557_I DEMONI ; Italia 1972. Regia di Sandro Bolchi.
Tre anni dopo la riuscita trasposizione televisiva de I fratelli Karamazov ad opera di Sandro
Bolchi, la Rai insiste con la stessa
formula, dando luce ad uno sceneggiato basato su un altro testo letterario di
Fëdor Dostoevskij per la regia dello stesso Bolchi. La scelta, ancora una volta
assai felice, cade su I Demoni,
romanzo fondamentale della letteratura universale oltre che della bibliografia
del geniale autore russo. Bolchi sa perfettamente come muoversi e riesce a
ricreare il mondo di Dostoevskij pur con i limitati mezzi che la televisione
dell’epoca gli metteva a disposizione; fondamentale, per far questo, il
sontuoso cast, come al solito di matrice teatrale ma ottimo anche il lavoro
alle scenografie di Maurizio Mammì e ai costumi di Maurizio Monteverde. Il
testo di Dostoevskij è, d’altra parte, molto impegnativo: I Demoni, se si riferisce letteralmente a quelli che turbano lo
spirito di Nikolaj (uno torvo Luigi Vannucchi), sono poi incarnati anche nei
membri della cellula rivoluzionaria ordita da Pjotr (Glauco Mauri,
assolutamente strepitoso). La Santa Madre Russia vede agitarsi al suo
interno gli arbori della rivoluzione che, negli intenti, vuole rovesciare il
dominio zarista. Si tratta, perciò, di intendimenti positivi, almeno in teoria;
ma a manovrarli c’è l’anima malata, di Pjotr in primis, ma in generale di una
congrega di nichilisti svogliati che discutono del futuro della nazione tanto
di nascosto in un’anomia soffitta quanto
in uno dei salotti dell’alta società ma sempre completamente sconnessi ai reali
problemi del popolo.
Ci sono, naturalmente, personaggi che credono negli ideali
della rivoluzione, come Šatov (Luigi La Monica ), del resto la
società russa dell’epoca non è di semplice decifrazione e meno ancora lo è Dostoevskij:
come sempre la psicologia e la personalità dei personaggi creati dall’autore
russo sono di assoluta profondità e, anche nella riduzione televisiva, queste
qualità non vengono meno. Com’è logico i personaggi più riusciti sono quelli su
cui Bolchi può concentrarsi di più: il Nikolaj di Vannucchi sembra, a prima
vista, il personaggio principale. Sofferto ed incupito, appare ammantato di una
sobria severità ma è poi capace di gesti sensazionali, come sposare Marja
(Giulia Lazzarini), un’imbruttita ragazza povera, zoppa e folle, per una sorta
di autoflagellazione ma, al tempo stesso, di portarsi a letto Lizaveta (una
splendida Paola Quattrini) mentre si assicura un futuro con l’affidabile Darja
(Angiolia Baggi).
E in seguito arriverà sulla scena anche Marie (Carla Greco)
la moglie di Šatov, incinta. Nello sceneggiato non è forse proprio detto
esplicitamente ma non è certo un mistero capire di chi sia la corresponsabilità
della situazione; non dell’ignaro marito, ovviamente. Sono assolutamente di Nikolaj,
come detto, anche i demoni a cui fa
letteralmente riferimento il titolo dell’opera. Rimorsi di un uomo tanto
ambiguo, per una vita vissuta coscientemente in modo dissoluto, salvo poi cavar
fuori una confessione da pelle d’oca nel finale con la quale riprendersi
definitivamente lo scettro di assoluto protagonista. Perché, nel complesso, nel
lungometraggio era emerso il costante lavoro di Pjotr che, oltre a tramare per
i suoi intrighi, in ottica metalinguistica aveva quasi soppiantato
temporaneamente Nikolaj dal centro della scena. Per la verità Pjotr sorprende
sin da subito, quando si presenta in società
per giustificare lo stesso Nikolaj e, quindi, con un intento positivo, ma si fa
scappare di bocca una clamorosa gaffe smascherando i piani del padre, Stepan
(Gianni Santuccio) che voleva sposare la giovane Darja per mero interesse. Li
per lì viene quasi da credere alla buona fede di Pjotr ma poi, nel corso del
racconto, vediamo all’opera la sua anima duplice e infingarda potendo
apprezzare l’impressionante lavoro interpretativo di Mauri, capace di
assecondare con grande capacità espressiva le finzioni, i tranelli, i doppi
giochi orchestrati da Dostoevskij per il suo personaggio. E forse sono anche le
sue tante anime, tutte finte, fasulle, i demoni
della storia.
Oppure quelli che sembrano aver lasciato Kirillov (Warner
Bentivegna), soave ma severo nichilista che pensa di essere ormai arrivato alla
verità e, per questo, ritiene di
potersi tranquillamente suicidare: un’opportunità che un manipolatore come Pjotr
saprà far tornare a proprio vantaggio. Ma i demoni
sono forse anche i frequentatori del salotto di Varvara (la bravissima Lilla
Brignone), nobili che vivono nell’agiatezza a fronte della dilagante miseria, fantasmi
del passato ma autentici vampiri del presente. Ma, dalla loro, almeno i più
conservatori, questi imbellettati personaggi hanno una coerenza di comodo che
forse, in un certo senso, li rende meno demoniaci dei veri demoni della
vicenda. Che, come detto, possono incarnarsi nei rivoluzionari sobillati da
Pjotr, inutili intellettuali che negli agiati salotti preparano il terreno per
la catastrofe che, con la rivoluzione, arriverà poi veramente.
Certo, gli
ideali erano anche positivi, come testimoniato dalla buona fede di Šatov a cui
fa da contraltare una persona gretta e opportunista come Nikolaj, individuo
tanto malsano da nascondere la sua anima nell’angolo più inaccessibile della
sua metà oscura. Ma non è comunque un pertugio abbastanza profondo. Perché sarà
proprio Nikolaj, incapace di sopportare ulteriormente il tormento che lo
perseguita, a rivelare la vera natura dei demoni
che affliggono l’intera umanità. Una rivelazione tragica, nel dipanarsi degli
ultimi istanti del racconto, che dimostra come non ci sia alcuno scampo per l’Uomo,
sia a livello individuale che sociale, se questi intenda assurgere a giudice
assoluto. Le teorie rivoluzionarie, a livello politico, rivendicavano
quell’autonomia dai poteri costituiti, la monarchia e la religione, che, a
livello individuale Nikolaj rivendica per sé, rifiutando non solo il perdono di
padre Tichon (Carlo D’Angelo), ma perfino quello di Dio o di Cristo, alla fine
della sconvolgente confessione. E’ un passaggio straordinario reso da Vannucchi
in modo memorabile: la cattiveria dell’animo umano emerge in tutta la sua
gratuita crudeltà, senza alcuna giustificazione. Non c’è, infatti, una
motivazione apparente che spinge l’uomo a commettere il suo orrendo crimine
nella situazione raccontata durante la confessione. Ma soltanto il piacere di
fare qualcosa di malvagio senza un effettivo tornaconto e nella totale
impunità.
Come provocare involontariamente la punizione di una bambina e non
far nulla per evitargliela quando si potrebbe. Salvo poi dimostrarsi magnanimi
nei confronti della piccola e approfittare nella maniera più bassa e sconcia
della sua ingenua gratitudine. E infine abbandonarla quando la consapevolezza
della gravità dell’accaduto l’aggredirà. Ma, per quanto infame, è un
comportamento umano, quello di Nikolaj: perfettamente umano e non demoniaco. E potrebbe
trovare una salvifica soluzione nella richiesta di perdono e nel rapporto con
gli altri, che Dio o Cristo
rappresentano. Il demonio è piuttosto nel pensiero di poter affrontare da solo
un’enormità come questa, perché nella propria anima si può solo trovare una
soluzione, che non è certo l’assoluzione ma è per forza una definitiva
espiazione che equivale alla propria negazione. E, a livello politico, sarà
proprio questo lo stesso destino a cui andrà incontro la Russia , nel momento in
cui deciderà di lasciarsi guidare da questi demoni in chiave politico/sociale.
DOSTOEVSKIJ TRA LETTERATURA E TELEVISIONE: I DEMONI
a cura di Antonio Gatti
Besy, il titolo nell’originale
russo, già offre degli spunti interessanti per la comprensione dell’opera.
Infatti il termine, non indica tanto i demoni in senso generico, come figure
infernali, “dantesche” (per quello il russo usa, esattamente, come noi, Demony)
, ma più specificatamente il demone tentatore, il demone del peccato. Colui
insomma, che più che fuori da noi si trova dentro. Non a caso a fare da
prologo al romanzo è una citazione evangelica, l’episodio dell’indemoniato
geraseno, nel quale Gesù libera un uomo da una “legione” di demoni che si
trasferisce allora in un branco di porci: demoni che, come un virus, non
possono esistere se non dentro un essere vivente e lo terrorizzano con la
convinzione che quella parte “demoniaca” non sia esterna ma radicata fortemente
nella sua personalità. Con la convinzione quindi, non solo di essere capace di
male con un gesto di libero arbitrio, ma di essere egli stesso il male.
Se nell’episodio dell’indemoniato geraseno la Legione di demoni si
sposta dall’essere superiore a quello inferiore, dall’uomo ai porci, nel
romanzo, in un certo senso accade l’inverso e il “male” si propaga dal basso
verso l’alto. In fondo I demoni è la storia di come l’influsso delle
generazioni più anziane possa essere benefico, o al contrario devastante, per
quelle più giovani. Nel caso del romanzo, e questo è un aspetto che il regista
Bolchi coglie molto bene, l’influsso negativo è quello della rottura con la
propria terra, le proprie radici, il proprio sangue. Infatti i primi ad essere
introdotti sono Stepan Trofimovic Verchovenskij e il suo club di più o
meno annoiati intellettuali che si danno posa di progressisti, che leggono
libri occidentali e brindano alla libertà delle nazioni europee contro la
tirannia che opprime la
Russia.
Una teoria che, pur pretendendo di essere un salto
qualitativo della vita, porta alla morte. Parlo anche naturalmente di Shatov,
in un certo senso il contraltare di Kirillov; con la sua slavofilia e la sua
fede ostentata, sì, ma non vissuta. Una fede che è posta al servizio della
politica e che non sgorga dall’intimo ma è un effetto del grande fascino che
Nikolaj Stavrogin esercita su di lui (come su tutti gli altri “demoni”). Parlo
poi, ovviamente, di Pjotr Stepanovic Verchovenskij, un grande Glauco Mauri,
sicuramente l’attore che centra meglio il personaggio (ed è un gran complimento
visto che sono praticamente tutti centrati).
Verchovenskij è il demone “globale”, colui che mette in dubbio tutto,
Dio, patria, famiglia; non esiste nulla che meriti serietà o rispetto per
Verchovenskij, nemmeno le sue stesse idee, nemmeno il suo stesso padre.
Terrorista, egli combatte per nulla, disprezzando allo stesso modo le vecchie
idee e le nuove, il passato e il futuro. Nel figlio si vedono le estreme
conseguenze del “gioco” iniziato dal padre. Dal gioco dell’abbattimento dei
valori, all’abbattimento del concetto di “valore”. In una cosa sola sembra
credere Verchovenskij: in Nikolaj Stavrogin, la cui personalità affascina e
soggioga anche lui, al punto da investirlo di attese messianiche come il mitico
personaggio del folklore russo, Ivan Zarevic.
Sequenza questa molto
forte del romanzo che è anche uno dei picchi dell’arte di Glauco Mauri nello
sceneggiato. Naturalmente i due livelli “demoniaci” corrispondono a fasi reali
della “ribellione” russa all’assolutismo, che Dostoevskij criticava proprio per
la sua assenza di valori positivi col quale sostituire quelli che voleva
distruggere e per i suoi elementi “stranieri” occidentali. Il circolo di Stepan
Trofimovic corrisponde agli ambienti liberali e occidentalizzanti fatti da
grandi proprietari e cortigiani che premevano per vaghe concessioni da parte
dello zar. Verchovenskij e i “demoni” sono in un certo senso la trasposizione
letteraria del movimento dei narodniki , romantici rivoluzionari che
presto ricorreranno al terrorismo e all’assassinio come regola di lotta.
Dostoevskij anticipa anche, ma non vivrà abbastanza per vedere, le logiche conseguenze
di questa escalation: il movimento rivoluzionario russo verrà preso in mano,
infine, da gente che, come Lenin e Trotskij, spenderà gran parte della loro
giovinezza in Occidente, e importerà in Russia idee internazionaliste e
estranee a qualsiasi “tradizione”.
Ma c’è un personaggio che è al di fuori in un certo senso da
questo processo storico: il passaggio finale del demone tentatore, il terzo
livello, non è generazionale, ma qualitativo. Il demone entra in una
personalità particolare, forte, misteriosa, superiore a quella degli Shatov e
dei Verchovenskij. Nikolaj Stavrogin è ispirato all’anarchico russo Mikhail
Bakunin, un uomo che in effetti si era messo anche storicamente al di fuori del
movimento socialista dell’epoca (fu il grande rivale di Marx alla prima
Internazionale).
Luigi Vannucchi, ottimo attore fa del suo meglio per rendere
la figura di Stavrogin e in parte riesce nel difficilissimo compito. Lo
Stavrogin del romanzo è più giovane, più imponente fisicamente del Vannucchi
che però riesce a convogliare nello spettatore l’idea di grande superiorità di
Stavrogin rispetto agli altri personaggi e al contempo di grande tormento
interiore, di vero tormento interiore, laddove i Kirillov, gli Shatov a
suo confronto sembrano ragazzini. Il cognome Stavrogin deriva dal greco stauròs,
croce, un riferimento che nessun ortodosso poteva ignorare. Come
Dostoevskij abbia potuto associare un termine così perfettamente cristiano a un
personaggio che si macchierà di peccati tra i più atroci (pedofilia, suicidio),
peccati contro i quali lo stesso Cristo ebbe parole durissime, è una delle
chiavi per leggere il romanzo. Nella “confessione da Tichon”, brano prima
espunto dal romanzo per il suo contenuto, poi infine messo in appendice,
Stavrogin risulterà l’unico tra tutti i personaggi del romanzo, che infine si
assumerà pienamente le responsabilità dei suoi atti, confessando anzi di essere
tormentato quasi fisicamente da quell’orrendo peccato. Di fronte alla proposta
penitenziale di Tichon, Stavrogin sceglie, ancora una volta, l’alternativa più
radicale e negativa: il suicidio. Ma anche in quest’atto tragico, nel quale non
riesce a cogliere il perdono di Dio e cede alla disperazione, Stavrogin
dimostra la sua superiorità rispetto agli altri protagonisti lasciando un biglietto
col quale si accolla non solo i propri peccati, ma anche quelli di tutti i
Demoni del romanzo: Non accusate nessuno, sono stato io.
Paola Quattrini
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