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martedì 14 gennaio 2020

NON SI SEVIZIA UN PAPERINO

502_NON SI SEVIZIA UN PAPERINO; Italia, 1972. Regia di Lucio Fulci.

Il cinema di genere italiano, che furoreggiò nelle varie declinazioni per un paio di decenni abbondanti, aveva una forte consapevolezza, una coscienza di genere, un senso di appartenenza, che aiutò e permise il proliferare dei titoli e il vigore della nostrana industria cinematografica. Certo, molte erano opere di maniera, ma nella maggioranza dei casi, la cura ai dettagli, anche marginali e insignificanti nella sostanza, e degli stilemi, era un indice dell’attenzione formale degli autori. E, specialmente nel cinema di intrattenimento, la forma è sostanza: perché gli aspetti più profondi riguardano le motivazioni che alimentano questa o quella corrente, e questo vale sia nell’ispirazione degli autori che nel gradimento degli spettatori, . Motivazioni che possono essere sociali, politiche, economiche, o altre ancora, di prassi attingendo dal periodo storico contingente; il cinema di genere si innesta nel contesto con funzione catartica e, proprio per questa sua sorta di servizio sociale, deve essere facilmente riconoscibile. Erano dunque, in questo senso, motivati i numerosi e peculiari vari cliché che ogni genere di film popolare aveva. Il thriller all’italiana cristallizzava sullo schermo le tensioni degli anni della contestazione sessantottina (e della altrettanto violenta reazione), contestazione che metteva sotto accusa proprio quel sistema borghese che fornirà le location alla stragrande maggioranza dei film della corrente. Lucio Fulci, regista prolifico e spesso dal gusto originale, aveva già all’attivo due film, Una sull’altra (1969) e Una lucertola con la pelle di donna (1971) rispettosi della tipica ambientazione alto borghese dei gialli

Per il suo più riconosciuto lavoro, Non si sevizia un paperino, cambia però le carte in tavola. Non un’area industriale, ma il mezzogiorno italiano, un paesino sperduto della Basilicata. E, apparentemente al centro di un intrigo giallo venato fortemente di splatter, una donna dedita alla magia nera, la maciara (una rinselvatichita ma comunque sensualissima Florinda Bolkan) che traffica con candele nere e riti satanici. Ma è una falsa traccia perché, ad un certo punto, salta fuori Barbara Bouchet, splendida come suo solito, e per di più nei classici vestiti alla moda tipici del gran mondo dell’epoca. 

La Bouchet interpreta Patrizia, ragazza del nord mandata lontano da casa per tenerla fuori dal giro della droga e, tra la sua presenza scenica, le sue auto esclusive (una Iso Rivolta Lele e una Autozodiaco Jumper Dune Buggy), la villa postmoderna, le visite di un ripulito Tomas Milian (il cronista Andrea Martelli), con il procedere della storia riconosciamo sempre più il classico habitat del thriller all’italiana. Immancabile, ça va sans dire, la bottiglia di J&B Scotch Whisky, vera icona imprescindibile del genere. Insomma, anche se in trasferta, il giallo non può fare a meno dei suoi luoghi comuni. Anzi, volendo, l’opera si presta meglio di altre, proprio per la sua unicità (almeno come ambientazione) a definire meglio le caratteristiche più profonde alla base del genere. 


Si è visto che il film è ambientato in un paesino tra le montagne del meridione: i titoli di testa scorrono sugli imponenti viadotti dell’autostrada, vere e proprie cattedrali del progresso tecnico. Il contrasto con il paesaggio brullo e disabitato è netto: la presenza della maciara che scava nel terreno a mani nude estraendo un cadavere di un bambino,  rincara la dose. Sarebbe facile leggervi la metafora che spieghi i delitti dei bambini raccontati nel film, con la palese arretratezza culturale della regione, messa in risalto dalle moderne infrastrutture. Ma è un’ulteriore falsa traccia. Si è detto della fuorviante presenza della maciara, dal momento che le sue superstizioni non c’entrano niente coi delitti, finanche sono sfruttate benissimo da Fulci e dalla Bolkan che, quando il suo personaggio perde il senno, sfodera un passaggio da pelle d’oca. 

La seconda ipotesi da scartare è il tema sociale, smascherato dall’autore mettendolo direttamente in bocca ad uno dei personaggi che lo usa in modo scontato e retorico. Non è che Fulci affermi che non sia vero che nell’arretratezza culturale possa risiedere l’origine del male, è che non è questo il tipo di risposta che si può trovare in un giallo. A questo punto, fuori gioco il contesto sociale e la maciara, la trama mette inevitabilmente sotto accusa Patrizia: in fondo è una tipica protagonista dei thriller all’italiana. 


Ovviamente è una terza falsa pista e il colpevole è invece don Alberto (Marc Porel) proprio un elemento che è un crocevia di tutte le diverse anime in gioco. Probabilmente originario del luogo, è però istruito; è un religioso e quindi rappresenta la tradizione, ma incarna anche la modernità (la gioventù, la passione per il calcio) e, come prete, è il centro, il cuore della comunità. Inoltre, i suoi intenti sono, in un’ottica  deviata e delirante, di salvezza per le proprie sciagurate vittime; di fatto un ribaltamento tra intenti professati e risultati ottenuti. 

Fulci sembra quindi metterci in guardia dal dare una lettura antiborghese al thriller all’italiana: se non c’è una motivazione sociale in un contesto come Non si sevizia un paperino, come può esserlo nelle abituali e moderne ambientazioni? Ma forse la chiave è nel particolare titolo, che avrebbe dovuto essere, nelle intenzioni dell’autore Non si sevizia Paperino, facendo riferimento al personaggio Disney. Più che comprensibilmente la Walt Disney si oppose e venne introdotto l’articolo un prima di paperino; ma si può notare come nei manifesti l’articolo venga in genere differito nel colore delle lettere, in modo che sia quasi naturale omettere di leggerlo. In sostanza, quello di Fulci era un invito a lasciar stare Paperino; che, in fondo, svolge un ruolo non dissimile dal cinema di genere, divertire e appassionare i suoi fruitori. Forse che l’intenzione dell’autore fosse semplicemente una richiesta di potersi divertire e far divertire, senza subire i tormenti della critica e della censura. Ribaltando così, anche in questo caso, la prospettiva: i seviziatori sono proprio coloro i quali si professano difensori del buon gusto e della morale. 



Florinda Bolkan








Barbara Bouchet









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