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giovedì 23 aprile 2020

I DEMONI

557_I DEMONI ; Italia 1972. Regia di Sandro Bolchi.


Tre anni dopo la riuscita trasposizione televisiva de I fratelli Karamazov ad opera di Sandro Bolchi,  la Rai insiste con la stessa formula, dando luce ad uno sceneggiato basato su un altro testo letterario di Fëdor Dostoevskij per la regia dello stesso Bolchi. La scelta, ancora una volta assai felice, cade su I Demoni, romanzo fondamentale della letteratura universale oltre che della bibliografia del geniale autore russo. Bolchi sa perfettamente come muoversi e riesce a ricreare il mondo di Dostoevskij pur con i limitati mezzi che la televisione dell’epoca gli metteva a disposizione; fondamentale, per far questo, il sontuoso cast, come al solito di matrice teatrale ma ottimo anche il lavoro alle scenografie di Maurizio Mammì e ai costumi di Maurizio Monteverde. Il testo di Dostoevskij è, d’altra parte, molto impegnativo: I Demoni, se si riferisce letteralmente a quelli che turbano lo spirito di Nikolaj (uno torvo Luigi Vannucchi), sono poi incarnati anche nei membri della cellula rivoluzionaria ordita da Pjotr (Glauco Mauri, assolutamente strepitoso). La Santa Madre Russia vede agitarsi al suo interno gli arbori della rivoluzione che, negli intenti, vuole rovesciare il dominio zarista. Si tratta, perciò, di intendimenti positivi, almeno in teoria; ma a manovrarli c’è l’anima malata, di Pjotr in primis, ma in generale di una congrega di nichilisti svogliati che discutono del futuro della nazione tanto di nascosto in un’anomia soffitta  quanto in uno dei salotti dell’alta società ma sempre completamente sconnessi ai reali problemi del popolo. 
Ci sono, naturalmente, personaggi che credono negli ideali della rivoluzione, come Šatov (Luigi La Monica), del resto la società russa dell’epoca non è di semplice decifrazione e meno ancora lo è Dostoevskij: come sempre la psicologia e la personalità dei personaggi creati dall’autore russo sono di assoluta profondità e, anche nella riduzione televisiva, queste qualità non vengono meno. Com’è logico i personaggi più riusciti sono quelli su cui Bolchi può concentrarsi di più: il Nikolaj di Vannucchi sembra, a prima vista, il personaggio principale. Sofferto ed incupito, appare ammantato di una sobria severità ma è poi capace di gesti sensazionali, come sposare Marja (Giulia Lazzarini), un’imbruttita ragazza povera, zoppa e folle, per una sorta di autoflagellazione ma, al tempo stesso, di portarsi a letto Lizaveta (una splendida Paola Quattrini) mentre si assicura un futuro con l’affidabile Darja (Angiolia Baggi). 

E in seguito arriverà sulla scena anche Marie (Carla Greco) la moglie di Šatov, incinta. Nello sceneggiato non è forse proprio detto esplicitamente ma non è certo un mistero capire di chi sia la corresponsabilità della situazione; non dell’ignaro marito, ovviamente. Sono assolutamente di Nikolaj, come detto, anche i demoni a cui fa letteralmente riferimento il titolo dell’opera. Rimorsi di un uomo tanto ambiguo, per una vita vissuta coscientemente in modo dissoluto, salvo poi cavar fuori una confessione da pelle d’oca nel finale con la quale riprendersi definitivamente lo scettro di assoluto protagonista. Perché, nel complesso, nel lungometraggio era emerso il costante lavoro di Pjotr che, oltre a tramare per i suoi intrighi, in ottica metalinguistica aveva quasi soppiantato temporaneamente Nikolaj dal centro della scena. Per la verità Pjotr sorprende sin da subito, quando si presenta in società per giustificare lo stesso Nikolaj e, quindi, con un intento positivo, ma si fa scappare di bocca una clamorosa gaffe smascherando i piani del padre, Stepan (Gianni Santuccio) che voleva sposare la giovane Darja per mero interesse. Li per lì viene quasi da credere alla buona fede di Pjotr ma poi, nel corso del racconto, vediamo all’opera la sua anima duplice e infingarda potendo apprezzare l’impressionante lavoro interpretativo di Mauri, capace di assecondare con grande capacità espressiva le finzioni, i tranelli, i doppi giochi orchestrati da Dostoevskij per il suo personaggio. E forse sono anche le sue tante anime, tutte finte, fasulle, i demoni della storia. 

Oppure quelli che sembrano aver lasciato Kirillov (Warner Bentivegna), soave ma severo nichilista che pensa di essere ormai arrivato alla verità e, per questo, ritiene di potersi tranquillamente suicidare: un’opportunità che un manipolatore come Pjotr saprà far tornare a proprio vantaggio. Ma i demoni sono forse anche i frequentatori del salotto di Varvara (la bravissima Lilla Brignone), nobili che vivono nell’agiatezza a fronte della dilagante miseria, fantasmi del passato ma autentici vampiri del presente. Ma, dalla loro, almeno i più conservatori, questi imbellettati personaggi hanno una coerenza di comodo che forse, in un certo senso, li rende meno demoniaci dei veri demoni della vicenda. Che, come detto, possono incarnarsi nei rivoluzionari sobillati da Pjotr, inutili intellettuali che negli agiati salotti preparano il terreno per la catastrofe che, con la rivoluzione, arriverà poi veramente. 

Certo, gli ideali erano anche positivi, come testimoniato dalla buona fede di Šatov a cui fa da contraltare una persona gretta e opportunista come Nikolaj, individuo tanto malsano da nascondere la sua anima nell’angolo più inaccessibile della sua metà oscura. Ma non è comunque un pertugio abbastanza profondo. Perché sarà proprio Nikolaj, incapace di sopportare ulteriormente il tormento che lo perseguita, a rivelare la vera natura dei demoni che affliggono l’intera umanità. Una rivelazione tragica, nel dipanarsi degli ultimi istanti del racconto, che dimostra come non ci sia alcuno scampo per l’Uomo, sia a livello individuale che sociale, se questi intenda assurgere a giudice assoluto. Le teorie rivoluzionarie, a livello politico, rivendicavano quell’autonomia dai poteri costituiti, la monarchia e la religione, che, a livello individuale Nikolaj rivendica per sé, rifiutando non solo il perdono di padre Tichon (Carlo D’Angelo), ma perfino quello di Dio o di Cristo, alla fine della sconvolgente confessione. E’ un passaggio straordinario reso da Vannucchi in modo memorabile: la cattiveria dell’animo umano emerge in tutta la sua gratuita crudeltà, senza alcuna giustificazione. Non c’è, infatti, una motivazione apparente che spinge l’uomo a commettere il suo orrendo crimine nella situazione raccontata durante la confessione. Ma soltanto il piacere di fare qualcosa di malvagio senza un effettivo tornaconto e nella totale impunità. 

Come provocare involontariamente la punizione di una bambina e non far nulla per evitargliela quando si potrebbe. Salvo poi dimostrarsi magnanimi nei confronti della piccola e approfittare nella maniera più bassa e sconcia della sua ingenua gratitudine. E infine abbandonarla quando la consapevolezza della gravità dell’accaduto l’aggredirà. Ma, per quanto infame, è un comportamento umano, quello di Nikolaj: perfettamente umano e non demoniaco. E potrebbe trovare una salvifica soluzione nella richiesta di perdono e nel rapporto con gli altri, che Dio o Cristo rappresentano. Il demonio è piuttosto nel pensiero di poter affrontare da solo un’enormità come questa, perché nella propria anima si può solo trovare una soluzione, che non è certo l’assoluzione ma è per forza una definitiva espiazione che equivale alla propria negazione. E, a livello politico, sarà proprio questo lo stesso destino a cui andrà incontro la Russia, nel momento in cui deciderà di lasciarsi guidare da questi demoni in chiave politico/sociale.    


DOSTOEVSKIJ TRA LETTERATURA E TELEVISIONE: I DEMONI 

a cura di Antonio Gatti

Besy, il titolo nell’originale russo, già offre degli spunti interessanti per la comprensione dell’opera. Infatti il termine, non indica tanto i demoni in senso generico, come figure infernali, “dantesche” (per quello il russo usa, esattamente, come noi, Demony) , ma più specificatamente il demone tentatore, il demone del peccato. Colui insomma, che più che fuori da noi si trova dentro. Non a caso a fare da prologo al romanzo è una citazione evangelica, l’episodio dell’indemoniato geraseno, nel quale Gesù libera un uomo da una “legione” di demoni che si trasferisce allora in un branco di porci: demoni che, come un virus, non possono esistere se non dentro un essere vivente e lo terrorizzano con la convinzione che quella parte “demoniaca” non sia esterna ma radicata fortemente nella sua personalità. Con la convinzione quindi, non solo di essere capace di male con un gesto di libero arbitrio, ma di essere egli stesso il male.
Se nell’episodio dell’indemoniato geraseno la Legione di demoni si sposta dall’essere superiore a quello inferiore, dall’uomo ai porci, nel romanzo, in un certo senso accade l’inverso e il “male” si propaga dal basso verso l’alto. In fondo I demoni è la storia di come l’influsso delle generazioni più anziane possa essere benefico, o al contrario devastante, per quelle più giovani. Nel caso del romanzo, e questo è un aspetto che il regista Bolchi coglie molto bene, l’influsso negativo è quello della rottura con la propria terra, le proprie radici, il proprio sangue. Infatti i primi ad essere introdotti sono Stepan Trofimovic Verchovenskij e il suo club di più o meno annoiati intellettuali che si danno posa di progressisti, che leggono libri occidentali e brindano alla libertà delle nazioni europee contro la tirannia che opprime la Russia. 

Gianni Santuccio è perfette nel rendere Stepan Trofimovic con la sua supponenza intellettuale un po’ bonaria, con i suoi proclami roboanti, ma vuoti e innocui. Per questa intelligentsia di uomini di mezz’età, abbienti e possidenti, il progressismo è solo una posa, un modo come un altro per tirare sera e per giocare “ai ribelli” ma ovviamente senza esporsi realmente in una lotta sociale nella quale -tra l’altro- sarebbero i primi a rimetterci i loro averi e la loro posizione. Nello sceneggiato di Bolchi si cerca di riprodurre l’acida ironia di Dostoevskij nei confronti di questo gruppo, ma nel complesso la figura di Stepan Trofimovic ne esce (leggermente) meglio che nel romanzo. Quest’aria di pseudo-progressismo, però, se per i padri è poco più di un gioco, per i figli è qualcosa che avrà un effetto devastante: e questo è il secondo livello di ascesa dei “demoni” da un corpo (in questo caso socio-generazionale) ad un altro. Giocando a far finta di mettere in dubbio i valori più profondi, Stepan Trofimovic e la sua cricca, hanno allevato una generazione che a quei valori non crede più per davvero. Ma, drammaticamente, non riesce a sostituirli con altri. Parlo naturalmente dell’ateo “candido” Kirillov, interpretato da Walter Bencivegna, il quale riesce a rendere benissimo le contraddizioni di un personaggio che -si sente benissimo- vorrebbe poter credere (è l’unico che conserva un’icona del Salvatore in casa, e a Bolchi non sfugge il dettaglio) ma non riesce ad affidarsi a una religione percepita come dottrinaria e superata e si contorce ad elaborare una teoria sulla “liberazione dell’uomo” dove confluiscono un po’ i grandi temi filosofici e letterari dell’epoca, da Nietzsche a Goethe, una sorte di religione atea. 

Una teoria che, pur pretendendo di essere un salto qualitativo della vita, porta alla morte. Parlo anche naturalmente di Shatov, in un certo senso il contraltare di Kirillov; con la sua slavofilia e la sua fede ostentata, sì, ma non vissuta. Una fede che è posta al servizio della politica e che non sgorga dall’intimo ma è un effetto del grande fascino che Nikolaj Stavrogin esercita su di lui (come su tutti gli altri “demoni”). Parlo poi, ovviamente, di Pjotr Stepanovic Verchovenskij, un grande Glauco Mauri, sicuramente l’attore che centra meglio il personaggio (ed è un gran complimento visto che sono praticamente tutti centrati).  Verchovenskij è il demone “globale”, colui che mette in dubbio tutto, Dio, patria, famiglia; non esiste nulla che meriti serietà o rispetto per Verchovenskij, nemmeno le sue stesse idee, nemmeno il suo stesso padre. Terrorista, egli combatte per nulla, disprezzando allo stesso modo le vecchie idee e le nuove, il passato e il futuro. Nel figlio si vedono le estreme conseguenze del “gioco” iniziato dal padre. Dal gioco dell’abbattimento dei valori, all’abbattimento del concetto di “valore”. In una cosa sola sembra credere Verchovenskij: in Nikolaj Stavrogin, la cui personalità affascina e soggioga anche lui, al punto da investirlo di attese messianiche come il mitico personaggio del folklore russo, Ivan Zarevic. 

Sequenza questa molto forte del romanzo che è anche uno dei picchi dell’arte di Glauco Mauri nello sceneggiato. Naturalmente i due livelli “demoniaci” corrispondono a fasi reali della “ribellione” russa all’assolutismo, che Dostoevskij criticava proprio per la sua assenza di valori positivi col quale sostituire quelli che voleva distruggere e per i suoi elementi “stranieri” occidentali. Il circolo di Stepan Trofimovic corrisponde agli ambienti liberali e occidentalizzanti fatti da grandi proprietari e cortigiani che premevano per vaghe concessioni da parte dello zar. Verchovenskij e i “demoni” sono in un certo senso la trasposizione letteraria del movimento dei narodniki , romantici rivoluzionari che presto ricorreranno al terrorismo e all’assassinio come regola di lotta. Dostoevskij anticipa anche, ma non vivrà abbastanza per vedere, le logiche conseguenze di questa escalation: il movimento rivoluzionario russo verrà preso in mano, infine, da gente che, come Lenin e Trotskij, spenderà gran parte della loro giovinezza in Occidente, e importerà in Russia idee internazionaliste e estranee a qualsiasi “tradizione”.
Ma c’è un personaggio che è al di fuori in un certo senso da questo processo storico: il passaggio finale del demone tentatore, il terzo livello, non è generazionale, ma qualitativo. Il demone entra in una personalità particolare, forte, misteriosa, superiore a quella degli Shatov e dei Verchovenskij. Nikolaj Stavrogin è ispirato all’anarchico russo Mikhail Bakunin, un uomo che in effetti si era messo anche storicamente al di fuori del movimento socialista dell’epoca (fu il grande rivale di Marx alla prima Internazionale). 

Luigi Vannucchi, ottimo attore fa del suo meglio per rendere la figura di Stavrogin e in parte riesce nel difficilissimo compito. Lo Stavrogin del romanzo è più giovane, più imponente fisicamente del Vannucchi che però riesce a convogliare nello spettatore l’idea di grande superiorità di Stavrogin rispetto agli altri personaggi e al contempo di grande tormento interiore, di vero tormento interiore, laddove i Kirillov, gli Shatov a suo confronto sembrano ragazzini. Il cognome Stavrogin deriva dal greco stauròs, croce, un riferimento che nessun ortodosso poteva ignorare. Come Dostoevskij abbia potuto associare un termine così perfettamente cristiano a un personaggio che si macchierà di peccati tra i più atroci (pedofilia, suicidio), peccati contro i quali lo stesso Cristo ebbe parole durissime, è una delle chiavi per leggere il romanzo. Nella “confessione da Tichon”, brano prima espunto dal romanzo per il suo contenuto, poi infine messo in appendice, Stavrogin risulterà l’unico tra tutti i personaggi del romanzo, che infine si assumerà pienamente le responsabilità dei suoi atti, confessando anzi di essere tormentato quasi fisicamente da quell’orrendo peccato. Di fronte alla proposta penitenziale di Tichon, Stavrogin sceglie, ancora una volta, l’alternativa più radicale e negativa: il suicidio. Ma anche in quest’atto tragico, nel quale non riesce a cogliere il perdono di Dio e cede alla disperazione, Stavrogin dimostra la sua superiorità rispetto agli altri protagonisti lasciando un biglietto col quale si accolla non solo i propri peccati, ma anche quelli di tutti i Demoni del romanzo: Non accusate nessuno, sono stato io. 





Paola Quattrini













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