472_LO SPIONE (Le doulos); Francia, Italia 1962. Regia di Jean-Pierre Melville.
Se si cerca in un dizionario francese/italiano, il termine doulos non lo si trova; eppure è nel
titolo originale del film Lo spione,
di Jean-Pierre Melville, un’opera in lingua d’oltralpe. Non lo si trova perché
è un termine gergale, (per doulous si
intende cappello, e lo si usa per
indicare gli informatori della polizia) tipico di quell’argot (gergo, appunto) di
cui è intriso l’omonimo libro della Serie
Noir (polizieschi editi da Gallimard) di Pierre Lesou. Quello stesso argot che Melville ha, nella sua
trasposizione cinematografica, eliminato minuziosamente dai dialoghi della
sceneggiatura; lasciandolo però, nel titolo. C’è quindi, sin da subito, una
piccola contraddizione, nel lavoro di Melville; un procedere in due direzioni
opposte, lasciando le espressioni gergali nel titolo, ma poi evitando di
ricorrervi nel lungometraggio. E non è un metodo casuale o uno stratagemma
estemporaneo, ma un dettaglio di una più ampia strategia tesa a creare una
particolare atmosfera, che il critico cinematografico Rui Nogueira chiama sortilegio, di cui Lo spione è intriso. Ad esempio, la storia è ambientata in Francia,
ma tutti i dettagli, dalla cabina telefonica al bar, ai serramenti degli uffici,
alle auto dei protagonisti, tutto quanto il décor
urbano rimanda alle metropoli americane, ma è inserito senza strappi in una
vicenda che conserva una sua identità transalpina. Ne risulta un’atmosfera
strana, sfasata: credibile, contemporanea eppure non propriamente domestica.
Ci
si rende conto che quanto vediamo non appartiene alla nostra quotidiana realtà,
la Francia di
tutti i giorni non è quella mostrata da Melville, eppure sullo schermo abbiamo
qualcosa non solo di assai plausibile ma, almeno in ambito cinematografico, di addirittura
famigliare, per via del cinema americano. Magistrale, poi, la scena
nell’ufficio del commissario Clain (Jean Desailly): oltre 9 minuti e mezzo
senza stacchi all’interno di un locale che riproduce un tipico ufficio di
polizia americano per l’interrogatorio a Silien (uno strepitoso e giovanissimo
Jean Paul Belmondo). A parte le difficoltà tecniche, (con la mdp in costante movimento e la troupe
costretta ai salti mortali per non rimanere catturata in qualche riflesso delle
tante finestre del locale, senza contare i problemi legati alla recitazione per
via della durata della scena), il punto nevralgico è che, praticamente, Melville
mette anche noi nella stanza senza darci alcuna via di uscita (nessuno stacco,
nessun fotogramma nero) perché è il momento chiave del film. E se questo è un
film sulla menzogna (del resto bisogna
scegliere…morire…o mentire? è la frase con cui Melville avverte i suoi spettatori all’inizio),
quei 10 minuti scarsi senza tagli del formidabile piano-sequenza, sono un’oasi apparentemente senza bugie: se il
cinema è l’arte della finzione, del falso, il cuore di esso si concretizza
proprio nei tagli in sala di montaggio.
Ma in realtà anche quella sequenza è un
falso, in quanto cinema,
evidentemente: infatti, se il continuo girare in tondo della macchina da presa
di Melville sembra volerci dimostrare che non c’è nient’altro di quello che
appare sullo schermo, è ovvio che gli operatori, dannandosi l’anima per non
venire ripresi, nel locale ci sono eccome. E quindi questa sequenza simbolo ci
da’ le esatte istruzioni dell’opera: dalle parole del commissario Clain
apprendiamo molti dettagli dell’intrigo narrativo, ma poi, alla fin fine, la
situazione mantiene fin troppe zone d’ombra. Del resto, simbolicamente, la
lunga scena senza stacchi sembra voler dimostrare di essere credibile, ben
sapendo che proprio l’ostentazione di ciò (sottolineata dalle continue svolte e
panoramiche della mdp) evidenzia
piuttosto una matrice ambigua (perché finge di mostrare tutta la stanza, ma
opportunamente non coglie mai gli operatori).
Come evidenziato dalle parole del commissario nella
ricostruzione dello scontro a fuoco che vede coinvolto l’ispettore Salignari,
l’attenzione alla trama e ai suoi passaggi narrativi è ben congegnata, degna di
un film americano di genere. Tutto lo
sviluppo sembra dar credito alle informazioni che abbiamo avuto durante la
sequenza nell’ufficio di Clain: Silien è lo spione, l’informatore della
polizia. Del resto Silien è un tipo ambiguo, lo si può dedurre da come tratta
le donne della vicenda: brutale e manesco con Thérèse, la moglie di Maurice, e
scaltro e opportunista con Fabienne, con la quale non esita a sfruttare l’ascendente
che ha su di lei per ottenere quanto gli serve. Quando poi sembra che abbia
sistemato ogni cosa, e si sia impadronito del bottino in ballo ed eliminato i
concorrenti, Silien si rivela invece un leale amico di Maurice, ribaltando
completamente l’ottica di tutto il racconto filmico precedente.
L’ambiguità con
cui Melville aveva condotto le danze gli permette questo rovesciamento di
prospettiva in modo plausibile. Il delicato gioco ad incastro narrativo
soddisfa pienamente le esigenze narrative, ma Melville si è comunque ricavato
un piccolissimo spazio per introdurre il classico granello di sabbia, che manda
tragicamente all’aria i piani di Silien.
Alla fine, perderanno (la vita) tutti quanti.
Melville ci aveva avvisato: bisogna scegliere…morire…o mentire? E, a fronte dei possibili dubbi
ancora aleggianti sulla trama, arriva anche la conferma della sincerità di
Silien: quando ha smesso di mentire, è morto.
Meno male che il cinema non smette mai.
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