500_BROOD (The Brood); Canada, 1979. Regia di David Cronenberg.
In Canada, sul finire degli anni 70, venne introdotto il
regime del tax-shelter, una sorta di
agevolazione per chi volesse investire nell’industria cinematografica.
Cronenberg ne approfitta per girare Veloci
di mestiere, film a suo modo interessante che però, in fase di
distribuzione, rimane vittima della precarietà di una situazione in cui in
tanti si approcciavano al cinema con unici scopi speculativi. Successivamente la Vision 4, una piccola società che intende
sfruttare il tax-shelter in modo più costruttivo,
si accorda con Cronenberg per produrre The
Sensitives, una versione aggiornata di Stereo,
primo lungometraggio del regista che verteva sulla telepatia. Cronenberg si
mette al lavoro in modo forsennato e si presenta allo studio con una
sceneggiatura completamente diversa: nasce così Brood. Non è che il regista sia diventato di colpo completamente
inaffidabile: è che la sua vita privata lo ha messo in una situazione di tale
stress che il suo essere autore ne paga
le conseguenze. La funzione catartica nella creazione artistica è sempre stata
riconosciuta da Cronenberg, e non potrebbe essere diversamente visto che il suo
primo film realizzato in grande stile (budget, attori di primo livello) è
palesemente autobiografico. In ogni caso la sceneggiatura ha una tale forza che
convince la produzione che avvalla il progetto per quello che sarà il primo
film veramente mainstream di
Cronenberg. I problemi famigliari del regista, la separazione, la disputa per
la custodia della figlia, si riversano completamente in Brood, in fase di stesura iniziale in modo talmente travolgente da
ostacolare la funzionalità autonoma della storia raccontata.
Ma, alla fine, Cronenberg
riesce addirittura a trovare un tale equilibrio, tra vicende personali ed esigenze
narrative, che proprio la sua storia più vissuta, più sentita, risulta sullo schermo la sua proposta di cinema più classico, almeno all’interno di un genere comunque estremo come l’horror
contemporaneo. Perlomeno fino a quel momento; e, ad onor del vero, va detto che
i film di Cronenberg fino ad allora avevano ben poco di classico. In ogni caso,
Brood è un film bellissimo: è
avvincente e, soprattutto, terrificante. Ci sono davvero molti passaggi dove la
suspense è gestita in modo magistrale e sfocia nella pura paura: Brood è la dimostrazione che Cronenberg
potrebbe tranquillamente fare film meccanicamente
paurosi di grande efficacia.
Fin qui, l’approccio del regista era stato molto
freddo, analitico; ma in Brood
Cronenberg ha la necessità di sfogare sullo schermo la tensione, la
frustrazione, la rabbia, della sua vita privata e riesce a farlo con
naturalezza sfruttando in modo mirabile il mezzo cinematografico. La struttura
del racconto, la messa in scena d’impatto, la coppia di attori importanti,
fanno di Brood un film che risponde
in pieno alle attese del grande pubblico; ma Cronenberg non rinuncia, per
questo, al suo lavoro metalinguistico, anzi. E’ proprio con questo film che
l’autore comincia a riflettere forse in modo compiuto sul suo ruolo di creatore di cinema; il tema della procreazione è infatti centrale in Brood.
E’ un po’ come se gli eventi
traumatici della vita dell’autore lo inducano ad una riflessione sulla natura
metalinguistica specifica della sua opera: con Brood Cronenberg ci rivela perché è un regista e perché i suoi film
sono così estremi. Il processo catartico permette all’artista di convertire i
propri tormenti in arte e quindi i film, che sono frutti di un parto tanto
doloroso, sono come i figli del regista. E’ un passaggio sorprendente per un
autore che, fino ad allora, era anche sembrato freddo, lucido e razionale nelle
sue gelide trasposizioni cinematografiche; ma, se da un lato una certa deriva
melodrammatica si era già intuita più volte nella filmografia del regista, è anche
vero che il processo di evoluzione artistica di Cronenberg, sempre in costante
aggiornamento, compie un salto cruciale proprio con Brood. In modo spiazzante, se fino ad allora, con i suoi film più
razionali (a loro modo) aveva cercato di dare una risposta alla natura umana, (nel
radicale senso del duello tra psiche e corpo), con Brood, il suo lavoro più intimo e personale, mette al centro della
scena la sua arte. In effetti la centralità della rappresentazione artistica ci
introduce al film in una sequenza di grande effetto, di palese ispirazione
teatrale, nella quale assistiamo ad una seduta del dottor Raglan (Oliver Reed),
profeta della psicoplasmia e autore
del best seller The shape of rage.
Ecco
che ritornano i temi cari a Cronenberg: la psicoplasmia
è la capacità della mente di mutare il corpo, nello specifico dare forma fisica
ai disturbi mentali in modo da poter essere curati. Nel fittizio libro del
dottor Raglan pare ci si riferisca alla forma, intesa come aspetto fisico,
concreto, tridimensionale, di un sentimento della mente, in questo caso la
collera. Il rapporto tra mente e corpo è quindi quello già visto, sin da Stereo, il primo sperimentale
lungometraggio del canadese, con il tentativo da parte della prima di
controllare e modificare il secondo. In Brood
questo aspetto si innesta sul processo catartico per andare a spiegare la
natura della produzione artistica, nello specifico, essendo quello di
Cronenberg un cinema metalinguistico, riferito proprio alla settima arte. I figli deformi di Nola (Samantha
Eggar) sono i film di Cronenberg: creature orrorifiche generate dalla rabbia.
E’ una confessione non da poco per quello che era apparso, almeno fino ad
allora, un autore prevalentemente razionale e controllato, sebbene poi parlasse
sempre della perdita di quel controllo. Ma se precedentemente ci aveva riferito
della società canadese come forza opprimente, con Brood Cronenberg ci rivela anche la rabbiosa reazione a questa oppressione che
cova nel suo animo più profondo.
Nel film, l’origine dell’orrore, orrore incarnato
nelle inquietanti repliche di Candice, la figlia di Nola, è legata ai
sentimenti della donna, che vive in malo modo la crisi famigliare. Cronenberg
sembra estendere questa sensazione rabbiosa in una spirale infinita: Nola e suo
marito Frank (Art Hindle) sono in crisi esattamente come lo erano stati i
genitori di lei e il finale si chiude su un’inquietante rivelazione a proposito
di Candice. E’ infetta come la madre e quindi portatrice del contagio. La spirale non è stata
spezzata.
Come detto, Brood
rappresenta un importante affinamento della tecnica cinematografica del
regista; ora può azzardare un’impostazione più convenzionale senza che questa
snaturi, svilisca, la sua singolare e alternativa poetica.
Al contrario, il
film fin qui più classico di Cronenberg è quello che completa ulteriormente il
lavoro del regista. L’importanza del cinema, come strumento di analisi, risiede
nella sua natura mutevole, nel suo essere immagini in movimento. Per
enfatizzare questo aspetto che conferisce al cinema la capacità di cogliere il
disagio, l’infezione, Cronenberg utilizza il contrasto con l’immagine fissa, la
fotografia. E’ un tema costante, nella sua filmografia, dove fino ad allora il
caso più eclatante erano state le diapositive dell’Arca di Noè in Il demone
sotto la pelle, che mostravano una situazione idilliaca, falsa e smentita
dal media cinema nel proseguo del
film. In Brood Art fotografa la
schiena di sua figlia Candice per documentarne la malattia ma in Cronenberg,
giustamente, l’immagine fissa non ha questo grande valore oggettivo. E’ solo la
capacità di indagine, di infilarsi in ogni pertugio, di inquadrare da tutti i
punti di vista, che permette al cinema di rivelare il vero stato delle cose.
Non sempre succede, per la verità; spesso anche il cinema sorvola sugli aspetti
malati della società limitandosi a mostrare quello che funziona. Ma nella
società non è tutto funzionale.
E svelare quell’anomalia è, in sostanza, il ruolo del cinema
di David Cronenberg.
Samantha Eggar
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