498_IL PROFUMO DELLA SIGNORA IN NERO ; Italia, 1974. Regia di Francesco Barilli.
Il thriller
all’italiana dei primi anni settanta aveva mostrato sin da subito come fosse
possibile svincolarsi dai ferrei codici narrativi della sceneggiatura anche in
un genere che si era abituati a
pensare vi dovesse invece giocoforza sottostare. Questa consuetudine narrativa,
spesso anche deleteria, dava la possibilità all’autore di concretizzare sullo
schermo la visionarietà estrema che contraddistinse il filone cinematografico.
In genere la possibilità di non rispettare alla lettera la coerenza all’interno
della sceneggiatura, fu usata per piazzare colpi di scena del tutto imprevisti
proprio perché assolutamente imprevedibili in quanto estranei ad ogni logica
narrativa. Ma ci fu anche chi, come Francesco Barilli in Il profumo della signora in nero, utilizzò questa libertà narrativa
in modo diverso, certamente più interessante. Con un occhio al thriller
all’italiana, certo, ma con l’altro ben piantato sul cinema di Roman Polanski,
Barilli intesse la sua storia di tanti elementi, alcuni coerenti, altri meno, o
forse coerenti con la visione della realtà della sua protagonista, Silvia
Hackermann (una deliziosa Mimsy Farmer). Questa giovane ragazza ha un lavoro di
responsabilità, un fidanzato, Roberto (Maurizio Bonuglia) e una vita che sembra
filare per il meglio; siamo a Roma, ma una Roma estiva e non proprio consueta, intanto
perché sembra quasi deserta. Silvia e Roberto sono giovani, di bella presenza e
lavorano per aziende importanti: è normale, alla metà degli anni 70, che
frequentino amici o colleghi stranieri, come Andy (Jho Jhenkkins), professore
di sociologia che arriva dall’Africa. La presenza di questo personaggio sembra
un pretesto per Barilli per introdurre il tema un po’ inquietante circa le
usanze che ancora sono diffuse nel continente
nero.
Riferimenti alla magia nera, alla stregoneria: si tratta di scherzi,
per intimorire un po’ Silvia, che sembra effettivamente impressionabile. Magari
di cattivo gusto, ma rimangono pur sempre scherzi. Forse. Poi è la volta della non vedente che si spaccia per medium, o
forse lo è per davvero, in grado di leggere la mente delle persone; e questo è
un altro elemento che inquieta la povera protagonista. Si è detto che il film è
ambientato a Roma, d’estate; una Roma silenziosa, ovattata, semideserta. Il
ritmo di Barilli è calmo, la melodia di Nicola Piovani è malinconica ma, alla
lunga, diventa inquietante. Silvia ha uno screzio con Roberto, che la lascia
sola; il vicino di casa, il sig. Rossetti (Mario Scaccia), un vedovo attempato
un po’ invadente, da un lato sembra voler essere una presenza rassicurante per
la giovane, dall’altro ha un che di ambiguo. Poi c’è Francesca (Donna Jordan,
fantastica top model dell’epoca) , l’amica che abita nello stesso palazzo, ma
anche lei non ha un comportamento molto lineare. Silvia comincia ad avere
sogni, incubi, visioni, ricordi: qualcosa del suo passato era stato rimosso, e
torna ora ad affiorare. Il padre marinaio lontano da casa, la madre, la signora in nero del titolo e il brutale
uomo che era con lei…
Ma, parallelamente a questa storia che sembra ispirarsi
un po’ a Marnie di Alfred Hitchcock, anche la traccia complottista procede: Silvia nota un vaso in un negozio, è del
tutto simile a quello che aveva sua madre, quando lei era bambina. Torna
successivamente per comprarlo; la negoziante nega di aver mai avuto un simile
vaso in vetrina. Arriva un pacco a casa di Silvia: è naturalmente il vaso in
questione. Questo intreccio è un passaggio tipico del thriller all’italiana: si
danno informazioni in contraddizione, per generale nello spettatore uno spiazzamento
simile al disagio che prova il personaggio della vicenda. Per quale motivo la
negoziante ha mentito?
E chi recapita il vaso a casa di Silvia? Barilli è
bravo, perché la presenza della negoziante tra i membri di quella che si rivelerà essere una setta, pone una
sorta di pezza giustificativa
sufficiente; così come la presenza tra quelle stesse fila dell’amante della
madre riesce a colmare alcune apparenti lacune della trama. Lui era infatti a
conoscenza di molti aspetti legati all’infanzia della protagonista,
presumibilmente ignoti agli altri adepti. Oltre a ciò, costituisce il ponte ideale per le due tracce, quella sul passato di Silvia e quella
della setta. Al netto della coerenza generale della sceneggiatura e di tutti i
suoi risvolti, il regista prosegue imperterrito con le sue immagini eleganti e
raffinate e il reiterato rimando ad Alice
nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll, supporta doppiamente l’opprimente
operazione narrativa.
Da una parte ci offre un parallelo (e una implicita
giustificazione) sulla presunta assurdità degli avvenimenti, dall’altra ci
indica che Silvia, nella sua follia, sta ritornando ai tempi della sua
infanzia, tanto che ad un certo punto ritrova per casa sé stessa bambina. Dopo
il lento e avvolgente sviluppo, il finale presenta una doppia iperbole: se la
follia che ormai si è impadronita della protagonista sorprende fino ad un certo
punto, la vera chiusura è traumatizzante. Mentre prendono corpo le prove che
Silvia aveva ormai completamente perso il senno, tanto che il primo finale era
evidentemente solo frutto della sua fantasia, i personaggi visti nel film
intorno alla ragazza si scopre che sono effettivamente aggregati in una setta.
Ma, non solo.
Il passaggio più allucinante
è che si tratta di una congrega antropofaga. In questo senso acquista un significato
la presenza di Andy coi suoi discorsi sui riti africani: seppure non vengono
mai citati, è chiaro che i riferimenti alla pratica del cannibalismo
aleggiavano sulle sue parole e trovano nel finale una concreta forma visiva.
Tra l’altro, Barilli era stato co-sceneggiatore de Il paese del sesso selvaggio (di Umberto Lenzi, 1972), capostipite
del genere cannibal, che furoreggerà
in Italia per un decennio abbondante. Questa deriva de Il profumo della signora in nero è curiosa, perché l’eleganza
formale del film di Barilli sembra davvero avere poco a che spartire col tipico
cannibal-movie.
Ma si è già visto, la
cifra stilistica dell’opera del regista nato a Parma, sembra proprio la
contaminazione tra situazioni apparentemente tra loro alternative: cosa genera
i disturbi di Silvia, il suo passato o un complotto ordito ai suoi danni? Tutte
e due: il trauma infantile è alla base delle visioni, ma queste sono alimentate
dai membri della setta. Il finale con la deriva antropofaga in un certo senso
aiuta a rendere maggiormente esplicite quelle che in seguito furono le
motivazioni alla base del genere cannibalesco.
Lo sviluppo industriale e
l’imminente crisi, la violenza dilagante, il sostanziale fallimento delle
teorie sociali che avevano animano la contestazione sessantottina,
preannunciavano un re-imbarbarimento sociale (che sarebbe in effetti
sopraggiunto). Il genere cannibal
portò sullo schermo proprio queste istanze sociali; ma lo fece in un contesto
genericamente avventuroso, esotico, e quindi remoto. In effetti era un fenomeno
ambiguo: lo spettatore veniva appagato della sua fame cannibale, ma ambientando la storia nella giungla se ne teneva,
in un certo senso, sopita la coscienza. Si coglieva il fascino che la barbarie
aveva sull’uomo (post)moderno, ma la si manteneva a distanza di sicurezza.
Barilli, anche se il suo film è stilisticamente raffinato, prende il toro per le corna: c’è sì un africano nella
storia ed è cannibale, ma soltanto quanto noi.
Mismy Farmer
Donna Jordan
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