458_ZODIAC (Zodiac); Stati Uniti, 2007. Regia di David Fincher.
Lo Zodiac protagonista
del film di David Fincher è naturalmente uno dei più famosi serial killer
statunitensi, che si firmava appunto così. Nella prima parte della pellicola,
si può anche dire che ne sembri l’argomento principale, l’obiettivo su cui è
puntata la macchina da presa del regista: l’identità del killer è tenuta
nascosta, ma i tre personaggi principali girano intorno a lui. C’è il
poliziotto Dave Toschi (Mark Ruffalo), c’è il giornalista Paul Avery (Robert
Downey Jr.); ah, e poi c’è anche un vignettista, tale Robert Graysmith (Jake
Gyllenhall), che sembra non aver nulla a che fare con la storia ma,
curiosamente, è il primo dei tre ad entrare in scena. Ed è un indizio mica da
ridere, perché è lui, il vero protagonista del film. Lui, il ritardato (come lo chiamano in ufficio),
lui quello che è scadente nel fare il suo lavoro (semplici vignette, ma che non
vengono nemmeno apprezzate), lui quello che si intestardisce per scoprire il
codice con cui Zodiac scrive i suoi messaggi, ma viene battuto da una coppia di
semplici appassionati di enigmistica. Poco più di un buono a nulla, in
sostanza; cocciuto, però.
La vicenda reale di Zodiac,
da cui prende spunto il film, è irrisolta: una questione simile a quella
inglese di Jack lo squartatore o alla
nostra del mostro di Firenze, che da
sempre animano l’immaginazione di molti che si appassionano a cercare di
scoprire le identità di questi serial-killer.
Ma nella storia di Zodiac sembra ci sia una consapevolezza, se così si può
dire, maggiore: il maniaco dà l’impressione che, volontariamente, non abbia un modus-operandi, per non offrire una
traccia concreta alle indagini.
Tant’è che basta un semplice dato per capire
la nebulosità in cui si mossero gli inquirenti: 5 furono le vittime accertate,
ben 37 quelle prese in considerazione. E’ evidente che il labile contorno nel metodo di
lavoro del criminale permise a millantatori di ogni genere di essere
potenzialmente credibili, rendendo ancora più arduo il lavoro di indagine. Certo
ci furono inefficienze nell’organizzazione delle indagini tra le varie forze di
polizia locali, come giustamente è mostrato nel film di Fincher. Ma, al di là
di alcuni errori, non era affatto un caso semplice da risolvere, anche perché
il killer dello zodiaco sembrava
giocare consapevolmente con gli inquirenti; e, in una simile situazione, la
gravità delle accuse implica quasi in automatico un maggiore scrupolo
nell’identificazione del colpevole.
Un errore di giudizio e la conseguente
condanna di un innocente, per una serie di crimini tanto gravi, sarebbe infatti
imperdonabile. Questi aspetti sono forse latenti, in Zodiac, il film di Fincher, ma al tempo stesso ne sono presupposti
fondamentali; e sono anche quelli che Toschi cerca di far capire a Graysmith,
il quale, ad un certo punto, decide di indagare personalmente e di scrivere un
libro in proposito. Nel film la traccia poliziesca vede Toschi protagonista: il
poliziotto ha ispirato Steve McQueen in Bullitt,
e quindi c’è un esplicito richiamo al genere cinematografico. L’altro filone della settima arte che viene in parte richiamato (già dai caratteri di
stampa dei titoli di testa e delle didascalie) nel film di Fincher è quello
delle investigazioni giornalistiche, con Graysmith che si affianca ad Avery;
sebbene la coppia non funzioni certo come quella Robert Redford & Dustin
Hoffman in Tutti gli uomini del
presidente.
Non il poliziesco, non l’indagine giornalistica: Zodiac si fonda sulla ricerca
dilettantistica, sull’analisi sorretta dall’ottusa costanza dell’uomo della strada che, senza titoli
di studio o professionali che ne qualifichino il lavoro, insiste provando, in
sostanza a casaccio, a stabilire le sue teorie. (Ricorda una pratica molto
attuale e diffusa, in effetti). Addirittura surreale quando, insieme ai figlioletti, coinvolti da lui
nell’indagine in mancanza di altri collaboratori, nota una (assai presunta) coincidenza
astrale, secondo la quale, Zodiac agirebbe
in prossimità dei cicli lunari. In pratica ogni omicidio, vero o presunto,
di Zodiac, ogni sua lettera o telefonata (vera o presunta) occorre all’incirca
(un po’ prima o anche un po’ dopo) un cambio di fase. E, visti i 37 casi
sospettati, a cui sommarsi le lettere e le telefonate, tenendo conto dei
contorni labili della coincidenza astrale (da qualche giorno prima a qualche
giorno dopo) si può concludere che sarebbe strano avere pochi riscontri. Ma
questo è lo spirito dell’indagine di Graysmith: che, per guadagnare credito, rilascia
interviste nella veste di scopritore del
nuovo codice usato da Zodiac; tanto ormai, della coppia di appassionati di
enigmistica, che avevano già decifrato quello precedente, non si ricorda più
nessuno.
Tra periti calligrafici che assumono o perdono attendibilità a seconda
della bisogna, e impronte digitali che non confermano i sospetti ma vengono
ignorate, si arriva alla conclusione. Mano male che in mezzo c’è anche un
passaggio cinematograficamente forte, quando il nostro eroe si reca nello
scantinato di un possibile testimone, che per un attimo sembra invece poter
essere addirittura il killer. Questo, nello specifico, è un buon passaggio, sebbene
la mano del regista sembri solida in generale; soltanto il tema è troppo
dispersivo. In ogni caso la fiammata è solo una divagazione e Graysmith può
proseguire imperterrito; d’altronde l’aveva promesso alla moglie: si sarebbe
fermato solo identificando Zodiac con certezza.
E allora, ragionando da uomo
semplice, Graysmith assembla tutte le coincidenze possibili e impossibili, e
riesce ad essere convincente, persino con lo scettico Toschi. E la sua
conclusione non può che essere che Zodiac è il sospettato principale: Leigh
Allen. E le perizie calligrafiche? E le impronte digitali? Inezie, quando il
nostro può guardare negli occhi Allen, il killer
dello zodiaco.
Conclusione: un libro basato su un’indagine di questo tipo,
diviene un best-seller.
E non importa nemmeno se in seguito un’analisi di un reperto
di DNA non confermi questa tesi. Oggi il cittadino,
l’uomo comune, vuole sapere, pretende di conoscere la verità, e non è
interessato a come si costruisce una accusa seria e provata.
Se ci sono forti
indizi, perché tergiversare. E anche Fincher, quando tira fuori l’epilogo,
sembra confermare questo nuovo modo di intendere il diritto.
O almeno così sembra.
In Canada, un poliziotto pone finalmente la fotografia di Leigh Allen ad uno dei testimoni sopravvissuti agli attacchi di Zodiac. Stai a vedere che Graysmith, il ritardato, ci ha preso (almeno secondo Fincher). Il testimone vede la foto di Allen e lo riconosce; o forse no… la forma del viso è quella di un altro sospettato… No, aspetta: ora si è convinto che sia certamente lui.
In Canada, un poliziotto pone finalmente la fotografia di Leigh Allen ad uno dei testimoni sopravvissuti agli attacchi di Zodiac. Stai a vedere che Graysmith, il ritardato, ci ha preso (almeno secondo Fincher). Il testimone vede la foto di Allen e lo riconosce; o forse no… la forma del viso è quella di un altro sospettato… No, aspetta: ora si è convinto che sia certamente lui.
Insomma, non sembra proprio una
deposizione granitica, ma poi alla fin fine il testimone si dice sicuro ad un
livello 8 su una scala di 10. Può bastare? Forse, ma chissà se Fincher si
ricorda che questo testimone sicuro
all’80%, è quello dell’inizio del film, quello che vede Zodiac in piena notte con una torcia elettrica pienamente puntata
in faccia… ovvio che si, il film è il suo. Ma allora il regista che fa? Ritira
la mano ancora prima di tirare il sasso? Si accontenta, deliberatamente, di convincere anche noi, con il suo film, all'ottanta percento? O, forse, come cantava Celentano, si
limita ad un grazie, prego, grazie,
scusi, tornerò.
Mah.
Intanto il thriller non è più quello di Seven.
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