dello stesso autore, la sua influenza non fu tale da impedire il veloce declino di questa agitata corrente cinematografica. In effetti, questo nuovo cinema in salsa britannica, ebbe il tempo giusto per affacciarsi alla ribalta negli anni cinquanta, contestando il rigido conformismo inglese, ma già il decennio successivo la società aveva fagocitato i germi della protesta, piegandoli alle proprie convenienze con la ventata dello Swinging London, una corrente a suo modo anch’essa rivoluzionaria, ma in senso assai meno radicale e più orientata alle apparenze e alle mode.
A proposito della fine del Free Cinema, Anderson ebbe a dire: «Noi credevamo di poter trovare un buon sostegno popolare da parte del pubblico britannico, oppure di riuscire a crearlo, per gettare le basi di una solida industria nazionale. O almeno che valesse la pena di tentare. Abbiamo avuto successo per diciotto mesi. Le nostre mete non sono state condivise, in parte perché la concezione americana del cinema come divertimento era troppo radicata, in parte perché, tra gli stessi inglesi, la resistenza al cambiamento e l’accettazione del severo conformismo sociale e artistico della classe media erano troppo marcate». Se guardiamo la qualità tecnica di un film come Io sono un campione, riesce difficile capire come un genere che produceva opere di questo livello, potesse non riscontrare i favori del pubblico. Ma forse questo perché si pensa che il pubblico scelga i film come può farlo un critico o un appassionato di cinema; e questo non accade quasi mai. 

Queste parole di Anderson lasciano intendere in parte anche il limite concettuale del Free Cinema, nel momento che questi avesse avuto la pretesa di durare nel tempo. Come fenomeno contestuale ad un certo periodo, è stato un successo, e di questo Anderson, Tony Richardson e gli altri, devono essere ovviamente fieri, ma additare all’idea americana di cinema come divertimento la motivazione della fine del Free Cinema, appare una mera ricerca di alibi. Il cinema è divertimento, e non solo nella concezione americana, ma proprio nel suo essere un’arte di massa, anzi l’arte di massa per eccellenza; poi, è chiaro, ci si può divertire imparando qualcosa, e questo succede quando il cinema svolge uno dei compiti a cui è demandato come forma di comunicazione artistica collettiva. Io sono un campione è un perfetto esempio di Free Cinema: Anderson sembra imbastire una storia in cui mancano i classici elementi del cinema americano, il protagonista buono e giusto con un’impresa da compiere unitamente ad una storia sentimentale. Qui Frank Machin (un ruvido Richard Harris, premiato a Cannes), un minatore che diventa giocatore di rugby, è spaccone, scorretto, rozzo; nella sua carriera sportiva, inizialmente la sua prepotenza fisica e agonistica gli regala attimi di gloria, poi gli avversari ne prenderanno le contromisure. Volendo essere cattivi, è un po’ la metafora del Free Cinema stesso: si impone per il suo approccio anticonvenzionale, ma è un moto di rabbia, di protesta, e non ha forse lo spessore di altri movimenti cinematografici. 

E se le metafore non piacciono a Anderson e soci, va detto che anche lo sport di Io sono un campione è inevitabilmente una metafora della vita, e lo è per definizione intrinseca del concetto di sport. E quindi, almeno in questo caso, il voler apparentemente evitare il linguaggio abituale del cinema, com’è tipico nel ‘libero cinema inglese’, ovvero il rinunciare a sottotesti, interpretazioni, messaggi, finisce per venir meno. E così come  anche l’utilizzo del bianco e nero o del racconto in flashback, stratagemmi mirati a spiazzare le aspettative dello spettatore, sono anch’essi convenzioni puramente cinematografiche. 

La storia d’amore impossibile tra Frank, un autentico bifolco, e Margaret (Rachel Roberts), una vedova con due figlioletti che vive nel ricordo feticista del marito morto sul lavoro, ha il futuro che sceglie di avere un cinema che si perde nel raccontare le gesta di persone tanto miserabili. I personaggi di Io sono un campione non sono, come forse intendeva il regista, fuori dai canoni hollywoodiani perché poveri o disadattati, ma perché mancano di dignità. L’uomo che si impunta come per capriccio ad amare una donna che nulla ha da offrirgli, e la donna, personaggio forse più interessante nel suo essere almeno tentata dalla corte dell’uomo, che si ostina a rifiutarlo e che si sente insudiciata dal fatto di permettere a quell’uomo di vivere sotto il suo tetto illecitamente, sono forse esempi di reale umanità del proletariato inglese, ma che certo fa poco per meritare la ribalta di uno schermo cinematografico. E niente di meglio fanno i personaggi più facoltosi che nella storia gravitano intorno al mondo del rugby, procuratori, agenti, proprietari, fino anche alla lasciva moglie di uno di essi, Mrs Weaver (Vanda Godsell): una combriccola di faccendieri che rispetto a Frank può offrire soltanto la capacità di stare in società in modo consono alle cosiddette buone maniere di protocollo. La denuncia intrinseca a Io sono il campione è certamente efficace, e indubbiamente poté dare una svegliata ad un mondo, quello britannico, tipicamente conformista, ma mancava, non si pretende di soluzioni, ma almeno di sbocchi, speranze. Il memorabile pugno che Frank con violenza sferra sul muro per schiacciare il ragno, nel finale del film, è un ulteriore simbolo in questo senso. Efficace, si; ma definitivo.        






Rachel Roberts



        
Vanda Godsell



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