507_LO SPERONE INSANGUINATO (Saddle the wind); Stati Uniti, 1958. Regia di Robert Parrish.
I titoli di testa di Lo
sperone insanguinato scorrono sulla dolce musica della canzone Saddle in the wind, in onore al titolo originale dell’opera, certamente più inerente al testo rispetto alla
versione italiana. L’espressione usata per intitolare il bel western di Robert
Parrish letteralmente significa sellare
il vento, facendo riferimento al vano tentativo di domare, imbrigliare,
qualcosa di ingovernabile come l’aria. Il che è certamente adeguato per
riferirsi al rapporto tra i due protagonisti del film, ovvero il maggiore dei
Sinclair, Steve (Robert Taylor), che funge da tutore allo scatenato fratello
Tony (John Cassavetes). Che si tratterà di un film che mette in scena un
rapporto contrastato, lo si può capire dall’incipit della pellicola: alla
musica soave dei titoli di testa succede infatti una scena davvero sgradevole
dove un pistolero arriva nella classica bettola del west e si mette a fare il
prepotente prendendosela con i due poveri e inoffensivi inservienti. Il ceffo
rientrerà in scena successivamente, avendo un conto da regolare con Steve, incontrando
però il fratello minore Sinclair. Il risultato dello scontro, nonostante
avvenga col fratello sbagliato, è prevedibilmente identico; ma non per questo possiamo ritenere simili tra loro
i due Sinclair. Sebbene, in genere, il vestiario dei cowboy non offra poi molte
variabili, sorprende come i due fratelli siano abbigliati in modo praticamente
uguale: ma questa omogeneità, che si somma a quella assai generica del colore
dei capelli, non fa che mettere in contrasto l’assoluta estraneità di uno
rispetto all’altro. Taylor e Cassavetes, a livello somatico, non saranno tra i
fratelli meno probabili della storia del cinema, questo magari no, ma davvero non
sono molto credibili in questa parentela.
Già la differenza di età è insolita, cosa
che, nel racconto filmico, è notata anche da Joan (Julie London), che osserva
come il maggiore si comporti più da padre che da fratello di Tony. La trama mette
a confronto un ex pistolero, che ora vuole fare semplicemente l’allevatore di
vacche, al fratello che anela invece a diventare una celebrità della pistola.
Tema certamente non originale ma il regista lo sviluppa in modo personale,
soprattutto considerando che siamo ancora negli anni cinquanta, la golden age del cinema western. Parrish
sfrutta la scelta dei suoi attori in senso metalinguistico, prendendo cioè due
attori di scuola diversa, anche per
via dell’età degli interpreti, per enfatizzare il contrasto ricercato.
Taylor è
un attore del periodo classico: alto, di bell’aspetto, dal portamento elegante,
è sicuro di sé e recita il ruolo dell’eroe americano in modo semplice ed
efficace. Cassavetes è smanioso, aggredisce la scena quasi incurvandosi
costantemente in avanti, ha lo sguardo allucinato di chi, quando è sul set, è
come in trance agonistica. E’ però anche un esempio, magari soltanto un po’
estremo, del nuovo che avanza ad
Hollywood; e di riflesso, in America. Gli anni sessanta incombono e la serafica
calma dell’eroe classico certo di essere nel giusto comincia ad incrinarsi,
mentre i personaggi problematici si fanno sempre più strada. Parrish li mette
uno a fianco all’altro e, sebbene siano fratelli e anche molto legati,
finiranno inevitabilmente uno contro l’altro. Il risultato dello scontro è
tutt’altro che scontato ed è sorprendente oltre che frutto di una riflessione
assai lucida. L’eroe classico americano è certamente più giusto, lo è per antonomasia, ma l’antieroe, pur nelle sue contraddizioni, può avere slanci di umanità
sconosciuti al primo. Tuttavia, sebbene questo sia un tema trattato in modo
egregio da Parrish (e dai suoi collaboratori, tra cui spicca l’autore del
soggetto, Rod Serling), ci sono anche altri aspetti interessanti.
Il
personaggio femminile è per la verità poco approfondito, anche se va detto che
il regista pone l’accento sulla condizione contraddittoria della ragazza della
storia: fondamentalmente scelta da Tony per il suo aspetto gradevole, deve
giustificarsi con Steve proprio per questa sua avvenenza. Ma la cosa si
esaurisce lì e in fondo è più articolata la valutazione a cui sono sottoposti i
due protagonisti de Lo sperone
insanguinato. Se appare evidente che, nell’ottica western che Parrish
imprime alla sua storia, Steve sia un personaggio decisamente migliore rispetto
al violento Tony, sorprende il giudizio negativo con cui li accomuna il patriarca della
vallata, mister Deneen interpretato da Donald Crisp. Crisp, pochi anni prima,
nel fondamentale L’uomo di Laramie
(di Anthony Mann, 1955) aveva interpretato un personaggio del tutto simile: e anche qui è un
vecchio colono che governa con la sua autorità, fondata sul diritto di
precedenza, l’intera comunità insediatasi nella vallata dopo di lui.
Steve era
al servizio di mister Deneen, con il quale condivise i turbolenti anni della
conquista dei territori: ora però il vecchio non solo era critico nei confronti
del suo ex dipendente, ma lo accomunava all’incontenibile e violento fratello. Come
poteva, un uomo che sembrava essere divenuto più saggio con l’età, tanto da
misconoscere i vecchi sistemi, non cogliere le differenze tra i due? Parrish lascia
dapprima la risposta in sospeso, poi ce ne offre una dimostrazione concreta
quando fa giungere nella valle l’erede del precedente possidente dei pascoli
dei Sinclair, Ellison (Royal Dano). Il padre di Ellison era il proprietario di
quelle terre su cui ora si estendevano molti dei pascoli utilizzati dagli
allevatori della zona, come detto, in particolar modo dai Sinclair.
L’uomo era
emigrato ma, ora, passata una ventina d’anni, suo figlio si ripresentava con un
regolare documento di proprietà e l’intenzione di installarsi sul proprio
appezzamento e dedicarsi all’agricoltura. L’accoglienza che gli riservano i due
fratelli Sinclair è si differente, ma solo nei modi: Steve intima ai nuovi
venuti di sloggiare, non intende sentir ragioni. Da parte sua Tony passa subito
alle vie di fatto, ovvero mettendo in pratica quella violenza, come forma di
intimidazione, che il fratello aveva soltanto minacciato. C’è quindi una
diversità tra i due fratelli, nelle modalità di imporre la propria volontà ma
c’è lo stesso spregio per il diritto e la giustizia. Ripensando agli indiani, e
in un western è impossibile non farlo, fa specie vedere il classico eroico
cowboy vantare il diritto di tenersi la terra semplicemente perché la sta
occupando da oltre vent’anni.
In questo senso il film di Parrish finisce per
essere quasi rivoluzionario: il filo
spinato, con cui Ellison vuole proteggere le sue colture dal bestiame, è da
sempre, nel Far West, un simbolo negativo, il simbolo di quella mal sopportata
civiltà che, con le sue leggi e i suoi divieti, arrivava a limitare la libera
vita dell’ovest. Una descrizione epica ma intrisa tanto di romanticismo quanto
di ipocrisia. E nel momento in cui Parrish toglie l’ipocrisia, anche il
romanticismo va a farsi benedire, con scorno della povera Julie London il cui
personaggio finisce per fare carta da parati, nonostante qualche blando
ammiccamento con Steve. Interessante, dunque, questo Lo sperone insanguinato, perché, mentre regge comunque benissimo la veste di western classico, è già clamorosamente moderno.
Julie London
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