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domenica 7 marzo 2021

SHARON'S BABY

773_SHARON'S BABY (I don't want to be born)Regno Unito1975. Regia di Peter Sasdy.

Se dovessimo attenerci al suo contenuto puramente come film, Sharon’s Baby faticherebbe ad arrivare alla sufficienza. Il lungometraggio si lascia vedere, per la verità, ma sono troppi i passaggi che vanno oltre a quella nota sospensione dell’incredulità necessaria per guardare un horror con derive fantastiche (o demoniache che siano) e riuscire a goderselo. Il bambino protagonista è un neonato e, per quanto robusto possa essere, viene davvero difficile credere che possa combinare tutto il macello che mette in piedi. Detto questo, va riconosciuto che quello dei bambini posseduti è un tema scivoloso, sebbene negli anni settanta fosse di gran moda. I bambini, che rispetto all’adulto o all’adolescente sono comunque qualcosa di altro, possono avere sì una deriva inquietante, per lo spettatore cinematografico medio; ma abitualmente non nel senso di incutere una paura fisica manco fossero Jack lo squartatore. In ogni caso, come detto, nei seventies fiorì una mezza corrente cinematografica dedicata all’argomento: da Rosemary’s Baby (1968, di Roman Polanski) a L’esorcista (1973, di William Friedkin) per citare i due casi più importanti (e con ben altri risultati rispetto a Sharon’s Baby, questo sia chiaro). Peter Sasdy, il regista incaricato di dirigere I don’t want to be born (questo il titolo originale del film), conosceva il genere horror e, dal punto di vista strettamente tecnico, evita di affrontare il problema più importante. E’ una scelta tutto sommato saggia: non sapremo mai come diamine faccia il neonato a compiere le sue cruente imprese ma perlomeno non si frana completamente nel ridicolo, che era il rischio maggiore. Per spostare l’attenzione da uno spettacolo vacillante, Sasdy strizza ripetutamente l’occhio al suo pubblico, con una serie di rimandi e citazioni che infarciscono il film cercando di sopperire alle carenze sul tema principale. 

La ricerca della complicità con lo spettatore, mediante un uso metalinguistico dell’opera, indica che l’autore è consapevole del valore relativo del suo film; oltre a chiedere in un certo senso comprensione, cerca di incanalare il discorso su un piano di mero intrattenimento per fan o appassionati del genere. Uno stratagemma anche legittimo e non del tutto abusato, all’epoca; questo va riconosciuto. Detto ciò, oltre ai citati film sul tema dei bambini posseduti, va almeno ricordato anche Baby Killer (1974, di Larry Cohen) che sembra essere il riferimento maggiore dell’opera di Sasdy. I due interpreti principali, nei panni dei genitori del piccolo, introducono invece altri riferimenti. Joan Collins è Lucy, la madre (in effetti di Sharon non c’è traccia e il titolo scelto dai distributori italiani sembra un rimando piuttosto macabro alla vicenda di Sharon Tate, moglie di Polanski); Ralph Bates è Gino, il padre, il cui nome è spiegato dalle origini italiane. La Collins, vera star della pellicola, era ormai una veterana dell’horror britannico dei settanta; nel film si sfrutta la sua proverbiale voglia di emancipazione per una sorta di critica al modello di vita un po’ disinibito del tempo. Lucy, infatti, è un’ex ballerina di un locale di quart’ordine redenta dall’incontro con Gino; un po’ sorprendentemente apprendiamo che l’ultimo giorno di nubilato aveva deciso di spassarsela con il suo ex compagno, Tommy (John Steiner), che il night club lo gestiva. 


Siccome il bambino problematico era nato dopo nove mesi esatti il matrimonio, un dubbio sulla paternità affiora nella mente di Lucy. La questione non è molto approfondita, Tommy se la cava con una graffiata sul muso da parte del piccolo che, per una volta, sembra avere l’approvazione della madre. Ma questa sembra una falsa pista buona per allungare il brodo; più rilevante il rapporto di Lucy con il nano Ercole (George Clayton) che si esibiva con lei nel locale di spogliarelli. Ora i rimandi di Sasdy ci riportano assai più indietro, nel tempo, ovvero allo splendido Freaks (1932, regia di Tod Browing). Come nel film culto di Browing, anche qui c’è una bella donna al centro di uno spettacolo (vagamente circense, in effetti) e c’è un nano che l’ama (che, guarda caso, si chiama Ercole, come il forzuto di Freaks), naturalmente non corrisposto. 

Nel capolavoro degli anni trenta la donna era ben consapevole del raggiro ai danni del suo innamorato, in questo Sharon’s Baby Lucy ferisce Ercole senza rendersene conto. E’ un atteggiamento superficiale, da parte della donna, che in effetti riconosce, a posteriori, la propria mancanza di sensibilità. La Collins sembra presa apposta per questo ruolo incarnando, come attrice, la figura di donna piuttosto disinibita, quasi che questo fatto sia una colpa da scontare con la maledizione che l’amante illuso e deluso le scaglia poi contro. Si tratta di un’interpretazione del film del tutto opinabile, sia chiaro: ma, nel caso avesse un fondamento, assai discutibile. Anche Ralph Bates aveva un discreto curriculum in seno all’horror inglese dei seventies e, curiosamente, aveva già recitato proprio con Joan Collins in Paura nella notte (1972, di Jimmy Sangster). Il riferimento a questo film è d’obbligo, visto che il personaggio di Bates fa l’identica fine: morto impiccato. Il clima citazionista è confermato anche dal resto del cast, composto prevalentemente da attori che abbiano già frequentato il genere: Donald Pleasence, Caroline Munro e perfino Hilary Mason. Il già citato John Steiner era invece un habitué del cinema di genere italiano, a cui Sasdy fa parallelamente un po’ l’occhiolino. 


L’attenzione che viene data a certi particolari, come le automobili (una splendida Fiat 124 Sport Coupé è la macchina di Gino, una Ford Capri GT MkII quella di Tommy) era uno dei cliché del cinema popolare italiano degli anni settanta, con il quale quello di Sasdy rivendica quindi una sorta di parentela. Nel complesso Sharon’s Baby è quindi un film curato in molti dettagli, perfino centrato coi tempi nel suo mettere in discussione la figura principe della famiglia, il figlio, che altri non era se non il frutto di un’istituzione sociale al tempo in evidente crisi. Non male la scelta autoreferenziale in seno all’horror come genere cinematografico, all’epoca niente affatto scontata. Manca clamorosamente, purtroppo, una storia credibile che sfrutti tutte queste belle intenzioni e le tramuti in un buon film.  
 


  Joan Collins





Caroline Munro



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