488_I MIGLIORI ANNI DELLA NOSTRA VITA (The best years of our life); Stati Uniti, 1946. Regia di William Wyler.
In genere i colossal,
i film che hanno alle spalle un’ingente produzione, hanno matrice storica o
comunque legata ad un evento di grande portata che giustifichi il dispendio di
grandi cifre economiche. In questo senso, I
migliori anni della nostra vita può essere inteso come una sorta di colossal in borghese. Il film di William
Wyler racconta il ritorno a casa, negli Stati Uniti, di tre veterani della
seconda guerra mondiale. Il film ha una maestosità monumentale, e non solo per
i 172 minuti della durata, ma di fatto racconta il dopo; ci parla solo indirettamente dell’evento storico per
eccellenza del periodo, la seconda guerra mondiale, ma si sofferma su quello
che accade dopo il suo termine. E’ un argomento molto meno altisonante, meno
cinematografico: sotto l’obiettivo del regista di origine tedesca c’è il
reinserimento dei reduci e le loro difficoltà. La maestosità trae la sua
origine dal soggetto, con tre storie che si intrecciano e interagiscono tra
loro; ma è dovuta soprattutto alla messa in scena, alla regia di Wyler
supportata alla grande dalla fotografia (in uno splendido bianco e nero) di
Gregg Toland. Wyler lavora in modo sapiente con la luce, dove si riconosce la
scuola tedesca espressionista, e compone alcune sequenze davvero straordinarie.
Memorabili quelle in cui indugia anche eccessivamente con una scena in primo
piano, mentre sullo sfondo si svolge un’altra azione che attira maggiormente
l’occhio: ci si rende allora conto che, sia la musica suonata dal piano nel bar
o la celebrazione del matrimonio, pur se in sé un po’ noiose, non stancano,
perché la nostra attenzione è puntata alle loro spalle.
E questa coralità
esplicitata da queste immagini, è un po’ la cifra di un film che coglie
splendidamente lo spirito dell’America del tempo, con tutti i suoi risvolti, le
sue speranze e le sue frustrazioni. Una fotografia ad ampio respiro di un paese
che la guerra aveva trasformato rendendolo molto più consapevole; si vedano a
tal proposito i riferimenti alle conoscenze dei figli di Al Stephenson
(Fredrich March, Oscar per questa interpretazione), uno dei tre veterani. Altre
scene stupende sono quella in cui Stephenson trasforma un discorso da ubriaco
in una puntuale accusa alle regole del buon
senso bancario, oppure quella iniziale in cui ci si rende conto che Homer
(Harold Russell) è un mutilato e non un lavativo. Con questo ruolo Russell si
guadagna non uno ma ben due Oscar, uno per come miglior attore non protagonista
e uno speciale, visto che l’attore è un vero mutilato di guerra.
Wyler gli
ritaglia alcuni spazi adeguati nel film, ma in particolare una scena quasi
documentaristica, dove il giovane mostra alla fidanzata (e allo spettatore) le
difficoltà della sua condizione. Wyler è molto bravo a non cadere mai nella
commiserazione; in questo lo aiuta l’attrice Cathy O’Donnell nella parte di Wilma,
la fidanzata del marinaio, tutta tesa nel tentativo di gestire l’impulso di
mostrare i propri sentimenti senza ferire l’orgoglio dell’uomo. Nel cast anche
le brave Myrna Loy, che recita dall’alto della sua classe, e Teresa Wright, più
combattuta, rispettivamente nei panni di moglie e figlia di Al Stephenson. Il
terzo veterano è Fred Derry (l’ottimo Dana Andrew), forse il personaggio più
centrale alla vicenda: sposato ad un’autentica pin-up (la favolosa Virginia
Mayo), trova le difficoltà più classiche del reinserimento post-bellico.
Partito per la guerra con un lavoro non particolarmente qualificante, il
commesso presso un gelataio, ha visto il suo prestigio crescere sotto le armi,
durante le quali eccelle come pilota e arriva al grado di capitano. Al momento
del suo ritorno, non sembra intenzionato a tornare al precedente lavoro: alla fine
vi sarà costretto, finendo alle dipendenze del suo vecchio subalterno e
scoprendo come, con la società cambiata, fare il commesso non gli permetterà
più la bella vita (e la bella moglie ivi connessa) di prima. I compagni hanno
situazioni differenti: Al paga sul momento il tempo perso (i figli cresciuti
che gli sono estranei) ma, sul lavoro, si vede addirittura aumentato il
curriculum. Nella banca in cui lavora sono infatti ansiosi di sfruttare la
sua esperienza al fronte per valutare le richieste di prestito da parte dei
reduci di guerra. Per Homer è un caso diverso, in quanto le pesanti mutilazioni
cambiano in modo radicale i presupposti personali, e quindi i mutamenti sociali passano in secondo piano. E' quindi la condizione di Fred che mostra il problema forse
più rilevante che affliggeva i reduci, legato al fatto che la guerra è stato un potente
acceleratore dello sviluppo della società, basti pensare al ruolo della donna,
passata da casalinga alle dipendenze del marito a fonte di forza lavoro
produttivo indispensabile nell’industria bellica. Il ritorno del pilota, lo
trova infatti inadeguato rispetto ad una società molto più emancipata rispetto
a quella che l’uomo aveva lasciato al tempo dell’arruolamento. Lo scotto è reso
più accentuato dalle aspettative legate ai meriti guadagnati sul campo di
battaglia, che vengono invece cancellati di colpo: Fred, partito quando era un
lavoratore inserito nella società, ha visto crescere il suo stato sociale sotto
le armi; al suo ritorno, non solo perde questo livello, ma retrocede ad uno
inferiore a quello di partenza. Tra le interpretazioni, da rilevare che per la Mayo viene ritagliato un
ruolo di scarso spessore psicologico, ma l’attrice se la cava comunque
egregiamente, prendendosi il privilegio della battuta che da’ il titolo al
film.
Come si suol dire, la classe non è acqua ed è impossibile
relegarla dietro a meri stereotipi.
Mirna Loy
Theresa Wright
Cathy O'Donnell
Virginia Mayo
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