502_NON SI SEVIZIA UN PAPERINO; Italia, 1972. Regia di Lucio Fulci.
Il cinema di genere
italiano, che furoreggiò nelle varie declinazioni per un paio di decenni
abbondanti, aveva una forte consapevolezza, una coscienza di genere, un senso
di appartenenza, che aiutò e permise il proliferare dei titoli e il vigore
della nostrana industria cinematografica. Certo, molte erano opere di maniera,
ma nella maggioranza dei casi, la cura ai dettagli, anche marginali e
insignificanti nella sostanza, e degli stilemi, era un indice dell’attenzione
formale degli autori. E, specialmente nel cinema di intrattenimento, la forma è
sostanza: perché gli aspetti più profondi riguardano le motivazioni che
alimentano questa o quella corrente, e questo vale sia nell’ispirazione degli autori che nel gradimento degli
spettatori, . Motivazioni che possono essere sociali,
politiche, economiche, o altre ancora, di prassi attingendo dal periodo storico
contingente; il cinema di genere si
innesta nel contesto con funzione catartica e, proprio per questa sua sorta di
servizio sociale, deve essere facilmente riconoscibile. Erano dunque, in questo
senso, motivati i numerosi e peculiari vari cliché che ogni genere di film
popolare aveva. Il thriller all’italiana
cristallizzava sullo schermo le tensioni degli anni della contestazione
sessantottina (e della altrettanto violenta reazione), contestazione che
metteva sotto accusa proprio quel sistema borghese che fornirà le location alla
stragrande maggioranza dei film della corrente. Lucio Fulci, regista prolifico
e spesso dal gusto originale, aveva già all’attivo due film, Una sull’altra (1969) e Una lucertola con la pelle di donna
(1971) rispettosi della tipica ambientazione alto borghese dei gialli.
Per il suo più riconosciuto
lavoro, Non si sevizia un paperino,
cambia però le carte in tavola. Non un’area industriale, ma il mezzogiorno
italiano, un paesino sperduto della Basilicata. E, apparentemente al centro di
un intrigo giallo venato fortemente di splatter, una donna dedita alla magia
nera, la maciara (una rinselvatichita
ma comunque sensualissima Florinda Bolkan) che traffica con candele nere e riti
satanici. Ma è una falsa traccia perché, ad un certo punto, salta fuori Barbara
Bouchet, splendida come suo solito, e per di più nei classici vestiti alla moda
tipici del gran mondo dell’epoca.
Si è visto che il film è
ambientato in un paesino tra le montagne del meridione: i titoli di testa
scorrono sugli imponenti viadotti dell’autostrada, vere e proprie cattedrali
del progresso tecnico. Il contrasto con il paesaggio brullo e disabitato è
netto: la presenza della maciara che
scava nel terreno a mani nude estraendo un cadavere di un bambino, rincara la dose. Sarebbe facile leggervi la
metafora che spieghi i delitti dei bambini raccontati nel film, con la palese
arretratezza culturale della regione, messa in risalto dalle moderne
infrastrutture. Ma è un’ulteriore falsa traccia. Si è detto della fuorviante
presenza della maciara, dal momento che
le sue superstizioni non c’entrano niente coi delitti, finanche sono sfruttate
benissimo da Fulci e dalla Bolkan che, quando il suo personaggio perde il
senno, sfodera un passaggio da pelle d’oca.
La seconda ipotesi da scartare è il
tema sociale, smascherato dall’autore
mettendolo direttamente in bocca ad uno dei personaggi che lo usa in modo
scontato e retorico. Non è che Fulci affermi che non sia vero che
nell’arretratezza culturale possa risiedere l’origine del male, è che non è questo il tipo di risposta che si può trovare in
un giallo. A questo punto, fuori
gioco il contesto sociale e la maciara,
la trama mette inevitabilmente sotto accusa Patrizia: in fondo è una tipica
protagonista dei thriller all’italiana.
Ovviamente è una terza falsa pista e il
colpevole è invece don Alberto (Marc Porel) proprio un elemento che è un crocevia
di tutte le diverse anime in gioco. Probabilmente originario del luogo, è però
istruito; è un religioso e quindi rappresenta la tradizione, ma incarna anche la
modernità (la gioventù, la passione per il calcio) e, come prete, è il centro,
il cuore della comunità. Inoltre, i suoi intenti sono, in un’ottica deviata e delirante, di salvezza per le
proprie sciagurate vittime; di fatto un ribaltamento tra intenti professati e
risultati ottenuti.
Fulci sembra quindi metterci in guardia dal dare una
lettura antiborghese al thriller all’italiana: se non c’è una motivazione
sociale in un contesto come Non si
sevizia un paperino, come può esserlo nelle abituali e moderne
ambientazioni? Ma forse la chiave è nel particolare titolo, che avrebbe dovuto
essere, nelle intenzioni dell’autore Non
si sevizia Paperino, facendo riferimento al personaggio Disney. Più che
comprensibilmente la Walt Disney si oppose
e venne introdotto l’articolo un prima
di paperino; ma si può notare come
nei manifesti l’articolo venga in genere differito nel colore delle lettere, in
modo che sia quasi naturale omettere di leggerlo. In sostanza, quello di Fulci
era un invito a lasciar stare
Paperino; che, in fondo, svolge un ruolo non dissimile dal cinema di genere, divertire e appassionare i
suoi fruitori. Forse che l’intenzione dell’autore fosse semplicemente una
richiesta di potersi divertire e far divertire, senza subire i tormenti della
critica e della censura. Ribaltando così, anche in questo caso, la prospettiva:
i seviziatori sono proprio coloro i quali si professano difensori del buon
gusto e della morale.
Florinda Bolkan
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