768_LA SCALA DELLA FOLLIA (Dark Places). Regno Unito; 1973. Regia di Don Sharp.
Una grande villa nel buio, illuminata da una luce inquietante, accompagnata da una musica sinistra: comincia nel modo più classico La scala della follia, horror che prova, e ci riesce, a rinverdire i fasti della tradizione gotica britannica. Del resto l’onesto regista Don Sharp aveva lavorato negli anni sessanta per la gloriosa Hammer e a quel bagaglio tecnico cinematografico l’autore fa ricorso per confezionare al meglio il suo film. Come detto, cogliendo in pieno il bersaglio: il racconto si srotola sui cliché del filone delle case infestate, anche qui c’è la presenza di fantasmi di bambini uccisi, ma la storia è assai ben congeniata e il regista, conoscendo il mestiere, non concede pause e conduce in porto il risultato. Fa specie notare come, negli horror del tempo, fosse quasi pacifico mettere in campo l’infanzia senza alcuna connotazione d’innocenza ma semmai del suo esatto contrario. A parte qualche caso specifico, nella maggior parte di questi film, e anche di questo La scala della follia, la questione non è approfondita ma, nell’insieme dei numerosi esempi, la cosa desta un certo rilievo. Le case degli horror degli anni 70 erano quindi davvero sinistre, se non restava nulla di innocente nel focolare domestico, nemmeno la prole. Nello sviluppo della trama de La scala della follia è notevole, forse una delle cose migliori, l’innesto improvviso dei tanti flashback che rivelano la vicenda del passato. Provvidenziale, e ben studiata, la malattia mentale del protagonista, che permette di giustificare a rigor di logica il tutto, senza per altro risultare pesante o superflua.
Buona la prova del protagonista, Robert Hardy nei panni di Edward Forster (anche se in realtà l’attore si produce in un doppio ruolo), che risulta particolarmente efficace quando torna a riperdere il senno. Ma i veri assi della pellicola sono Christopher Lee e Joan Collins: nel film sono due lochi figuri, il dottore del paese e sua sorella, che cercano di accaparrarsi il bottino nascosto nella villa infestata. Lee è un vero monumento del cinema, in particolare di quello britannico e in particolare nell’interpretazione di Dracula; il ruolo di un avido dottore, morbosamente attratto dall’avvenenza della sorella ma mortificato dalla dissolutezza di lei, non è che gli conceda troppo spazio, all’interno de La scala della follia. Tuttavia la sua incombente figura che si aggira per il film lascia sempre un po’ inquieti mentre è un passaggio divertente (se così si può dire) il suo finire impalato (quasi fosse ancora un vampiro) dal piccone di Edward. Il centro della scena è invece nettamente appannaggio di lei, Joan Collins che, anche se figura con un minutaggio inferiore ad Hardy, il protagonista della storia, si divora letteralmente tutti gli spazi disponibili. In effetti, come per lei d’abitudine, Joan interpreta il ruolo di mangiatrice di uomini, in questo caso con un interesse venale assai specifico, i soldi nascosti da qualche parte nella villa.
Ma, anche stavolta, il suo personaggio non coronerà i suoi sforzi, finendo, al contrario, strangolata da Edward ormai completamente impazzito. Nel finale, infatti, l’uomo è ormai in preda alle folli fantasie con cui ricostruisce i drammatici eventi che hanno dato origine alla maledizione che grava sulla magione; anche per lui non ci sarà, peraltro, lieto fine. Se per l’attore Robert Hardy la cosa può anche essere circostanziale, è invece stato un destino comune a diversi ruoli di Joan Collins, almeno a partire da La Regina delle Piramidi (1955, Howard Hawks) in poi; forse, inconsciamente, registi e produttori, verrebbe da dire il cinema stesso, rimproverava all’attrice inglese la sua spudorata capacità di approfittare del proprio aspetto. Quasi una vendetta maschilista, questi finali tragici destinati alla Collins, che tuttavia non vedrà mai, nemmeno nelle sconfitte ai tempi di Dinasty (soap opera degli ’80), scalfitto minimamente il suo irresistibile charme. Joan è stata capace di interpretare per anni una dark lady indipendente dai generi cinematografici, cristallizzando nel suo personaggio tipico le caratteristiche di un decennio, gli anni ’80, anche con grandissimo anticipo sui tempi. Un personaggio certamente non edulcorato, ma credibile e rivelatore di una considerevole dose della natura femminile. Oltre che grondante di fascino e classe.
Nessun commento:
Posta un commento