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lunedì 6 gennaio 2020

LA TRAVERSATA DI PARIGI

494_LA TRAVERSATA DI PARIGI (La traversée de Paris); Francia, Italia, 1956. Regia di Claude Autant-Lara.

C'è qualcosa che lascia spiazzati, in La traversata di Parigi, film di Claude Autant-Lara ambientato durante l'occupazione tedesca nella capitale francese. Certo, il film è un'opera quasi picaresca e quindi questo potrebbe anche essere normale, ma il comportamento del pittore Grandgil, uno Jean Gabin particolarmente sornione e su di giri, è davvero estroso. E' come se il suo personaggio, un pittore di buona fama, non solo compiesse la traversata nella città delle luci ma, al tempo stesso, passasse, con l’identica incurante baldanza, in una storia di contrabbando e, volendo, anche nel cinema stesso. C'è quindi un'eco di cinema metalinguistico, perlomeno nel modo in cui il personaggio principale di questa storia combina guai e li risistema (ma mai del tutto), senza pagare il conto del suo operare, almeno stando al finale. Ma andiamo con ordine: la prima traversata, quella ufficiale, vede coinvolto, oltre a Grandgil, Marcel Martin (Bourvil) che, per i traffici del mercato nero, ha l'incarico di trasportare un maiale macellato di fresco da una parte all'altra di Parigi. Essendo il suo socio abituale finito al fresco, si rivolge a Grandgil, che non conosce ma teme che possa avere una tresca con sua moglie Mariette (Jeannette Batti). L'idea è che se Grandgil è impegnato nella traversata non potrà incontrarsi con Mariette ma, oltre che basata su sospetti del tutto campati in aria, è anche azzardata, non conoscendo Marcel per niente il pittore e non sapendo quanto questi sia affidabile.

Dopo una serie di strampalate vicissitudini, a partire dal ritiro della merce presso Jambier (Louis De Funès), fino all'arresto subito dai due da parte dei tedeschi, la vicenda del trasporto si chiude con Grandgil liberato in quanto noto pittore e Martin deportato non si sa dove. Il finale del film, dal sapore un po' posticcio, vede i due uomini rincontrarsi a guerra finita, con Grandgil elegantemente vestito in viaggio e Marcel a fare il facchino alla stazione. Se non altro sappiamo che il povero borsanerista è scampato al campo di prigionia nazista ma, vederlo così male in arnese rispetto all'impettito Grandgil, lascia comunque un po' di amaro in bocca. La storia raccontata è comunque divertente, a tratti spassosa, soprattutto grazie proprio a Grandgil, davvero un mattatore. E qui facciamo un piccolo salto metalinguistico per osservare come c'è un'incursione, se non proprio una traversata, da parte del personaggio di Jean Gabin, in una struttura narrativa che si basa già su una sorta di innesto.

C'è una vicenda di borsaneraggio, nella Parigi occupata dai nazisti, un tema delicato su cui è ambientata una storia un po' farsesca, d'altra parte il droghiere che vende la merce al mercato nero è De Funès e il corriere Bourvil, quindi la deriva comica è prevedibile. Va detto che, nel 1956, scherzare su un simile argomento, l'occupazione nazista, era già una specie di azzardo ma, come detto, a rincarare la dose entra in gioco la figura di Grandgil a cui Jean Gabin regala una personalità spiazzante. Il pittore si reca forse per caso o per curiosità nel bar covo dei trafficanti e si mette subito in mostra, attirando l'attenzione prima di Mariette e poi di Marcel. Una volta assoldato nel ruolo di borsanierista, mette a soqquadro la dispensa di Jambier, che è costretto a pagarlo molto più del pattuito purché si levi dalle scatole. La prepotenza di Grandgil, in questo caso, non dà molto fastidio, essendo il mercante un individuo losco.

Ma poi, in una sosta forzata in una locanda, Grandgil prende a male parole la coppia di commercianti, rei soltanto di non voler finiti immischiati nel mercato nero o forse timorosi che i due nuovi venuti siano spie dei tedeschi. Certo, la coppia di esercenti avrà anche i suoi scheletri nell'armadio, ma siamo pur sempre in una città occupata e quindi può essere comprensibile che ci si arrangi un po'. La questione non è certo approfondita, eppure sia l'uomo che la donna vengono appellati pesantemente dal pittore che si scatena contro di loro arrivando a distruggere le bottiglie dietro il bancone. Non contento, dopo averne stigmatizzato colpe soltanto presunte, li insulta anche per il loro aspetto fisico un po' dimesso, e poi se la prende anche con gli astanti, definiti "poveri lerci", il tutto con un tono sprezzante e dispregiativo che colpisce anche Bourvil e non solo noi spettatori. Ma Grandgil non ha ancora finito: nel tragitto per trasportare il maiale da un capo all’altro di Parigi, i due passano da casa di Marcel. Il pittore ha messo la pulce nell’orecchio al povero borsanierista, e questi vuole verificare che la sua Mariette sia ritornata a casa e non l’abbia abbandonato veramente, come aveva minacciato di fare quando litigarono, in un certo senso, proprio a causa di Grandgil.

La donna sta effettivamente andandosene e quando vede arrivare il marito, si apparta non vista nel sottoscala: Grandgil attende il socio ai piedi della stessa scala e, parlando della moglie di Marcel, la definisce “povera vecchia”. Mariette ascolta nascosta dietro una tenda, a pochi passi da lui. Ora, l’attrice Jeannete Batti aveva all’epoca 35 anni, ben portati e, pur non essendo Marylin Monroe, era certamente una bella donna. Grandgil aveva già espresso il suo scarso gradimento per lei, del tutto legittimo, ma da li a definirla povera vecchia ce ne corre. Il politicamente scorretto del pittore è certamente interessante, soprattutto per l’epoca, ma in qualche caso sembra andare un po’ fuori giri.


E questo è il terzo livello della traversata, quello strettamente metalinguistico. Al cinema, almeno fino a quegli anni, si era abituati ad un quadro morale all’interno del quale si muovessero i personaggi. In questo caso c’è già una variabile non da poco, perché l’occupazione nazista legittima quelli che abitualmente possono essere considerati comportamenti scorretti. Ma l’onestà che invoca continuamente Marcel, pur in un ambito clandestino e fuori dalle leggi vigenti nella Parigi occupata, viene costantemente infranta da Grangil, che sembra infischiarsene di tutto e di tutti. Il pittore non è cattivo e quando può aiutare il socio di viaggio lo fa, così come vorrebbe rendere i soldi praticamente estorti a Jambier, ma è troppo superficiale nel combinare pasticci e anche troppo tranciante nel giudicare il suo prossimo, come nel passaggio della locanda. La figura di Grangil non sembra perciò facilmente collocabile in un contesto cinematografico: forse possiede l’irrazionalità delle persone reali e nel contrasto con una storia di genere, c’è appunto l’esperimento metalinguistico di Autant-Lara. Che, risate a parte, è difficile stabilire se possa dirsi veramente compiuto.




Jeannette Batti










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