499_IO SONO UN CAMPIONE (This Sporting Life); Regno Unito, 1963. Regia di Lindsay Anderson.
This sporting life,
questo il titolo originale di Io sono un
campione, primo lungometraggio di Lindsay Anderson, è considerato uno dei
vertici del Free Cinema ma, almeno
stando alle parole dello stesso autore, la sua influenza non fu tale da
impedire il veloce declino di questa agitata corrente cinematografica. In
effetti, questo nuovo cinema in salsa britannica, ebbe il tempo giusto per
affacciarsi alla ribalta negli anni cinquanta, contestando il rigido conformismo
inglese, ma già il decennio successivo la società aveva fagocitato i germi
della protesta, piegandoli alle proprie convenienze con la ventata dello Swinging London, una corrente a suo modo
anch’essa rivoluzionaria, ma in senso assai meno radicale e più orientata alle
apparenze e alle mode.
A proposito della fine del Free Cinema, Anderson ebbe a dire: «Noi credevamo di poter trovare un buon sostegno popolare da parte del
pubblico britannico, oppure di riuscire a crearlo, per gettare le basi di una
solida industria nazionale. O almeno che valesse la pena di tentare. Abbiamo
avuto successo per diciotto mesi. Le nostre mete non sono state condivise, in
parte perché la concezione americana del cinema come divertimento era troppo
radicata, in parte perché, tra gli stessi inglesi, la resistenza al cambiamento
e l’accettazione del severo conformismo sociale e artistico della classe media
erano troppo marcate». Se guardiamo la qualità tecnica di un film come Io sono un campione, riesce difficile capire
come un genere che produceva opere di questo livello, potesse non riscontrare i
favori del pubblico. Ma forse questo perché si pensa che il pubblico scelga i
film come può farlo un critico o un appassionato di cinema; e questo non accade
quasi mai.
Queste parole di Anderson lasciano intendere in parte anche il
limite concettuale del Free Cinema,
nel momento che questi avesse avuto la pretesa di durare nel tempo. Come
fenomeno contestuale ad un certo periodo, è stato un successo, e di questo
Anderson, Tony Richardson e gli altri, devono essere ovviamente fieri, ma additare
all’idea americana di cinema come
divertimento la motivazione della fine del Free Cinema, appare una mera ricerca di alibi. Il cinema è
divertimento, e non solo nella concezione americana, ma proprio nel suo essere
un’arte di massa, anzi l’arte di massa per eccellenza; poi, è chiaro, ci si può
divertire imparando qualcosa, e questo succede quando il cinema svolge uno dei
compiti a cui è demandato come forma di comunicazione artistica collettiva. Io sono un campione è un perfetto
esempio di Free Cinema: Anderson
sembra imbastire una storia in cui mancano i classici elementi del cinema
americano, il protagonista buono e giusto con un’impresa da compiere unitamente
ad una storia sentimentale. Qui Frank Machin (un ruvido Richard Harris,
premiato a Cannes), un minatore che diventa giocatore di rugby, è spaccone,
scorretto, rozzo; nella sua carriera sportiva, inizialmente la sua prepotenza
fisica e agonistica gli regala attimi di gloria, poi gli avversari ne prenderanno
le contromisure. Volendo essere cattivi, è un po’ la metafora del Free Cinema stesso: si impone per il suo
approccio anticonvenzionale, ma è un moto di rabbia, di protesta, e non ha
forse lo spessore di altri movimenti cinematografici.
E se le metafore non
piacciono a Anderson e soci, va detto che anche lo sport di Io sono un campione è inevitabilmente
una metafora della vita, e lo è per definizione intrinseca del concetto di
sport. E quindi, almeno in questo caso, il voler apparentemente evitare il
linguaggio abituale del cinema, com’è tipico nel ‘libero cinema inglese’,
ovvero il rinunciare a sottotesti, interpretazioni, messaggi, finisce per venir
meno. E così come anche l’utilizzo del
bianco e nero o del racconto in flashback, stratagemmi mirati a spiazzare le aspettative
dello spettatore, sono anch’essi convenzioni puramente cinematografiche.
La
storia d’amore impossibile tra Frank, un autentico bifolco, e Margaret (Rachel
Roberts), una vedova con due figlioletti che vive nel ricordo feticista del
marito morto sul lavoro, ha il futuro che sceglie di avere un cinema che si perde nel raccontare le gesta di persone
tanto miserabili. I personaggi di Io sono
un campione non sono, come forse intendeva il regista, fuori dai canoni
hollywoodiani perché poveri o disadattati, ma perché mancano di dignità. L’uomo
che si impunta come per capriccio ad amare una donna che nulla ha da offrirgli,
e la donna, personaggio forse più interessante nel suo essere almeno tentata
dalla corte dell’uomo, che si ostina a rifiutarlo e che si sente insudiciata
dal fatto di permettere a quell’uomo di vivere sotto il suo tetto illecitamente,
sono forse esempi di reale umanità del proletariato inglese, ma che certo fa
poco per meritare la ribalta di uno schermo cinematografico. E niente di meglio
fanno i personaggi più facoltosi che nella storia gravitano intorno al mondo
del rugby, procuratori, agenti, proprietari, fino anche alla lasciva moglie di
uno di essi, Mrs Weaver (Vanda Godsell): una combriccola di faccendieri che rispetto
a Frank può offrire soltanto la capacità di stare in società in modo consono
alle cosiddette buone maniere di protocollo. La denuncia intrinseca a Io sono il campione è certamente
efficace, e indubbiamente poté dare una svegliata ad un mondo, quello
britannico, tipicamente conformista, ma mancava, non si pretende di soluzioni,
ma almeno di sbocchi, speranze. Il memorabile pugno che Frank con violenza
sferra sul muro per schiacciare il ragno, nel finale del film, è un ulteriore
simbolo in questo senso. Efficace, si; ma definitivo.
Rachel Roberts
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